Blog / Luciano Sesta | 11 Settembre 2018

Le Lettere di Luciano Sesta – “Meglio sposarsi che ardere”? Il matrimonio fra celibato e incontinenza

  1. “Meglio non sposarsi”

 “Meglio non sposarsi”. Chi potrebbe non condividere questo prudente consiglio? Oscar Wilde diceva che il matrimonio è come quelle feste in cui chi è fuori vorrebbe entrare, mentre chi è dentro non vede l’ora di uscire. Quello che, con un termine stanco e poco attraente, è chiamato “amore coniugale”, suona in effetti come un amore di serie B, un amore di routine che, in fondo, non è amore, se è vero, come ha detto de Bussy-Rabutin, che “chi non ama troppo non ama abbastanza”. Se, poi, andiamo a guardare nella tradizione occidentale chi è che “ama troppo” e, dunque, chi è che “ama davvero”, troviamo due categorie di amanti: coloro che, bruciando di passione per Dio, lasciano tutto (ascetismo cristiano), e coloro che, bruciando di passione per le donne, le lasciano tutte (romanticismo libertino). Né i primi, né i secondi, possono accontentarsi della routine coniugale. Il matrimonio è da sempre sotto assedio. E quando si tratta di svalutarlo, anche i peggiori nemici, come l’ascetismo e il libertinismo, diventano amici.

È sotto gli occhi di tutti: l’amore matrimoniale esce perdente sia dal confronto con l’amore casto per Dio, tipico del cristianesimo, sia dal confronto con la passione extraconiugale, tipica del romanticismo. Se paragonato a questi due estremi opposti, il legame fra due persone sposate non è vero amore, o, se lo è, è comunque un amore di seconda scelta: in questo il cristianesimo di san Paolo è perfettamente d’accordo con i libertini del Settecento e con l’odierna svalutazione del matrimonio, considerato la “tomba dell’amore”. Quando si tratta di giudicare il matrimonio, non importa che il primato lo abbia la consacrazione a Dio o alla promiscuità sessuale. Ciò che accomuna chi si dedica solo a Dio e chi, invece, solo a Venere, è la disistima per l’umiltà di un amore quotidiano, e dunque poco eroico e appariscente, come quello coniugale. Ed ecco che gli estremi si toccano: il puritano san Paolo e il sessuomane De Sade possono dire, entrambi, che “non sposarsi è meglio”.

Prevedendo che alcune delle cose che scriverò potrebbero essere interpretate come una critica senza appello alla tradizione cattolica, chiarisco subito il mio reale intento: restituire al celibato e al matrimonio cristiani la loro rispettiva dignità, evitando che la grandezza dell’uno si basi sulla denigrazione dell’altro. Come, purtroppo, è invece storicamente avvenuto in una corrente teologica prevalente della tradizione cristiana, e come, purtroppo, pensano ancora oggi in molti all’interno della Chiesa di Roma. La cui posizione ufficiale sul tema è chiaramente espressa dal punto 10 del canone sul matrimonio del Concilio di Trento, in cui si legge: «Se qualcuno dirà che lo stato coniugale è da preferirsi alla verginità o al celibato e che non è cosa migliore e più beata rimanere nella verginità e nel celibato, che unirsi in matrimonio, sia anatema» (XXIV, 11 novembre 1563).

Da dove comincia questa storia? Nella tradizione cristiana, a partire dalla Prima Lettera ai Corinzi di san Paolo, si afferma che il matrimonio è un bene, ma che non sposarsi è meglio. Rafforzando un’idea già presente nell’ambiente greco al quale si rivolgeva, e cioè che per dedicarsi a cose realmente importanti come la filosofia o la politica non bisogna avere moglie e figli, fonte di continue preoccupazioni, san Paolo presenta il matrimonio come un ripiego per chi non riesce a trattenere le proprie pulsioni sessuali.

 

È cosa buona per l’uomo non toccare donna; tuttavia, per il pericolo dell’incontinenza, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito […]. Non astenetevi tra voi se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera, e poi ritornate a stare insieme, perché Satana non vi tenti nei momenti di passione. […]. Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere. […]. Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella carne, e io vorrei risparmiarvele. […] d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; […] perché passa la scena di questo mondo! Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo poi lo dico per il vostro bene […] per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni. Se però qualcuno ritiene di non regolarsi convenientemente nei riguardi della sua vergine, […] faccia ciò che vuole: non pecca. Si sposino pure! Chi invece è fermamente deciso in cuor suo, non avendo nessuna necessità, ma è arbitro della propria volontà, ed ha deliberato in cuor suo di conservare la sua vergine, fa bene. In conclusione, colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio[1].

  1. Il matrimonio è un bene. Anzi no, un male minore

Come si può vedere, secondo san Paolo sposarsi non conviene. In base a un elementare calcolo costi-benefici, infatti, il matrimonio provoca più perdite che guadagni. La condizione di “single religioso” è invece molto più comoda: come al filosofo greco e romano dava la libertà di dedicarsi alla filosofia, non avere moglie e figli dà, all’asceta cristiano, la libertà di dedicarsi alle cose di Dio, senza distrazioni. Per chi, invece, non è capace di questa libertà, san Paolo rassicura: essere sposati o decidere di sposarsi non è un “peccato”, ma semmai un rimedio alla propria incapacità di astenersi dal peccato, visto che, per chi non se la sente di darsi totalmente a Dio, l’alternativa è “ardere”, e cioè non riuscire a trattenere i propri desideri sessuali, rischiando di sfogarli nella promiscuità. Da qui l’idea cristiana, poi modificata nel cattolicesimo più recente, che il matrimonio sia un remedium concupiscientiae, e cioè un tentativo di canalizzare, in forme moralmente accettabili, un desiderio sessuale altrimenti anarchico e sovversivo[2]. Il matrimonio, dunque, è un “male minore” rispetto alla propria incapacità di rinunciare al sesso, e un “ripiego” rispetto all’alternativa del celibato e della verginità. Com’è possibile allora definirlo un “bene”, come fa san Paolo?

Troviamo la risposta in sant’Agostino: «come è male servirsi male di un bene, così è bene servirsi bene di un male»[3]. Se il matrimonio è un “bene”, insomma, non lo è perché il sesso fra persone sposate sia un “bene”, ma perché è l’unico contesto in cui ci si può servire “bene” di quel “male” che è il piacere sessuale. E poiché “servirsi bene” di un “male” significa astenersene il più possibile, ecco che san Paolo consiglia agli sposati di rinunciare, ogni tanto, ai rapporti sessuali, per imitare il più possibile la vita perfetta dei celibi e delle vergini, però raccomandando, subito dopo, di tornare a unirsi, “perché Satana non vi tenti nella vostra passione”, e cioè per evitare di tornare a bruciare di passione per altri uomini o per altre donne, che non siano il legittimo coniuge. Il motivo per cui bisogna tornare a unirsi sessualmente, dunque, non è la “bontà” del sesso matrimoniale, ma il rischio di peccare nel caso in cui l’astinenza si prolunghi oltre un certo limite di sopportabilità.

  1. Meglio sposarsi che ardere. Anzi no, meglio ardere che sposarsi

Come si può vedere, nel primo cristianesimo – e in realtà fino alla seconda metà del Novecento – il matrimonio ha la funzione di spegnere il fuoco dell’ardore sessuale, considerato un’energia potenzialmente pericolosa. Quasi tutti i Padri della Chiesa, e soprattutto Agostino, sono infatti convinti che il matrimonio sia un rimedio al peccato dell’uomo, un ripiego per chi non ha ancora raggiunto la perfezione dell’amore cristiano, che esige invece la completa astinenza sessuale. Se a due persone sposate è consentito fare l’amore, dunque, ciò non avviene perché fare l’amore sia per se stesso un “bene”, ma per evitare un duplice “male”: l’uso della sessualità al di fuori del matrimonio e l’estinzione della specie. Ci si può chiedere, a questo punto, cosa accade se, nonostante abbiano seguito tutte le indicazioni del caso, due sposi desiderino lo stesso godere sessualmente l’uno dell’altro. Cosa accade, in altri termini, se l’unirsi e l’astenersi raccomandato, anziché spegnere o calmare il desiderio, lo accendono e lo alimentano? Ecco la risposta di San Giovanni Crisostomo: quando gli sposi si uniscono non per spegnere il desiderio di godere, ma al fine di godere, allora vuol dire che il vizio che il matrimonio dovrebbe combattere, e cioè l’incontinenza, si è insinuato nel matrimonio stesso[4].

Qui i Padri della Chiesa si spingono ben al di là di san Paolo. Per loro, infatti, credere di poter spegnere il desiderio con il matrimonio, come pensava san Paolo, significa in realtà giocare con il fuoco. E chi lo fa, com’è noto, finisce prima o poi per bruciarsi, come dimostrano i tradimenti coniugali e la tendenza delle persone sposate a cercare altrove una soddisfazione sessuale che, pure, avrebbero a portata di mano. E dunque? Ecco la severa soluzione di Tertulliano e di altri: se per soffocare il desiderio occorre usare un piacere che anziché spegnere il desiderio finisce per alimentarlo, allora bisognerà ribaltare il paolino “meglio sposarsi che ardere”, dicendo, al contrario, “meglio ardere che sposarsi”[5]. Meglio cioè resistere al fuoco del proprio desiderio astenendosi dal soddisfarlo, che soddisfarlo con il rischio di alimentarlo ancora di più. E torniamo così nuovamente al “non conviene sposarsi” e al primato dell’astinenza sessuale per poter piacere solo a Dio. Se il matrimonio è questo insieme di complicazioni, se uno è già sposato, rimanga pure sposato, scrive Paolo, e accetti la propria fatica come un’occasione di santificazione personale. Ma se uno non è sposato e può scegliere, “è meglio non sposarsi”. Chi dunque non ha una donna o un uomo, non se li vada a cercare.

Si viene così a creare un meccanismo curiosamente analogo a quello a cui assistiamo oggi in relazione alla pornografia: se fino a qualche tempo fa, in relazione al rischio di violenza sessuale, alcuni sessuologi e psicoterapeuti attribuivano alla pornografia la stessa funzione di remedium concupiscientiae che Paolo e i primi Padri attribuiscono al matrimonio, oggi la sessuologia ci parla di sexual addiction, e cioè di dipendenza sessuale creata da quella stessa pornografia che avrebbe dovuto sedarne gli eccessi. San Giovanni Crisostomo e Tertulliano mi perdonino, dal Cielo, l’ardita analogia, ma, limitatamente al problema della sessualità, la loro idea di matrimonio cristiano non è sostanzialmente diversa da quella che oggi i sessuologi hanno di YouPorn: un rimedio all’incontinenza che può diventare, da un momento all’altro, il luogo della sua più incontrollabile esplosione.

  1. Gesù: “il matrimonio è questo”. San Paolo: “allora non conviene”

Accanto a questi aspetti un po’ inquietanti, l’idea paolina del matrimonio ne presenta altri molto positivi. Sulla base di quanto aveva già detto Gesù nei Vangeli, nel matrimonio l’uomo e la donna diventano una carne sola, e sono chiamati alla fedeltà reciproca. Contrariamente agli usi e ai costumi degli antichi, inclusi gli stessi ebrei, il cristianesimo introduce qui una forte novità: chi si sposa, sappia che non dovrà tradire il proprio sposo o la propria sposa, e che non sono dunque permessi il divorzio e le seconde nozze. Al sentire queste parole, anche quando a pronunciarle fu Gesù stesso, alcuni dei suoi ascoltatori commentarono dicendo: “ma se è così, allora non conviene sposarsi[6]. In una cultura abituata alla revocabilità del matrimonio, e in cui l’uomo tende a cambiare la propria donna frequentemente, l’indissolubilità del matrimonio appare subito impopolare. Il matrimonio comincia ad assumere l’aspetto di una “trappola” da cui tenersi prudentemente lontani. Unendosi al coro dei perplessi ascoltatori di Gesù, anche san Paolo ripete: “allora sposarsi non conviene”. Se il messaggio di Gesù sulla grandezza del matrimonio non è mai veramente decollato, è dunque anche a causa di quello stesso San Paolo che, pure, si era presentato come il suo più fedele testimonial. Non ci si può infatti limitare a dire che “non è peccato” ciò che, per Gesù, è invece il disegno originale di Dio sull’uomo e sulla donna.

Ed ecco l’ambiguità di fondo della dottrina proto-cristiana su matrimonio e verginità: poiché gli aspetti positivi del matrimonio cristiano, come la fedeltà reciproca e l’indissolubilità, sono anche quelli umanamente più impegnativi, non è facile capire quanto la decisione di non sposarsi “per piacere solo a Dio” sia dovuta a motivi autenticamente “spirituali” e quanto, invece, a considerazioni di convenienza puramente “materiale”. In altre parole: una volta che il matrimonio non può più essere sciolto, la decisione di non sposarsi è dettata dal desiderio di appartenere per sempre a Dio o dalla paura di dover appartenere per sempre a un’altra persona?

È naturale che nessuna scelta che sia umana potrà mai essere puramente disinteressata. Ma, proprio per questo, non bisognerebbe presentarne alcune come se invece lo fossero. Una volta che il matrimonio è elevato a sacramento, peraltro, non avrebbe senso attribuire alla scelta del celibato un carattere soprannaturale che, invece, mancherebbe nel matrimonio. È così come la scelta di sposarsi risponde sia al bisogno di amore sia alla paura della solitudine, anche la scelta di non sposarsi per piacere solo a Dio si basa su un intreccio confuso di desideri e di paure. Ne sono una chiara testimonianza i numerosi testi della tradizione cristiana dedicati al confronto fra il matrimonio e la vita consacrata, in cui gli autori, sempre uomini e celibi, cercano di giustificare la superiorità della loro scelta elencando, sulla falsariga di san Paolo, gli inconvenienti del matrimonio: sposarsi significa esporsi all’insicurezza e all’ansia, significa dover provvedere ai bisogni di altre persone e affezionarsi a loro quando, alla fine, le si dovrà vedere morire e soffrire ecc[7]. Gregorio di Nissa giunge a mettere in guardia gli sposi dal non lasciarsi trascinare dal piacere sessuale, ricordando che il loro letto nuziale può sempre trasformarsi, improvvisamente, nel loro letto funebre[8].

Sembra dunque che Dio non abbia creato Eva per Adamo e Adamo per Eva, ma entrambi, e separatamente, per Se stesso. L’uomo e la donna non sarebbero chiamati a lasciare il padre e la madre per divenire una sola carne (Gn 2, 24), ma per stare ciascuno nella propria pelle. Altrimenti non si direbbe, come fanno san Paolo e i primi Padri, che il matrimonio crea ansia e dipendenza nelle donne, preoccupazioni e schiavitù nell’uomo. A dispetto del disegno originario di Dio, ricordato da Gesù, qui si dice che la verginità delle donne e il celibato degli uomini libera le une e gli altri dalle incombenze e dalle preoccupazioni che la loro unione avrebbe creato: «La vergine è libera, è felice, è tranquilla. Senza figli che rischiano di diventare organi o malati o delinquenti; senza un marito mortale che potrebbe non passare mai più quella soglia, lasciandola vedova, povera e derelitta; senza una casa che potrebbe andare in rovina da un momento all’altro; è lei, la vergine, a gustare la vera felicità su questa terra. Indipendente, perché non succube di un marito, è serena perché non ha niente da perdere e niente da temere. E non perché il suo sia uno stato di indigenza, ma al contrario perché è lei a possedere davvero e per sempre uno sposo immortale, che non si assenta mai, che non la lascerà mai; la verginità realizza ciò che il matrimonio umano crede pateticamente di essere. […]. Chi non si sposa si occupa delle sole cose che non creano inquietudine e danno piena soddisfazione»[9]. Come si può vedere, una volta che, del matrimonio, si sia detto il “peggio”, è del tutto ovvio che sia “meglio” evitarlo.

  1. Amare Dio pur di non amare nessuno

Nietzsche, maliziosamente, riteneva questo genere di idee sulla sessualità e il matrimonio come frutto del risentimento di uomini celibi, costretti a gettare fango su ciò a cui hanno rinunciato a malincuore, per rassicurarsi di aver fatto la scelta migliore, ben sapendo, in realtà, che non lo è affatto. Quale che sia la verità, è certo che la diffidenza del primo cristianesimo nei confronti del matrimonio ha una motivazione non solo teologica, ma anche psicologica, trovando terreno fertile nella paura, tutta maschile, di un legame definitivo, e in quella, tutta femminile, di soffrire a causa di un marito dispotico o delle peripezie dei propri figli. Paura che, nel caso degli uomini, e nell’antichità fino al tardo Medioevo, si mescola anche a una certa misoginia, ossia a un diffuso disprezzo della donna, considerata come un essere umano inferiore e tentatore: “è cosa buona per l’uomo non toccare donna”, dice non a caso san Paolo.

In un simile scenario, il celibe e la vergine rischiano di guardare tutti coloro che sono sposati con aristocratico distacco, proprio come i filosofi antichi, forti del loro ascetismo, guardavano gli altri cittadini. Quando poi entra in gioco la questione della procreazione, questo senso di superiorità si fa ancora più spiccato, assomigliando molto a quello che, nel Simposio di Platone, mostrano gli intellettuali omosessuali nei confronti degli eterosessuali, declassati a “funzionari della specie”, perché si uniscono non per amore dell’amore, ma allo scopo di generare figli. Nello stesso cristianesimo antico, e fino al Codice di diritto canonico del 1983, infatti, chi si sposa può farlo non solo per spegnere il fuoco del desiderio, ma anche per fare figli, e cioè una sorta di “lavoro sporco” che ci assimila agli animali inferiori, e che non è degno di chi vive più nella grazia che nella natura.

La castità perfetta, non a caso, potranno permettersela solo alcuni pochi individui eroici, che indicheranno a tutti gli altri, costretti ad accontentarsi del matrimonio a causa della loro debolezza, la condizione celeste di chi “non prende né moglie né marito”: «il matrimonio è per i soldati, non per lo stato maggiore di Cristo. Così, mangiare è esigenza dell’individuo, mentre generare è soltanto esigenza della specie, e i singoli possono rinunciarvi»[10].

Non potersi sottrarre a un’esigenza della specie, si badi, è una caratteristica tipica dell’animale, che, proprio per questo, non ha un valore in sé come individuo, ma solo come “esemplare” della specie a cui appartiene. Se l’uomo è una persona, invece, è perché è capace di elevarsi al di sopra delle esigenze della specie, diventando un vero e proprio “individuo”. Dalla valorizzazione dell’individuo all’individualismo, però, il passo è breve. Come ha acutamente notato Charles Peguy, infatti, alcuni celibi e alcune vergini credono di amare Dio perché, in realtà, non amano nessuno. Il loro “elevarsi” al di sopra delle esigenze della specie diventa, in tal senso, un tirarsi fuori dall’umanità che si condivide con tutti gli altri. Se è vero, in effetti, che si trovano in giro tante persone sposate nervose e stressate, è anche vero che non sono rari i casi di persone consacrate o celibi del tutto anaffettive, incapaci di sentimenti genuinamente umani. Quando si è troppo preoccupati di strappare la zizzania delle passioni, si finisce per estirpare anche il grano degli affetti, come nel dilemma ben espresso da John Donne: «Che i nostri affetti non ci uccidano, né muoiano».

Il “single di Dio” rischia così di rimanere a distanza di sicurezza dall’Incarnazione del Verbo, che ci pone di fronte al prossimo senza possibilità di scansarlo. La più sottile insidia, in tal senso, è che il celibato diventi l’istituzionalizzazione del “passare oltre” del sacerdote e del levita di fronte al samaritano ferito: quando, a distanza anche dai membri della famiglia di appartenenza, non ci sono moglie, marito o figli, il celibe e la vergine possono sempre pensare che il loro prossimo non sia quello che hanno davanti. Forse ora occorre pregare, non dare l’elemosina. O forse occorre celebrare, non ascoltare un importuno parrocchiano. Forse il mio prossimo non è qui e adesso, ma altrove e domani. Il mio prossimo è uno, nessuno e centomila. Dunque forse nessuno… Tradire un generico “prossimo” non è tradirlo, fin quando il prossimo non è tale innegabilmente, come nella famiglia. In questo senso, e senza volerlo, la dottrina paolina – e poi agostiniana – su matrimonio e celibato finisce per giustificare la tendenza, tipicamente borghese, a farsi i fatti propri e a considerare tutto, inclusa la fede religiosa, in termini di convenienza personale. Il moltiplicarsi di pratiche devote e di sacrifici offerti a Dio farà il resto, rassicurando l’interessato che egli è certamente dalla parte giusta. È impossibile, infatti, ricorrere continuamente ai sacramenti e imporsi sacrifici senza avere Dio dalla propria parte. E se dovessero sorgere dei dubbi, la consapevolezza delle “rogne” matrimoniali ricordate da Paolo e dai Padri dovrebbe farli passare, restituendo la certezza di non aver sbagliato. 

  1. Platone per i celibi, Darwin per gli sposati

Questa deformazione insita nel celibato ha inevitabili contraccolpi anche sul matrimonio, guardato non più come il luogo, condiviso, in cui l’uomo e la donna diventano una cosa sola, ma come uno strumento che ciascuno dei due utilizza, o evita, per il proprio bene personale. Chi si sposa per “non ardere”, usa la propria moglie come temporaneo sfogo sessuale, al fine di non cadere nel peccato di fornicazione, e cioè per non avere rapporti sessuali senza essere sposato. Analogamente, chi evita il matrimonio perché vuole piacere soltanto a Dio, pensa solo alla propria perfezione personale, magari credendo di amare Dio solo perché, in realtà, non ama nessuno. In entrambi i casi al centro non c’è affatto “Dio” ma l’“io”. Che, per quanto sublimato, rimane pur sempre un povero “io”. Ed è un “io” tanto più pericoloso, quanto più è invece convinto di aver rinunciato a se stesso, permettendosi giudizi e comportamenti, in nome di Dio, che, in nome del proprio io, nessuno potrebbe mai permettersi di formulare e di adottare.

Il celibato e la verginità, in quest’ottica, possono essere considerati un test di superiore spiritualità solo a condizione di fare della sessualità e della procreazione umana una funzione puramente animale: se anche il fare l’amore di un uomo e di una donna si riduce a un accoppiarsi e riprodursi, infatti, è chiaro che chi si astiene da questa pratica sarà spiritualmente più “nobile” di chi, invece, non è capace di astenersene. In questo modo ci si lascia sfuggire la peculiarità dell’antropologia cristiana, la quale, essendo basata sull’Incarnazione, vede nel corpo e nelle sue esigenze non un nemico dell’anima, ma il suo principale collaboratore. La sessualità non è cattiva, ma è al servizio dell’amore. A distinguerci dagli animali non è dunque la rinuncia alla sessualità, ma la capacità di viverla come espressione dell’amore e non del semplice istinto. L’idea paolina che il matrimonio sia per coloro che non sono padroni della loro volontà (1 Cor 7, 37) è in tal senso riduttiva e persino offensiva nei confronti di tutte le persone che si sposano. Nietzsche vi avrebbe visto l’incapacità dell’uomo Paolo di sopportare l’idea che il proprio celibato fosse, rispetto alla coraggiosa scelta di sposarsi, espressione di debolezza e di codardia, piuttosto che di forza morale. Perché l’astinenza perpetua abbia un superiore valore, in effetti, dobbiamo ridurre la sessualità a “incontinenza” e, dunque, a sfogo peccaminoso, bisognoso di rimedio (matrimonio) o di rinuncia (celibato). Si usano così due pesi e due misure: per gli sposati vale l’evoluzionismo di Darwin (“siamo animali programmati per la sopravvivenza della specie”), per i celibi lo spiritualismo di Platone (“siamo un’anima capace di dominio sul corpo”).

  1. Il matrimonio, questo sconosciuto

Anche questa strana oscillazione fra naturalismo e spiritualismo, che fa da base al primato che la tradizione cattolica ha attribuito al celibato sul matrimonio, ha una possibile spiegazione “psicologica”. E infatti, ad aver concepito l’idea che il matrimonio sia un remedium concupiscientiae finalizzato alla procreazione, al servizio di una natura puramente biologica o decaduta a causa del peccato, e che il celibato rappresenti invece un’esaltazione dell’individuo rinnovato della grazia, sono stati uomini celibi alle prese con la giustificazione teologica della propria condizione di vita. Non è dunque escluso, come si diceva prima, che essi abbiano proiettato, sull’intimità coniugale, la propria personale esperienza sessuale, identificata però con il peccato, perché mai vissuta nel contesto in cui essa assume invece una valenza positiva e santa, ossia il matrimonio stesso.

Il celibe, soprattutto se, come sant’Agostino, si è convertito anche attraverso una lotta con la propria sensualità, tende così ad attribuire anche alla sessualità matrimoniale caratteristiche che essa, per chi la vive, di fatto non possiede. Per chi è celibe a motivo di Dio, infatti, la sessualità potrebbe apparire come un fantasma da esorcizzare. E lo era certamente per Agostino, che ha esplicitamente collegato la propria conversione alla decisione di abbandonare la propria vita sessuale. Chi ha conosciuto il sesso solo in termini di peccato, o perché non era sposato o perché si è poi consacrato, tenderà inevitabilmente a considerare anche il sesso matrimoniale come gravato da quelle stesse caratteristiche (senso di colpa, turbamento, accendersi e spegnersi continuo del desiderio ecc.), che esso di fatto non possiede. Cosa sia la sessualità matrimoniale, insomma, lo sanno davvero solo i cristiani sposati. Cosa siano il celibato e la verginità, invece, lo sanno tutti i cristiani. Se non tutti, infatti, sono sposati, tutti, invece, sono stati celibi o vergini. E non si tratta qui di ribaltare, in un’infantile competizione, il primato del celibato sul matrimonio nel primato del matrimonio sul celibato, ma solo di far notare che ciascuna delle due condizioni illumina l’altra, come dimostra il caso dei vedovi o delle vedove che, dopo la morte del coniuge, si sono consacrati. Sono loro, non a caso, ad avere lo sguardo più limpido, sereno e positivo sulla sessualità matrimoniale. Solo loro, infatti, sanno che “effetto fa” essere sia celibi sia sposati.

  1. Il matrimonio: stoltezza per i celibi, sapienza per gli sposati

È vero, dunque. Non conviene sposarsi. Sarebbe una follia, rispetto alla ben più conveniente e ragionevole condizione di celibe, come ci raccomanda san Paolo, o di libertino, come ci raccomanda il marchese De Sade. Già Platone, però, ci aveva detto che «I più grandi beni giungono a noi attraverso la follia»[11]. E Nietzsche ha scritto che se è vero «c’è sempre un po’ di pazzia nell’amore», è vero anche che «c’è pur sempre un po’ di ragione nella pazzia»[12]. Ed ecco che il matrimonio, fra gli opposti estremismi del celibato e della promiscuità, comincia a emergere come la forma insieme più facile e difficile di amore, come la sfida più impegnativa ed esaltante, perché è l’unica che può dirci di cosa sono realmente capaci un uomo e una donna quando, al di là della loro miseria, si incontrano realmente in una solidarietà di destino, come nel progetto originario del Creatore. E se è vero che tutto ciò che chiede di più dà anche di più, allora forse è proprio nel matrimonio che è racchiusa quella divina follia che è, insieme, la forma più alta di saggezza umana. Ciò che proprio san Paolo, guarda un po’, ci ricorda parlando del mistero della morte e della resurrezione di Gesù.

[1] 1 Cor, 7, 1-38.


[2] Cfr. R. G. De Haro, Matrimonio & Famiglia nei documenti del Magistero, Ares, Milano 1989.

[3] Sant’Agostino, De nuptiis et concupiscientia, II, 21, 26.

[4] San Giovanni Crisostomo, La verginità, XXXIV, 6.

[5] Il rovesciamento del paolino melius nubere quam uri nel melius uri quam nubere è testuale in Tertulliano, Esortazione alla castità, XIII, 3.

[6] Mt 19, 10.

[7] Tertulliano, Esortazione alla castità; Giovanni Crisostomo, Contro gli avversari della vita monastica; Gregorio di Nissa, La verginità. È un testo del 371 d.C., in cui l’esaltazione della verginità va di pari passo con una decisa denigrazione della vita matrimoniale e familiare.

[8] Gregorio di Nissa, La verginità, III, 4, 15-18.

[9] G. Sissa, Eros tiranno. Sessualità e sensualità nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari 2003, 215 e 232. In questo brano l’autrice sta riportando non il proprio punto di vista, ma il pensiero di alcuni Padri della Chiesa.

[10] J. Escrivà de Balaguer Cammino, Ares, Milano 2012, 28.

[11] Platone, Fedro, 244a.


[12] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Rizzoli, Milano 1996, 59.

Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica