Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (6)| Amore di Dio e libertà dell’uomo
Nel percorso di riflessione svolto finora, ho provato a fornire alcune ragioni teologiche a sostegno della speranza che tutti gli uomini possano salvarsi (1 Tm 2-4), e che nessuno di essi vada perduto (2 Pt 3, 9). Coltivata nella Chiesa sin dai primi secoli e, ancora oggi, raccomandata nella liturgia, una tale speranza non contraddice la possibilità della dannazione eterna, essendo piuttosto il criterio con cui interpretarla, e con un maggior senso del mistero di quanto non si faccia solitamente. Le critiche che sto proponendo in questo mio percorso, in tal senso, non si rivolgono alla dottrina cattolica sull’inferno, ma solo a una sua particolare interpretazione “giuridico-penale”. Quest’ultima, sfociando in una sorta di “automatismo della dannazione”, rende impossibile sperare nella salvezza di tutti gli uomini, che pure la Scrittura e la Chiesa raccomandano.
Nelle puntate terza e quarta, come si è visto, il concetto di “dannazione liberamente scelta” è risultato talmente improbabile – e non solo alla luce della ragione, ma anche della fede – da dare ulteriore forza alla speranza che possa non realizzarsi mai. Si tratta ora di valutare il peso di un’altra importante obiezione alla speranza della salvezza universale, che è la seguente: come potrebbe ancora chiamarsi “amore” un rapporto con un Dio che non mi dà alcuna possibilità di rifiutarlo, e, dunque, di amarlo liberamente e non per costrizione?
A questo riguardo bisogna precisare che, storicamente, la giustificazione della dannazione eterna che si appella al “rispetto divino della libertà umana” è recente, e si sarebbe persino tentati di considerarla un cedimento alla sensibilità liberale moderna. In effetti, prendendo in senso strettamente “sacramentale” la parola di Gesù secondo cui “chi non sarà battezzato non sarà salvato” (Mc 16,16), in alcuni periodi storici la Chiesa ha ritenuto che per finire all’inferno non fosse necessario sceglierlo liberamente, ma bastasse essere in stato di peccato originale, senza dunque essere stati battezzati con regolare rito. Nel 1439, per esempio, il Concilio di Firenze afferma solennemente che «le anime di quelli che muoiono in stato di peccato mortale attuale [e dunque avendolo scelto], o con il solo peccato originale [e dunque essendo semplicemente privi di Battesimo], scendono immediatamente all’inferno, per essere punite con pene diverse» (Concilio di Firenze, Bolla Laetentur Caeli, 6 luglio 1439).
Oggi i manuali di escatologia, e lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica, si guardano bene dal citare questo punto, che pure è magistero cattolico. La linea teologica prevalente, come si sa, è piuttosto quella “liberale”. In un suo testo sull’escatologia, dando voce a questa prospettiva, il cardinale Giacomo Biffi ha scritto:
«La concreta possibilità della dannazione è necessaria, se si vuol continuare ad ammettere la libertà creata nella sua vera essenza. La libertà dell’uomo non può ridursi alla possibilità di scegliere tra un luogo e l’altro di villeggiatura o tra una cravatta a righe e una cravatta a pois; e neppure di scegliere la moglie o il partito politico: la nostra libertà, nel suo significato più profondo, è la spaventosa e stupenda prerogativa di poter costruire il nostro destino eterno. Per non essere puramente nominale, questa prerogativa deve necessariamente includere la reale e concreta possibilità di decidere per la perdizione. Come si vede, il mistero della dannazione è essenzialmente connesso col mistero della libertà, che è forse l’unico vero mistero dell’universo creato» (G. Biffi, Linee di escatologia cristiana, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 67-68).
Sulla stessa linea, e con ancora maggiore profondità, troviamo un testo di Benedetto XVI, allora cardinale Ratzinger:
[Dio] non tratta gli uomini come esseri minorenni, i quali, in fondo, non possano essere ritenuti responsabili del proprio destino, [ma] lascia anche al perduto il diritto di volere lui stesso la propria perdizione. La particolarità del cristianesimo emerge qui nell’affermazione della grandezza dell’uomo: la sua vita è un caso di estrema serietà: non tutto in definitiva può essere presentato astutamente come un momento dei disegni di Dio; esiste ciò che è irrevocabile – anche la rovina irrevocabile – per cui il cristiano deve vivere in questa consapevolezza» (J. Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 2005, p. 21).
Come si può vedere, in entrambe le citazioni si afferma che senza possibilità di dannarsi eternamente, l’uomo non sarebbe libero, ma una specie di marionetta nelle mani di Dio. Non ci si accontenta, per così dire, della libertà di scegliere il bene o il male, ma si pretende che questa stessa libertà, per essere “reale”, si esprima anche come rifiuto di Colui che la rende possibile, e cioè Dio stesso. Ciò che lascia teologicamente perplessi, qui, è che la “salvezza” non è vista come l’opera con cui Dio restituisce alla libertà umana il suo potere di orientarsi nuovamente verso la propria vera felicità, ma come una forma di schiavitù, da cui può “liberarci” solo la possibilità di dannarci. Amare Dio senza alcuna possibilità di rifiutarlo non è considerato un atto di piena libertà, ma una forma di costrizione.
Non si può fare a meno di notare, a questo punto, che una certa teologia cattolica, quando si tratta il tema della “dannazione eterna”, sposa un concetto di “libertà assoluta” che, in altri ambiti, critica invece aspramente. In campo morale, per esempio, ci si guarda bene dall’affermare che senza la possibilità di abortire, uccidere, fornicare ecc., non ci sarebbe alcuna reale libertà. Nessun teologo cattolico direbbe che una persona che non riesce nemmeno a pensare di poter abortire, sedurre le mogli altrui, frodare e calunniare, è meno libera di una che invece lo fa. Eppure, nonostante la possibilità di scegliere il male non aumenti la nostra libertà, ma la restringa, non appena dalla morale ci si trasferisce nell’escatologia, ecco che senza possibilità di scegliere il male, e dunque di dannarsi, non ci sarebbe più alcuna “reale” libertà.
Tutto ciò, a ben vedere, contraddice apertamente la teologia e l’antropologia cristiane, per le quali l’uomo è realmente libero solo quando sceglie il bene, non quando sceglie il male. Non a caso Gesù afferma che “chi commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8, 34) e, a fronte di questa mancanza di libertà, aggiunge: “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 32). Prima di conoscere la verità, dunque, non c’è libertà, ma solo la schiavitù del peccato. E se è corretto affermare, nel quadro di una sana teologia cattolica, che solo in Dio c’è vera libertà, cosa ci autorizza a dire che senza la possibilità di allontanarsi per sempre da Lui non ci sarebbe alcuna “reale” libertà?
Pensare che senza la possibilità di rovinarsi non possa esserci libertà, significa fraintendere la secolare riflessione cristiana sull’autentica natura del libero arbitrio, che già Agostino distingueva in “libertas minor” (possibilità di fare o il bene o il male) e “libertas maior” (libertà di scegliere il bene, ormai al sicuro dal rischio di fare anche il male). La possibilità di rovinarsi è un segno che c’è libertà, ma non è vero il contrario, ossia che dove non c’è possibilità di rovinarsi non c’è libertà. Chi ottiene, e per sempre, ciò che desidera più di se stesso, non si sente meno libero per il fatto che ormai non può più perderlo. Se così non fosse, del resto, la Vergine Maria, priva di peccato originale, non sarebbe libera. La Madre di Dio, in effetti, non aveva alcuna possibilità né di peccare né di dannarsi, eppure nessuno direbbe che non fosse libera. Al contrario. La libertà di chi non può peccare è molto più reale, libera e autentica, della libertà tentata dal peccato e, dunque, dalla propria schiavitù. Come ha scritto san Francesco di Sales,
«La mano di Dio è così amorevole e abile nel farci sentire la sua forza senza toglierci la nostra libertà, da darci il movimento del suo potere senza impedire quello del nostro volere» (Francesco di Sales, Trattato sull’amor di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 1989).
Dalla bella sentenza di san Francesco di Sales deriva un’ulteriore e importante precisazione “metafisica”. Dio non sta davanti alla nostra libertà come una “cosa” che possiamo scegliere o rifiutare. Scegliere di rifiutare Dio potrebbe condurre lontano da Lui (inferno) solo se la nostra libertà fosse separabile da Dio. Se invece Dio è non solo “di fronte” alla nostra libertà, ma anche la “fonte” della nostra libertà, allora anche il “libero” rifiuto di Dio avviene in Lui e nel confuso desiderio di Lui: il peccato, lo si è detto nella terza puntata, è infatti un maldestro desiderio di quella stessa felicità che è Dio ad aver messo nel nostro cuore. Persino la “sofferenza” di non poter vedere Dio, che la tradizione considera la principale pena dell’inferno (la “pena di danno”), si basa ancora sul desiderio di Dio: può soffrire di non poter vedere Dio, infatti, solo chi continua a desiderare di vederlo. Ed è forse questo il senso più profondo della “discesa agli inferi” dell’Emmanuel, ossia di un Dio che è “con noi” anche quando “noi non siamo con Lui”.
La libertà, nel cristianesimo, non è la cosa più importante. La beatitudine celeste e l’Amore di Dio sono più importanti della nostra libertà. E una volta che si riconosca che la comunione con il Dio che lo ha creato e amato equivale a ciò che realmente ciascun uomo vuole e desidera con tutto il proprio cuore, non c’è più il rischio di interpretare la salvezza come una restrizione di libertà. La stessa libertà, e la possibilità di dannarsi insita in essa, è qualcosa che l’uomo possiede senza averlo scelto. E se non avrebbe senso dire che siamo “costretti” a essere liberi, non si può nemmeno dire che essere felici per sempre sia una costrizione. Se è vero, come scrive Tommaso d’Aquino, che «ogni creatura ama il Creatore più di se stessa» (Summa Theologiae, I, q. 60, a. 5), allora nessuno potrebbe sentirsi costretto a rimanere per sempre con ciò che desidera più di se stesso.
Ma esistono altri e ben più semplici argomenti a sostegno di quanto sto affermando. Chi pensa che se Dio non lasciasse all’uomo la possibilità di dannarsi non ne rispetterebbe la dignità di creatura libera, commette l’errore di pensare che essere salvati senza averlo “scelto” significhi “essere costretti”. Questo però è falso, almeno se la parola “salvezza” deve continuare ad avere un senso. Essere salvati, più che qualcosa che si “sceglie”, è semmai qualcosa che si “spera”. Chi viene salvato dopo aver corso il rischio di annegare per aver imprudentemente giocato con l’acqua, non “sceglie” di essere salvato. Quando si ritrova all’asciutto e vivo, però, certamente non imprecherà per essere stato tratto in salvo senza essere stato consultato, né avvertirà alcuna violazione della propria libertà.
L’idea che la salvezza di tutti gli uomini possa distruggere la libertà umana, insomma, attribuisce alla libertà un primato assoluto, che essa non ha né nel cristianesimo – dove il primato assoluto lo possiede non la libertà umana, ma la grazia di Dio e il nostro desiderio di vederlo – né nella vita in generale. La vita, in effetti, è piena di cose che, senza essere state scelte, o addirittura essendo state rifiutate prima di sperimentarle, ci rendono più liberi di quanto saremmo stati se avessimo seguito il nostro giudizio e le nostre scelte. Si pensi all’innamoramento. O alla nascita di un figlio indesiderato, o persino a una malattia e alla libertà dal nostro egoismo che ci procura la solidarietà finalmente “estorta” da un mendicante importuno. In tutti questi casi, ciò che rende liberi è ciò che non si è scelto. A volte persino ciò che si era rifiutato, per ignoranza e debolezza. E cosa esprime, in fondo, un Dio crocifisso, se non il mistero di un Amore che salva proprio in quanto è rifiutato?
Ci si può allora domandare: quando Dio “si ferma” di fronte a una libertà ripiegata sul peccato – e indotta a farlo, peraltro, anche a motivo dell’inclinazione a peccare con cui nasciamo senza averlo deciso noi (il peccato originale, di cui il battesimo, com’è noto, non cancella il fomes peccati, e cioè la sua cattiva influenza sulla nostra volontà) – si sta fermando davanti alla nostra libertà o alla sua fragilità? Sta rispettando la stessa libertà che ci ha donato Lui o si sta piegando di fronte al peccato che l’ha ormai totalmente sedotta? Sperare che tutti gli uomini siano salvati significa sperare che Dio non lasci che il fomes peccati, di cui non siamo responsabili perché nessuno ha scelto di averlo, condizioni la nostra libertà più di quanto potrebbe fare il suo Amore. Insomma, come ha scritto Hans Urs von Balthasar,
«Il punto è di sapere se da ultimo Dio, nel suo piano di salvezza, dipenda o voglia dipendere dalla scelta dell’uomo, o se invece la sua libertà, che vuole solo la salvezza e che è assoluta, non rimanga prevalente sulla libertà umana, creata e quindi relativa» (Sperare per tutti, Jaca Book, Milano 1989, p. 12).
Questo articolo fa parte della raccolta:
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (1)| Una (prudente) ipotesi sulla possibile salvezza di tutti
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (2)| La parabola di Lazzaro e del ricco
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (3)| Si può rifiutare Dio?
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (4)| Ci si può dannare liberamente?
Le Lettere di Luciano Sesta – Inferno (5)| Senza inferno tutto è permesso?
Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica