Se “mi” racconto mi conosci – Amare il prossimo non è fare l’elemosina

Continua la rubrica di Alessandra Bialetti «Se “mi” racconto mi conosci». Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]


«È accogliere in prima persona, perdonare e non giudicare», dice il sacerdote che si spende fra carcere e periferie.

Nella sua stanza, nella cascina Sant’Alberto alle porte di Milano, dove vive con una decina di giovani provenienti dal carcere, tiene un’immagine della Madonna – «la Madre» –, e una di don Chisciotte, «l’uomo dei grandi sogni». Come il cavaliere della Mancia, don Gino Rigoldi è sempre pronto a combattere le sue battaglie, anche ora che ha 76 anni. Per lui nessun mulino a vento, gli avversari sono l’indifferenza e l’individualismo.

Don Gino, c’è chi la chiama prete di strada e chi delle periferie. Lei come si definisce?

«Mi definisco un laico, come mi disse il rettore del seminario al termine degli studi, sottolineando che non ero adatto a fare il prete».

Partiamo dall’inizio. Ci racconta la sua storia?

«Sono nato in una famiglia operaia, in via Padova a Milano. Mio papà faceva il ferroviere, mia mamma stirava per far quadrare il bilancio, eravamo quattro figli. Il papà era abbastanza assente e ogni tanto beveva. Non era violento, ma non era significativo, la mamma era il pilastro della famiglia. A 13 anni sono andato a lavorare come meccanico, a 18 facevo paghe e contributi in una fabbrica di impianti elettrici».

Si dava da fare, aveva un obiettivo in particolare o lavorava per aiutare la famiglia?

«Volevo fare l’avvocato, o comunque fare della strada».

Poi ha pensato di entrare in seminario…

«Sì, a 18 anni. Un prete della mia parrocchia, don Tommaso Moltrasio, mi ha entusiasmato. Mi affascinava lo stare con i giovani, il vivere la carità. La mia fede non è nata in famiglia, mia mamma andava a Messa la domenica ma niente di più, mio padre e i miei fratelli non andavano nemmeno. Quando ho detto loro che volevo diventare prete solo mio padre era contento, perché guadagnavo più di lui e questo gli scocciava. Poi il primo impatto con il seminario è stato pessimo, ebbi un’impressione di mentalità chiusa… Comunque, pur facendo una grande fatica, sono rimasto. Ero l’unico che sapesse stenografare e dattilografare: è stata una fortuna perché, conoscendo i “potenti” da vicino, mi sono reso conto che, in fondo, siamo tutti uguali e che nella vita serve rispetto per tutti e soggezione per nessuno».

Com’era don Gino giovane prete?

«Sapevo cosa doveva fare il prete, nel suo ruolo classico, ma non avevo coscienza dei limiti. Alla parrocchia di San Donato Milanese ho radunato 400 persone in poco più di un anno, accogliendo tutti, anche di provenienza e idee politiche diverse».

Cosa trasmetteva ai giovani?

«La preghiera non era l’obiettivo principale, gli dicevo di volersi bene, di pregare con il cuore, senza ripetere i testi a memoria. Volevo far capire che ognuno ha una parte buona dentro di sé e che la cosa più importante è avere un po’ di autostima, essere onesti e vivere in amicizia».

Arriviamo a oggi. Chi è per lei Cristo?

«Dio, ma anche uno dei più grandi eroi dell’umanità: un uomo che ci ha detto tutto sulle relazioni, sullo stare insieme».

Cosa significa per lei la fede?

«Cercare il volto di Dio e creare relazioni con gli altri. La fede è un rapporto personale con Gesù Cristo, non è la Chiesa. Non smetterò di ripeterlo: non crediamo ai preti, ai vescovi, al Papa, ma a Gesù Cristo. E quindi, ma solo di conseguenza, anche ai preti, ai vescovi e al Papa. Vedo tanta gente che segue i precetti ma non ha un rapporto personale con Dio. Che fede è questa?».

Lei è cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano dal 1972. Qual è il segreto del bravo educatore?

«Lui stesso, la persona che è, e non c’è scampo. La crisi dell’educazione è legata al fatto che gli adulti hanno una identità di sé confusa che li rende “padri improbabili”».

Cosa ha imparato dai ragazzi del carcere? «Che in ognuno c’è qualcosa di buono. Oltre all’averlo sperimentato nella vita quotidiana, è anche una certezza teologica… siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio…»

A dicembre comincerà il Giubileo della misericordia. Oggi qual è il peccato più grave?

«L’individualismo. Il dramma poi è il sentirsi buoni per aver fatto il bene. L’amore per il prossimo non è la Caritas, ma il nostro amore per gli altri, quanto sappiamo accogliere, ascoltare, perdonare. Per i cristiani il condividere le ricchezze con i fratelli è un obbligo, come lo è il perdonare, il dedicare tempo a Dio. Certo, bisogna andare a Messa ed essere fedeli al coniuge, ma non bisogna fermarsi ai precetti cattolici».

E il “suo” peccato più grave?

«Il narcisismo. Ma, davvero, mi sono anche stancato di ricevere premi».

Qual è il personaggio biblico che sente più vicino a sé?

«Pietro, l’uomo più rovinato che però spalanca il cuore. Quando, sul lago di Tiberiade, Pietro vede Gesù, per raggiungerlo non si mette a remare ma si lancia direttamente in acqua».

Com’è don Gino nel confessionale?

«Cerco di far riflettere sulla gravità o meno dei peccati. Gesù non era meschino, ha predicato la giustizia, la pace, la condivisione dei beni, non si ferma certo alla superficialità dei peccati che siamo abituati a confessare».

Quando prega?

«Di mattina. Alle 6 do da mangiare al gatto e poi per un’ora sto con il Vangelo. Il mio pregare è un mettermi in ascolto, più che un domandare. Durante la giornata mi torna poi in mente quanto letto, come se fossi continuamente in dialogo con le Scritture».

Ha fondato Comunità Nuova a sostegno di bambini e ragazzi, è presidente di Bambini in Romania a favore dei piccoli romeni. Quali sono state le gioie più grandi della sua vita?

«I ragazzi che ho visto cambiare mi hanno dato le gioie più grandi. Davanti ai crimini più efferati ho sempre cercato di intuire e capire la storia delle persone. Non ho il giudizio facile, forse perché nel cortile in cui sono cresciuto l’umanità era varia… perfino la mia madrina di Battesimo riceveva uomini in casa… Mia mamma però mi diceva “te ghe de vorret bene, l’è una donna de cor” (“devi volerle bene, è una donna di cuore”, ndr). Così mi ha sempre accompagnato l’idea che, se vuoi prenderti cura delle persone, devi accettarle. Da qualche parte poi si ricomincia».

Dove sente invece di aver fallito?

«Con tutti i ragazzi che non sono riuscito ad aiutare, che non ho capito, che ho trattato in maniera superficiale».

Cosa vuole fare nei prossimi anni?

«Vorrei far decollare sempre più progetti di housing sociale, così che le giovani coppie possano sposarsi. Sostenere i carcerati con progetti di professionalizzazione. Dopo il decreto cosiddetto “svuota carceri”, migliaia di persone si sono trovate senza lavoro e senza casa, abbandonate a loro stesse. Non è giusto. Infine vorrei passare a don Claudio Burgio il ruolo di cappellano del Beccaria. Un prete solo nel fine settimana non basterebbe, e don Claudio è la persona giusta».

Da dove comincia la riforma della Chiesa?

«Noi preti dobbiamo iniziare a vivere ciò che predichiamo. In carcere la Chiesa comincia solo ora a essere accettata, perché i ragazzi riconoscono la coerenza di Francesco. Non bisogna più nominare vescovi i professori e nei seminari è necessario che il centro sia la relazione, non la liturgia».

Com’è la Chiesa dei suoi sogni?

«Una Chiesa capace di gesti profetici. Una Chiesa che, ad esempio, per sostenere la famiglia mette a disposizione appartamenti».