Articoli / Blog | 11 Dicembre 2017

Agi – Don Riboldi è stato, sopra ogni cosa, un prete

Interrogato su chi fosse don Riboldi, Saviano ci pensa su e dice che era “un prete complesso”. “È stato il primo – dice – a cercare di interloquire con le organizzazioni criminali non dimenticando che sono pur sempre fatte da uomini. E quindi ha creato molte divisioni, si è attirato molte critiche. C’è stato chi ha detto: no, se apri un fronte d’incontro con la camorra sei loro complice. Ma lui – ha continuato lo scrittore – non è scappato, ha affrontato le contraddizioni che, chi opera come lui, non può che vivere”.

Mons. Riboldi, per tutti don Antonio, vescovo di Acerra per decisione del Beato Paolo VI, è stato un prete complesso. Io direi che è stato un prete. Perché un prete che non sia un prete complesso non è un prete. E sarebbe bello che la sua morte non fosse notizia perché vorrebbe semplicemente dire che la vita di tutti i preti è una vita complessa. Se Falcone e Borsellino sono stati eroi dell’antimafia significa che a quel tempo non tutti, non tutta la gente, non tutto il popolo, non tutti i giudici, non tutti, erano “antimafia”. Perché in tal caso sarebbero stati tutti eroi e quando tutti sono eroi, gli eroi singoli – quelli che la gente chiama “eroi” – non esistono più. Quindi, se tutti i preti fossero preti complessi, la morte di un prete sarebbe una “non notizia”, sarebbe la morte di un prete qualsiasi, sarebbe la morte di un prete la cui vita è stata complessa come quella di tutti i preti, come quella di tutti gli uomini che hanno deciso di vivere senza sconti.

Don Antonio, tu che nel 1997 sei stato tra i primi a mettere su internet le tue omelie, prega per me. Tu che sei davanti al Padre chiedi a Lui che anch’io sia un prete complesso. Che anch’io sia un prete che vuole mettersi sulle orme di Gesù ed essere, con Lui e con te, scandalo e follia per amore di Cristo e dei fratelli.

“Meglio ammazzato che scappato dalla camorra”: queste parole dette da don Riboldi nel paese di Raffale Cutolo non erano il segno di qualcuno che cercasse la notorietà ed essere eccezionale; non sono state le parole di un prete esibizionista che voleva “apparire martire”. Erano un segno tra i tanti di un uomo, di un prete, di un vescovo, che si immischiava nella vita dei fratelli tanto da cercare sempre dialogo con chiunque e quindi anche con la camorra. Non per approdare al generico buonismo del “volemose bene” ma perché Gesù faceva così.

I malati hanno bisogno del medico e non i sani e pazienza se i benpensanti si scandalizzano. E pazienza se la camorra cerca di strumentalizzare il coraggio del dialogo e cerca di manipolare il suo coraggio cercando di leggere la testimonianza della Misericordia di Gesù come il desiderio di essere accomodante. L’amore – don Riboldi ne doveva essere ben convinto – non viene intaccato dalle strumentalizzazioni, non teme le manipolazioni e per questo l’amore accetta anche di apparire come quello che non è. Perché l’amore è libertà e non teme di essere imbrigliato; è gratuità e alla fine emerge sempre se operi con secondi fini o operi per amore. E poi, oltre che libertà e gratuità, l’amore è anche presenza. Quando terminò il suo mandato come vescovo ad Acerra per sopraggiunti limiti di età, don Riboldi continuò a stare tra la sua gente come prete qualsiasi, come cittadino normale, come uomo tra gli uomini: prete, dunque vicino. In mezzo. Presente. Continuando ad affrontare i problemi che aveva fronteggiato da prete. Perché, se sei di Cristo, essere prete non è un titolo e neanche un vestito, è la tua vita.

Tratto da Agi