Blog / Lezioni e Riflessioni | 28 Maggio 2017

Mauro Leonardi – Tuniche di pelle

Introduzione

Le riflessioni che seguono sono nate durante la stesura del libro Come Gesù. Documentandomi sulle tematiche riguardanti il celibato mi sono spesso imbattuto su questioni che riguardavano la resurrezione dei corpi, se nel paradiso terrestre c’era stata – o ci sarebbe stata vita sessuale – e così via. Come mio solito le ho studiate scrivendo, e scrivendo in modo tale che le pagine potessero essere pubblicate. Per qualche tempo pensai di introdurre un capitolo ad hoc nel libro, ma poi ritenni che non sarebbe state di facile comprensione e che non avrebbe aggiunto nulla di sostanzioso alla riflessione sul celibato; anzi, in un certo senso potevano essere fuorvianti. Ora, dopo cinque anni, le propongo qui – on line – aperto ai suggerimenti che chi vorrà potrà darmi e con la consapevolezza che possono essere suscettibili di miglioramento. Segnalo che sul blog è presente la voce Tuniche di pelli di Mateo Seco, tratte dal dizionario su Gregorio di Nissa, che costituisce un’ottima ricapitolazione della questione e che è stato il mio riferimento scientifico per queste pagine.

0.1 Una sola carne

Un luogo teologico nel quale suggestivamente lungo la storia della Chiesa molti si sono interrogati sulla relazione tra vita sessuale e vita pienamente umana è quello dei nostri progenitori nel paradiso terrestre prima del peccato originale.
Si può avere un’idea di un modo di affrontare questa tematica leggendo qualche articolo della Somma Teologica, ad esempio I, q.98 a 1, I, q.98 a 2, I-II, q.34 a 1: le questioni lì analizzate sono del tipo “se nello stato di innocenza ci fosse generazione attraverso il coito” o “se tutti i piaceri siano cattivi”. In tale analisi si sono cimentati in molti, non solo San Tommaso. Dell’elenco (non esaustivo) fanno parte San Agostino, San Girolamo, San Giovanni Damasceno, San Bonaventura, San Gregorio di Nissa, i catari, Amalarico di Benes, Sant’ Ambrogio, San Isidoro, Alcuino, San Bernardo, il Beato Duns Scoto, Ruysbroeck, San Massimo il Confessore.
Nel cercare di rispondere alla domanda sulla relazione tra vita sessuale e vita pienamente umana, è necessario sapere che per la dottrina cattolica sono essenziali tre punti. Il primo è che Adamo e Eva sono stati creati rispettivamente maschio e femmina fin dal primo istante della loro esistenza (“Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina?” – Mt 19,4); il secondo è che Adamo e Eva generano dei figli solo dopo il peccato originale, poiché questi vengono al mondo già segnati dal peccato originale; il terzo è che non si possono far discendere la vita sessuale e il matrimonio dal peccato originale: sarebbe gettare su di essi un giudizio di negatività che è certamente estraneo al pensiero cristiano. Come dice san Paolo, quelli che respingono come cosa cattiva il matrimonio e la generazione umana per via sessuale in esso implicata, hanno la coscienza bollata a fuoco perché abbandonano la guida dello Spirito per la dottrina dei demoni (cfr 1 Tim 4, 1-3).

Il perno attorno al quale ruota l’arcobaleno di tutte le posizioni è Gn 4,1: “Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino”. Gli antichi esegeti hanno sempre affermato che questa sarebbe stata la prima copula tra Adamo e Eva. I Santi Padri sono pressoché unanimi in proposito e tale opinione è stata seguita per molti secoli. San Tommaso per esempio scrive: “Nel paradiso terrestre esisteva il matrimonio. Eppure là non ci fu l’atto coniugale.” (Suppl., q. 42 a. 4, sed contra, 1). San Giovanni Crisostomo, in un’omelia in cui traccia un parallelismo tra Adamo e Cristo, e tra Eva e Maria, dice: “Una vergine, un legno e la morte furono i simboli della nostra sconfitta. La vergine era Eva, infatti non aveva ancora coabitato col marito. Il legno era l’albero. La morte la pena di Adamo. Ma ecco ancora una vergine, un legno e la morte, già simboli della sconfitta, diventare ora simboli della sua vittoria. Infatti al posto di Eva c’è Maria, al posto dell’albero della scienza del bene e del male c’è l’albero della croce, al posto della morte di Adamo la morte di Cristo.” (Omelia PG 49,396). Se ne potrebbero citare tanti altri ma per i miei fini è sufficiente. In realtà ci si può convincere abbastanza facilmente del fatto che quello narrato in Gn 4,1 sia il primo rapporto sessuale allorché si rifletta su due elementi. Il primo è, come già detto, che non sono stati generati figli prima del peccato originale. Il secondo è che non sembra essere coerente con la perfetta umanità di Adamo e Eva, l’eventualità di rapporti sessuali involontariamente infecondi: il binomio “si unì e concepì” è ripetuto più volte (Gn 4,17 e Gn 4,25) e ciò corrisponde all’Essere di Dio che è sempre fecondo. Ovviamente non va neppure presa in considerazione la possibilità di una vita sessuale volontariamente sterile: nella situazione dei nostri progenitori, questi atti sarebbero stati certamente immorali, e ciò non è compatibile con il loro stato di grazia.
Partendo da questi dati, le possibilità di intimità coniugale che si riferiscono all’intervallo di tempo tra la creazione della prima coppia e il peccato originale (e quindi estensibili alla teorica vita di un’umanità senza peccato originale), possono esserci solo se si ipotizza che Adamo e Eva avrebbero potuto avere un’unione corporale, non sessuale, attraverso una carnalità “misteriosa”, già maschile e femminile, e dotata di quei doni preternaturali che sarebbero successivamente stati persi con il peccato. Una certa linea di pensiero sostenuta da parecchi teologi, alcuni santi e altri no, era che, in qualche modo, fosse possibile realizzare il comando di Jahvè[1] di essere una sola carne, di essere un solo corpo[2], in un modo assolutamente più pieno e completo di quanto è possibile fare oggi attraverso la vita sessuale dell’uomo storico, quella che conosciamo noi: che è buona, splendida, ottima, ma che forse è un po’ “di meno” rispetto a quel qualcosa di misterioso che Dio aveva pensato per l’uomo nella situazione originaria. In quest’ottica la situazione attuale è tale per cui quando, per esempio, due coniugi pensano la loro copula con espressioni quali “eravamo un’ unica cosa, eravamo una sola carne” esse (le espressioni), anche pensando al meglio, hanno sempre il significato dell’iperbole, e mai quello della realtà letterale. Ecco, quello che voglio spiegare nelle prossime righe, è che nei secoli passati ci sono stati alcuni che hanno creduto alla possibilità di un’obbedienza letterale e non solo iperbolica al comando di YHWH.

0.2 Il canone di Bach

Quello che sto per affermare è distante dalla nostra sensibilità? Sì, immensamente. Tanto quanto credere che la terra sia al centro del cielo, o che si possa arrivare sulla luna in mongolfiera. Eppure vale la pena addentrarsi in questi arabeschi. C’è un canone di Bach a sei voci che non può essere cantato, non è destinato a voce umana, né a organo e a clavicembalo. È un canone che non può essere suonato. Non è suscettibile d’esecuzione. È musica pura, astratta musica. Può solo essere letta, solo ascoltata nella mente di chi sappia, col pensiero, seguirne i vertici e le volute. È musica che non prevede affatto d’essere fisicamente sentita: anzi lo esclude perfino. Quelle note stanno alla musica, sono in musica, come gli arabeschi che sto per esporre stanno alla realtà e, posso anticipare, alle nostre convinzioni. Come dirò infatti, io penso che Adamo e Eva non si siano uniti carnalmente nel paradiso terrestre, semplicemente perché avevano qualcosa di meglio da fare. Tuttavia vale la pena conoscere gli arabeschi. A volte i poeti e i sapienti hanno nell’umanità, lo stesso luogo di quei sogni intimi che non troveranno mai alveo nella nostra vita. Di quell’intenzione che è viva solo in quanto nostra intima e preziosa sofferenza. Che così è pietra di paragone, pietra angolare di tutti quegli altri sogni realizzati, desideri che hanno preso carne, tempo, aria. Sole.
La metafora cui mi riferisco, è fatta di mistici vuoti, d’assenza totale. Di mondi su mondi, di balzi da stella morta a stella vivente. È distante da noi quanto lo shuttle dal cielo di Tolomeo, quanto noi da quei sapienti. Alcuni di loro, nei discorsi che sto per affrontare, sono scivolati e caduti nello gnosticismo, nell’angelismo, nel platonismo, nel manicheismo, nel considerare la carne e quindi il sesso e la donna, un male: io avvertirò il lettore e così non faremo lo stesso errore. Bisogna sapere però che altri invece, e qualcuno è santo, hanno detto cose possibili, cattolicamente possibili, anche se improbabili.
Per esempio, non sappiamo quanto San Tommaso avesse ragione quando sosteneva che il cuore da cuore si muove, per la sua somiglianza con i movimenti del cielo[3]; che il pulsare del cuore è all’origine dei movimenti dell’uomo come i perfetti e regolari movimenti del cielo sono il principio di quelli del mondo. Non sappiamo quanto fosse nel vero, e tuttavia vale la pena sapere che il cielo, come spiegava Tommaso, si muove da cielo perché è il principio di tutti i movimenti del mondo. Non serve per volarci, ma serve per viverci. Non sappiamo quanto san Tommaso avesse ragione quando sosteneva la sua teoria (che poi “sua”, non era), ma è incantevole ritenere che il cielo abbia elaborato tale suo divenire per riuscire a tradurre il suo moto eterno, ineluttabile e continuo, nei mondani movimenti che sono invece fibrillazione e aritmia irregolare e che sembra impazzita. È stupendo capire che, a tal fine, per coniugare l’eterno con il tempo, il finito con l’infinito, il cielo si sforza di declinare il punto con il cerchio. Per questo, sembrerebbe, il cielo, si è inventato quel suo moto caratteristico: il movimento circolare e continuo. Così facendo, esso si avvicina e si allontana dall’uomo e perciò, pur rimanendo la sua una continuità inalterabile, essa, rispetto a noi, cambia, e perciò determina tutti i sussulti e gli spasmi di quaggiù. Analogamente, sostiene l’Angelico Dottore, si comporta il nostro cuore. Naturalmente, il moto del cuore non è circolare, bensì di pulsazione e contrazione. Proprio sistole e diastole però, hanno parecchio a che vedere con il cerchio, e dunque con il moto circolare del cerchio. Esse infatti, sistole e diastole, hanno le due caratteristiche essenziali del cerchio: qualcosa di fisso, un centro, da cui abbia inizio il movimento. E un movimento con la caratteristica di essere sempre equidistante dal centro, si sa, si chiama cerchio, diviene un circolo. Controprova della somiglianza tra movimento del cielo e movimento del cuore è che se si immagina di poter seguire di profilo, in orizzontale, il movimento circolare di un oggetto lo si vedrà andare e venire: cioè lo si vedrà “pulsare”.
Così, immagino quegli uomini che nei secoli passati, e sono tanti, si alambiccavano su come sarebbe stata la generazione dell’uomo se non ci fosse stato il peccato originale. Li vedo come puntini luminosi infissi sul miocardio, il muscolo del cuore, che batte e batte. Il loro cuore batteva per essere il punto di collegamento, di frizione, tra i movimenti del cielo e quelli della terra. Il loro cuore, avendo per metronomo il cielo, dava ritmo al sangue del mondo.
Essi, quegli uomini, quei rari sapienti, per essere poeti, saggi, “scienziati”, erano vicini all’uomo e lontani. Essi come stelle nell’astrolabio, come anime nella mistica rosa. C’è in loro il sacramento della distanza, il mistero del silenzio, il miracolo della certezza della mente. Codesti cercano l’ennesima distillazione, l’alef in cui il mondo riposa. Come un atlante grande e meraviglioso, esso si spiega dinanzi a loro da mantello imperiale qual è. I simboli di cui il mondo, a loro modo di vedere, è interamente intarsiato, svelano allora, sotto le loro riflessioni e le loro preghiere, il loro senso.
Ai margini si ergerà la loro esistenza in sottilissime e inflessibili colonne, all’infinito si alzerà a disegnare la volta. Saranno dentro le stelle e fuori le stelle.
Trattiamoli con rispetto. Solo ripercorrendo i passi di chi ci ha preceduto, e conoscendone le risposte possibili, gli errori, le ipotesi, e sapendosi fermare sulla soglia del mistero, sarà possibile apprezzare l’importanza di cosa sia veramente “umano” nella questione sessuale.

0.3 Una via diversa

Come coniugare la chiamata alla fecondità di un maschio e di una femmina, con il permanere nella condizione originale, e quindi escludendo la copula carnale? Alcuni teologi tra cui, parecchi Santi e Padri della Chiesa, hanno emesso in passato l’ipotesi che, in quella condizione originale, l’umanità si sarebbe moltiplicata per una via diversa da quella della sessualità che appartiene attualmente all’uomo storico, come lasciano intravedere il concepimento e la nascita verginali dell’Uomo nuovo, Gesù. Prima di addentrarci in tutto ciò per poterlo contemplare ricordiamoci che «(…) è necessario accettare il mistero con un atto di fede; solo allora sarà possibile approfondirne il contenuto, guidati sempre dalla fede. Abbiamo bisogno, pertanto, delle disposizioni di umiltà proprie dell’anima cristiana. Non vogliamo ridurre la grandezza di Dio ai nostri poveri concetti, alle nostre umane spiegazioni; cerchiamo piuttosto di capire che, nella sua oscurità, il mistero è luce che guida la vita degli uomini». (cfr San Josemaría Escrivá, Il trionfo di Cristo nell’umiltà, n. 13). Il “mistero” che sto esaminando è quello dell’esperienza del corpo dei nostri progenitori, prima del peccato originale. A questo proposito ha scritto Giovanni Paolo II: “Indipendentemente da una certa diversità di interpretazione, sembra abbastanza chiaro che «l’esperienza del corpo», quale possiamo desumere dal testo arcaico di Gn 2,23 (“Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa carne dalla mia carne. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta»”) e più ancora di Gn 2,25 («Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna») indica un grado di «spiritualizzazione» dell’uomo, diverso da quello di cui parla lo stesso testo dopo il peccato originale (Gn 3) e che noi conosciamo dall’esperienza dell’uomo «storico». È una diversa misura di «spiritualizzazione» che comporta un’altra composizione delle forze interiori nell’uomo stesso, quasi un altro rapporto corpo-anima, altre proporzioni interne tra la sensività, la spiritualità e l’affettività” (Uomo e donna lo creò, p. 87).

Cosa significa la “spiritualizzazione” di cui si parla? È necessario ribadire con forza che essa non significa in alcun modo una sorta di “fantasmizzazione” del nostro corpo. Il corpo di Adamo e Eva prima del peccato originale aveva un grado di perfezione per noi non immaginabile, e questa era la loro “perfezione” nella carne, laddove “perfezione” significa la completa integrazione della corporeità nel soggetto personale. Ora, se si ha presente che essere personale significa essere spirituale, ne consegue che la perfezione del corpo consiste nella sua perfetta spiritualizzazione, non in senso gnostico manicheo, come se un corpo spiritualizzato fosse qualcosa di “spirituale” alla pari di un concetto, o delle creature angeliche che non hanno corpo, ma nel senso che il corpo dei nostri progenitori, rimanendo corpo, non aveva quei limiti che, nella nostra attuale condizione storica, lo rendono indocile, ottuso, sordo, opaco, ai desideri della nostra anima e del nostro cuore. È chiaro che l’unico nostro termine di paragone è quel poco che noi sappiamo per Rivelazione a proposito dei beati del Cielo, dopo la resurrezione della carne. Qualcuno potrebbe affermare che Gesù stesso dice che i beati saranno “uguali agli angeli” (cfr Lc 20,36), se non che, questa affermazione, si deve leggere non nel senso che quello dei beati sarà un corpo “disincarnato” ma capendo che sarà un corpo talmente perfetto, cioè personalizzato, da essere tanto fuso, integrato, alle esigenze della persona spirituale da essere come lo spirito degli angeli per gli angeli. Deve rimanere chiaro tuttavia che il nostro corpo avrà quelle caratteristiche, rimanendo corpo, essendo corpo. L’uguaglianza non sta nel fatto che la nostra diverrà una natura angelica, ma che la nostra natura umana, quella natura che progettualmente è costituita da anima e corpo, sarà integra, omogenea, perfettamente unita nelle sue parti. In ciò, nella perfetta integrazione, sarà come quella angelica che è costituita di solo spirito (Cfr. Sessualità, pp. 45-6)[4]. Nei beati, l’omogeneità tra anima e corpo sarà così profonda da essere come l’omogeneità che esiste negli angeli, che sono puri spiriti. In questo saranno come angeli.

È chiaro che, tenendo presente la grande tradizione ecclesiale sulla condizione dei corpi dei beati in Cielo, ai fini delle nostre riflessioni, sto soffermandomi in particolare su due di esse: l’agilità e la sottigliezza[5]. Essi sono quei doni per cui il nostro corpo, senza nessuna fatica, ottusità, sordità, torpore, opacità, sarà, per agilità e per sottigliezza, con la massima facilità ovunque voglia l’anima, dentro e fuori qualsiasi luogo, dove vorrà. La nostra anima potrà scegliere come dimora qualsiasi cosa, e potrà volere che qualsiasi cosa o persona possa dimorare nella sua persona. Se vogliamo utilizzare un linguaggio “scientifico”, potremmo forse dire che “sottigliezza” significa che il principio fisico dell’incompenetrabilità dei corpi, nella nuova creazione, verrà meno. Esisterà, nel sovrano e assoluto dominio del Padre, reciproca capacità di compenetrazione dei corpi: dove ce ne sarà uno potrà essercene anche un altro. E così via.

Tutto è perfettamente chiaro se pensiamo al comportamento di Cristo in quei meravigliosi quaranta giorni intercorsi tra Resurrezione ed Ascensione: quell’arrivare e partire istantaneamente, quel passare attraverso i muri a porte chiuse con il Suo corpo, quel mangiare, quel poter essere toccato, quel cambiare in maniera tale da non essere riconosciuto da chi lo conosceva benissimo. Teniamo presente a questo proposito quello che il Catechismo della Chiesa cattolica dice del corpo di Cristo risorto: “(…) Questo corpo autentico e reale possiede però al tempo stesso le proprietà nuove di un corpo glorioso; esso non è più situato nello spazio e nel tempo, ma può rendersi presente a suo modo dove e quando vuole, poiché la sua umanità non può più essere trattenuta sulla terra e ormai non appartiene che al dominio divino del Padre. Anche per questa ragione Gesù risorto è sovranamente libero di apparire come vuole: sotto l’aspetto di un giardiniere o sotto altre sembianze, che erano familiari ai discepoli, e ciò per suscitare la loro fede” (n° 645).

0.4 Riferimenti nella Scrittura

Poc’anzi ho detto che le ipotesi che sto esaminando hanno sullo sfondo il concepimento e la nascita verginali dell’Uomo nuovo, di Gesù. Ora sono in grado di esaminare quelle ipotesi.
A proposito della nascita verginale di Gesù, San Tommaso, nella Summa Theologiae, descrive il parto di Maria attraverso la nota metafora della “luce che attraversa il cristallo”. Il sed contra si riferisce esattamente alla nostra questione, ovvero se sia possibile che “per miracolo” due corpi vengano ad occupare contemporaneamente lo stesso spazio. Così dice l’Angelico Dottore: “La Vergine Santissima partorì il suo figlio in modo miracoloso. Ma in codesto parto due corpi dovettero occupare simultaneamente l’identico luogo: perché il corpo del bambino nell’uscire non infranse “le barriere del pudore” [ovvero perché si conservasse l’integrità di Santa Maria durante il parto, ndr]. Quindi per miracolo è possibile che due corpi vengano ad occupare l’identico spazio” (Suppl. q. 83 a. 3, sed contra). Cosa vuol dire “per miracolo”? È esistita, lo dico con grande rispetto, una situazione “intermedia”, per così dire, tra quella dei nostri primogenitori prima del peccato originale, e quella di Cristo risorto? Abbiamo visto che San Tommaso, dice che “per miracolo” è possibile che due corpi vengano ad occupare lo stesso spazio. Ma questo miracolo è del genere, per fare un esempio, della moltiplicazione dei pani e dei pesci e della resurrezione di Lazzaro, cioè un miracolo nel quale inequivocabilmente Cristo utilizza la sua potestà divina, o è un miracolo nel quale semplicemente Egli (e forse anche sua Madre) lasciano per un istante che agiscano nei loro corpi non toccati dal peccato, quelle forze che sarebbero state comuni a tutti gli uomini se non ci fosse stato il peccato originale (e che invece non avrebbero loro consentito di moltiplicare i pani e i pesci, o di resuscitare i morti)? Indubbiamente, quanto affermato da San Tommaso sembra riferirsi alla possibilità che nel corpo di due persone senza peccato originale (in questo caso Gesù e Maria) ci fosse una qualità simile ai doni di “agilità” e “sottigliezza” che possiede il corpo di Cristo risorto e, quindi, per partecipazione, che possiederanno i corpi dei beati dopo la resurrezione della carne.
Con questa premessa è possibile capire perché Agostino dice che “[Nel paradiso terrestre, ndr] il marito si sarebbe unito alla moglie senza comprometterne l’integrità. Infatti il seme virile allora si sarebbe potuto introdurre nell’utero della donna, rimanendo intatto il setto verginale”. (San Tommaso in S. Th. I, q. 98, a. 2 ad quartum, riporta quanto dice Agostino in 14 De Civitate Dei c. 26).

Che supporto scritturistico ha quanto ho appena affermato? Ovviamente non c’è nulla di esplicito, ma a ben guardare c’è forse qualcosa di adombrato, qualche indizio.
In primo luogo, la creazione della donna da Adamo compiuta da YHWH non è, come a volte un po’ superficialmente si intende, una sorta di operazione chirurgica con tanto di anestesia totale. “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolto all’uomo, una donna e la condusse all’uomo” (Gn 2, 21-22). Il torpore non va inteso, come viene da pensare a noi che abbiamo sotto gli occhi l’uomo storico, ad un’ azione compiuta da Dio per togliere dolore fisico all’uomo, e poter così operare tranquillamente, quanto ad una situazione in cui Adamo si abbandona totalmente a Dio per lasciare che Lui faccia: in tal modo è possibile pensare che il corpo di Adamo fosse costituito in modo da permettere che Dio agisse sulle sue membra come ha fatto. Sono sufficienti a questo proposito due brani di Giovanni Paolo II tratti dalle sue Catechesi del mercoledì. ”Torpore” (tardemah), tradotto dai Settanta con ékstasis (un’estasi) appare un’altra volta nella Genesi ed anche lì è in un contesto misterioso: Abram su comando di Dio ha preparato un sacrificio di animali: «Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram…» (Gn 15,12). Proprio allora Dio comincia a parlare e conclude con lui un’Alleanza, che è il vertice della rivelazione fatta ad Abramo. In entrambi i casi in cui Genesi parla di torpore (tardemah), ha luogo una speciale azione divina, cioè un’ “alleanza” carica di conseguenze per tutta la storia della salvezza: Adamo dà inizio al genere umano, Abramo al Popolo eletto (cfr Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, pp. 55-56, nota 3). «Forse l’analogia del sonno (torpore) indica qui (Gn 2,21-22) non tanto un passare dalla coscienza alla subcoscienza, quanto uno specifico ritorno al non-essere (il sonno ha in sé una componente di annientamento dell’esistenza cosciente dell’uomo), ossia al momento antecedente alla creazione affinché da esso, per iniziativa creatrice di Dio, l’ “uomo” solitario possa riemergere nella sua duplice unità di maschio e femmina» (Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò, p. 55).

Vale la pena inoltre riflettere sulle parole che C. Rusconi scrive in proposito “La prima osservazione è sul termine che in italiano viene reso, nella versione CEI con torpore e che nella versione greca dei LXX è tradotta con il vocabolo riprodotto dall’italiano estasi e che letteralmente indica l’esser fuori da sé stessi. Con tale resa il testo greco anticipa già nel torpore di Adamo la creazione della donna come posizione dell’alterità nell’unità. Con il successivo assopimento, con il sonno dell’uomo invece il testo sottolinea che, a differenza, di quanto verificatosi a proposito degli altri essere viventi, l’uomo non può assistere alla creazione della donna. In tal modo viene salvata la trascendenza dell’azione divina che resta circondata dal mistero. (…) Infine l’azione divina del richiudere la carne al suo posto può indubbiamente intendersi in senso letterale, come di chi ricompone fra loro le labbra di una ferita. Tuttavia unitamente a tale interpretazione è anche possibile, probabile anzi a giudizio di chi scrive, un’accezione maieutica dell’espressione, alludendo all’estrazione della donna dal fianco dell’uomo come a una sorta di parto, di generazione” (Le nozze dell’Agnello, pp. 32-33).

In secondo luogo possiamo esaminare due indizi contenuti in due situazioni del Nuovo Testamento. Sono, ovviamente, riferite alle uniche due persone senza peccato originale: Gesù Cristo e la Madonna. Il primo indizio, verità di fede, è il miracoloso parto di Maria, e cioè il fatto che Maria rimase vergine durante il parto. Ancora una volta interessa al nostro caso quello che propone san Tommaso nella Summa Theologiae. È il brano che abbiamo citato più sopra. “Quindi per miracolo è possibile che due corpi vengano ad occupare l’identico spazio” (Suppl. q. 83 a. 3 , sed contra). Cristo avrebbe miracolosamente attraversato il corpo della Madre senza lederne la verginità: ciò potrebbe essere dovuto non solo a causa di una singolarissima caratteristica del corpo di Lui, ma anche per qualcosa di simile nel corpo di Lei.
Il secondo indizio sarebbe nell’interpretazione letterale di Lc 4, 30 laddove si dice: “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino (eporeúeto)”. Il fatto avviene a Nazaret. Gesù ha appena proclamato la sua missione allorché “tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù” (vv. 28-29). Ma, appunto, “egli, passando in mezzo a loro, se ne andò”. La lettura che se ne dà ordinariamente è che Gesù passi non attraverso i loro corpi similmente a quando nel cenacolo passa attraverso le porte chiuse del luogo dove si trovavano (cfr Gv 20.19), ma come accadrebbe a chiunque di noi quando riesce a divincolarsi tra la folla e a “passare”. In realtà una spiegazione del genere, anche se teoricamente possibile, non tiene conto di quanto avvenuto e che è esattamente descritto nel vangelo. Luca, e ciò è specialmente evidente nel verbo poreúomai, sta descrivendo l’uscita di Gesù dall’ “aporia” più primordiale, quella della folla che chiude la vittima da ogni lato, cioè sta raccontando un vero e proprio linciaggio. A Cristo si applica l’antichissima tecnica venatoria e persecutoria di costringere la vittima da ogni lato per obbligarla a gettarsi nel vuoto “da sola” (Da Dioniso a Cristo, p. 269)[6]. È quindi estremamente difficile ritenere che Gesù sia riuscito a divincolarsi senza un fatto in qualche modo miracoloso. Se si preferisce pensarlo, naturalmente, si è liberi di farlo; ma non si può impedire di sostenere quell’interpretazione letterale per cui è possibile convincersi che Gesù, a Nazaret, faccia uso di una dote del suo corpo che avrebbero avuto tutti gli uomini se non ci fosse stato il peccato originale.
Se quanto ho appena finito di esporre fosse vero, si tratterebbe in ogni caso di un’eccezione. Per intenderci, quando il Signore, stando in riva al mare, “disse ai suoi discepoli di tenergli pronta una barca, a causa della folla, perché non lo schiacciassero” (Mc 3.9), non finge: tranne nell’occasione segnalata, il Suo Corpo è come il nostro. Per questo, quanto ho detto a proposito di Lc 4,30 non inficia per nulla la verità dei patimenti di Cristo alla flagellazione, alla coronazione di spine, alla Crocefissione. Non sto dicendo cioè che quando i chiodi attraversarono le membra di Cristo, ciò avvenisse solo in maniera figurata. In proposito basta avere chiara la sovrana libertà di Cristo che, come nell’orto degli ulivi si lascia catturare (proprio mostrare questa regalità, è l’obiettivo che Giovanni, unico, persegue nel volerci raccontare della caduta delle guardie), così lascia che il suo corpo sia, nelle mani dei carnefici, come il corpo di qualsiasi altro condannato alla morte con tortura. Non dimentichiamo che “Nessuno me la toglie io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo.” (Gv 10.18).

0.5 Tuniche di pelle

Rimane, a questo punto, un unico grande interrogativo. Agli inizi ho enmerato tra i tre punti irrinunciabili della nostra disamina, le parole dette da Gesù: “Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina?“ (Mt 19,4). Ora, nel caso fosse vero che nella situazione originaria, Adamo e Eva disponessero di una corporeità come la nostra, anche se in qualche modo diversa, in che modo ciò è compatibile con l’essere maschio e femmina fin dalle origini, fin dall’istante iniziale della creazione?
Si capisce quali tipi di errori si spalancano dinanzi ai nostri occhi. L’argomento è estremamente delicato perché si rischia di cadere in aberrazioni come quelle affermate da Platone nel Simposio e che, in qualche modo, sembrano far di nuovo a volte capolino nella cultura contemporanea[7].
Un terreno sul quale si è svolta questa contesa teologica, è stato quello della retta interpretazione di Gn 3,21: “Il Signore Iddio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì”. Che senso ha tale affermazione? Cosa significa? Vuol dire che Dio completò l’opera di vestizione che Adamo e Eva avevano già operato in Gn 3,7 (“Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi: intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”). Appare francamente un po’ riduttivo. Inoltre, suonerà strano alla nostra sensibilità, ma non sono pochi, soprattutto nel mondo dell’ebraismo, a chiedersi come è possibile che Dio abbia ucciso e scuoiato degli animali. Oltretutto ci si trova ancora dentro il paradiso terrestre: proprio Dio introdurrebbe un’azione così cruenta?

Le riflessioni sono durate per secoli e non poche di esse vanno annoverate tra le dottrine gnostiche, non compatibili con il cristianesimo. Infatti se, come sostenevano gli gnostici, il corpo terreno si identifica con le “tuniche di pelli”, il corpo risuscitato dovrebbe essere un corpo diverso da quello “storico”: quest’ultimo rivestirebbe l’uomo come una “tunica di pelli”. In altre parole, se le “tuniche di pelli” designassero il corpo terreno, e non la sua condizione mortale, nella Resurrezione non ci sarebbe identità materiale tra il corpo risuscitato e il corpo terreno.
Scorriamo brevemente le principale posizioni al riguardo seguendo la voce del Diozionario che ho citato all’inizio (cfr Tuniche di pelli, pp. 555-558.).
Tra gli alessandrini il tema delle “tuniche di pelli” ebbe una lunga tradizione ma con esiti oscillanti rispetto all’ortodossia. Per esempio Filone aveva inteso le “tuniche di pelli” come la creazione del corpo umano (Quaest. Gen., I, 53); anche i valentiniani secondo, la testimonianza di Tertulliano (Adv. Val. 24), leggevano Gen 3, 21, come se le “tuniche di pelli” significassero il corpo dell’uomo. San Ireneo riferisce che la stessa tesi fosse della gnosi di Tolomeo: “(gli gnostici) sostengono che la tunica di pelle sia la carne sensibile” (Adv. Haer., I, 5 , 5). Le medesimi convinzione erano, ancora, degli encratiti e messaliani, che definivano il corpo umano “vestito di vergogna”. Secondo tutte queste interpretazioni, il corpo umano come tale è “estraneo” alla persona umana e la salvezza consiste nel liberarsene.
Esistono però anche coloro che riescono a intendere rettamente Gn 3,21. Per esempio Clemente di Alessandria dice che è un errore identificare le tuniche di pelli con il corpo (Strom, 3, 14) e, secondo Metodio di Olimpo (Res 1, 29), Origene avrebbe realizzato un’esegesi solo apparentemente simile a quella degli gnostici: in realtà, egli da una parte accettava come possibile l’esegesi degli gnostici ma dall’altra intendeva le tuniche di pelli non come “corporalità”, ma come “mortalità” (Contr. Cels., IV, 40, SC 136, n. 1).

Tra tutte le posizioni, la più interessante è quella di Gregorio di Nissa. Ecco come la espone in Or cat 8 (GNO III/4, 30): dopo la caduta, Dio spogliò l’uomo delle vesti della sua felicità primigenia, e lo rivestì di animalità e di mortalità. Infatti, dice Gregorio, dato che la pelle, separata dall’animale, è morta, Dio, rivestendo l’uomo con “tuniche di pelli”, lo riveste della mortalità che è propria degli animali irrazionali. Coerentemente con ciò, secondo il Nisseno, “le tuniche di pelli” non designano il corpo umano, ma la “mortalità” di tale corpo, la sua “carnalità” simile a quella degli “animali perfetti” (sono quelli che noi moderni chiamiamo “mammiferi”). Pertanto, non si tratta di “liberarsi dal corpo”, ma di uscire “dalla condizione animale del corpo”, che è quanto designano, propriamente parlando, le “tuniche di pelli”. Il fatto che le “tuniche di pelli” siano qualcosa di aggiunto e di estraneo alla nostra natura, implica che, nella resurrezione, i corpi saranno trasformati secondo quanto si dice in I Cor 15, 35-58. Risusciteremo, quindi, con i nostri propri corpi, ma il corpo sarà trasformato dalla resurrezione in uno stato più divino, purificato ormai da tutto ciò che risulta inutile al godimento della vita beata, cioè liberato dalle “tuniche di pelle” (ibidem, 59-62).

Posso ormai terminare. Abbiamo visto che la Genesi ci racconta che, dopo il peccato originale, Dio rivestì Adamo e Eva di “tuniche di pelli” e che, successivamente, avvenne il primo rapporto sessuale. Dopo tutto quello che abbiamo considerato, con che genere di ipotesi possiamo rispondere alla domanda se ci sia stato qualche mutamento, prima e dopo il peccato originale, nell’essere maschile e femminile dell’uomo? Le possibili risposte devono al contempo difendere sia l’identità materiale dei corpi nella resurrezione della carne sia la profonda trasformazione che subiranno nella vita beata, una volta spogliati delle “tuniche di pelli”, trasformazione che, in qualche modo, aveva delle parentele con la situazione dei corpi dei nostri progenitori prima del peccato originale, sia la verità per cui Adamo e Eva fossero maschio e femmina fino dal primo istante della loro creazione.

La prima possibilità che viene in mente, è chiedersi se l’ “animalità” con cui Jahvè “rivestì” Adamo e Eva dopo il peccato originale abbia comportato qualche cambiamento nella loro morfologia. La risposta non può essere che la seguente: se è possibile concepire un essere maschile e femminile che non sia morfologicamente esattamente identico a quello attuale, la risposta è affermativa, altrimenti è negativa. In ogni caso, questo non significa che la nostra attuale condizione fisico-morfologica sia in qualche modo cattiva o negativa perché, in ogni caso, essa nasce da Dio, è fatta da Dio. Le “tuniche di pelli” che rivestirono i nostri progenitori sono fatte da Dio, e quindi non ci può essere in esse la benché minima ombra di male. Dio non può fare il male. È possibile concepire un modo di essere maschile e femminile, e che sia umano, diverso da quello che noi conosciamo? Indubbiamente, come fanno capire le considerazioni di C. Rusconi che di seguito riporto, esiste in Adamo e Eva un modo di essere maschile e femminile che va oltre l’aspetto morfologico che rende l’uomo storico simile ai mammiferi e che, forse, nell’uomo prima del peccato aveva un’espressione infinitamente migliore e più completa perché poteva essere vissuta dall’intero corpo, e non solo da parti di esso. Ma di più non è possibile affermare. Riporto a beneficio del lettore le parole di Rusconi: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’ unica carne» (Gn 2,24). Questa affermazione è di assoluto rilievo perché “si parla non della donna che abbandona la propria casa, la propria famiglia per unirsi al proprio uomo: è invece l’uomo che si distacca dalla propria parentela per unirsi alla propria donna. Ciò è molto strano, considerando la cultura patriarcale in cui il testo è stato prodotto, una cultura in cui di fatto era la donna che, all’atto del matrimonio, abbandonava la propria casa per andare a vivere in quella del marito. (…) Se si tiene conto di tutto (…) bisogna argomentare che si parla dell’abbandono della propria casa d’origine da parte dell’uomo perché la sua casa reale è la sua sposa. In quest’ottica s’assommano nella donna molteplici prospettive della concezione ebraica, sia della terra che della storia, che infine delle nozze, che dell’una e dell’altra sono metafora. (…) Una lettura progressiva, dunque, dell’unione dell’uomo e della donna come globalmente si propone in questo secondo capitolo della Genesi, vede al primo livello la donna come casa dell’uomo, come colei che gli edifica una dimora, una discendenza che dilata e fa crescere l’uomo; pertanto l’uomo che abbandona padre e madre li abbandona perché in realtà la sua casa è altrove: essa è la donna che il Signore Dio gli ha donato. Ad un secondo livello l’uomo è Israele e la donna è la Terra Promessa, ed Israele già in Abramo inizia l’abbandono della casa paterna per avviarsi verso la sposa che gli è stata destinata: non per nulla solamente una volta giunto in Canaàn Sara darà ad Abramo il figlio Isacco. Ad un livello ulteriore l’uomo è l’intera stirpe umana, globalmente ed originariamente contenuta in ‘adàm, l’essere umano primigenio, e sua sposa è il creato, che da Dio gli è dato come sua terra e sua casa: la donna per l’uomo, Canaàn per Israele, il cosmo per l’umanità.” (Le nozze dell’Agnello, pp. 39-40).

La seconda possibilità è intendere che dopo la caduta, Dio spoglia l’uomo delle “vesti” della sua felicità primigenia (immortalità, fiducia in Dio [parrhesia], dominio sulle passioni), e lo riveste di animalità e di mortalità. Questa azione potrebbe riverberare nella perdita di quei doni di agilità e sottigliezza di cui abbiamo parlato più sopra. In pratica cioè, se i nostri progenitori avessero avuto quei doni, per così dire, di “reciproca permeabilità” che abbiamo visto prima, l’azione di YHWH di “rivestirli di pelli” avrebbe proprio significato che la loro pelle, avendo perso la loro persona i doni preternaturali, sarebbe divenuta non più qualcosa di unico ma come quella degli animali, cioè come quella del presente uomo storico. E, ripetiamo, questa azione di Dio, per quanto severa, non è cattiva, per cui sarebbe assolutamente sbagliato pensare che la nostra morfologia attuale, la nostra pelle attuale, sia “male”, “peccato”. Ricordiamoci che è Dio ad averlo fatto, con il nuovo intervento esplicitamente narrato in Gn 3,21. Dopo che l’uomo, per il cattivo uso della sua libertà, cadde nel peccato, Dio lo rivestì di “tuniche di pelli”, affinché sperimentasse i limiti di ciò che è materiale, il carattere delle passioni e la finitudine dell’essere, in questo aspetto, simile agli animali. Le “tuniche di pelli”, certo, sono una medicina amara, ma non sono un male. È qualcosa che Jahvè impone all’uomo nella certezza che questi, facendo l’esperienza del limite, avrebbe scoperto finalmente la finitudine e la sua mortalità.

0.6 Priorità

Ho davvero terminato il nostro excursus storico. La convinzione che personalmente traggo dalle riflessioni che ho appena finito è che i santi, per vie molte diverse e che a volte sembrano essere veramente agli antipodi, giungono a una conclusione molto simile. È la medesima di moltissime persone normali, celibi e sposate, e cioè che la vita sessuale è importante ma non è la cosa più importante. San Josemaría Escrivá afferma in una delle sua omelie: “Nel regno degli uomini – spiegavo con l’esperienza che mi veniva da un abbondante lavoro di sacerdote – per una persona normale il problema del sesso occupa il quarto o quinto posto. Prima ci sono le aspirazioni della vita spirituale propria di ciascuno; subito dopo, vengono molte questioni che interessano ogni uomo e ogni donna normale: il proprio padre, la madre, il focolare, i figli; poi, a suo tempo, la professione; infine, al quarto o quinto posto, appare l’impulso sessuale” (Amici di Dio, 179). L’inciso (“-spiegavo con l’esperienza che mi veniva da un abbondante lavoro di sacerdote -”) non è superfluo. Esso evidenzia infatti che la sua convinzione è frutto della sua esperienza sacerdotale, cioè della conoscenza che egli ha dell’uomo nella sua condizione attuale, cioè “dopo il peccato originale” (post lapsaria, viene tecnicamente definita dai teologi), e che quindi non può essere applicata al paradiso terrestre. Tuttavia, ce ne rendiamo conto tutti, pur essendo su un piano completamente diverso ha qualcosa a che vedere con il nostro excursus, e ci aiuta a capire che normalmente l’atto sessuale non è nelle priorità della nostra vita quotidiana. È importante ma non è la cosa più importante. Senza pensare che la vita sessuale sia frutto del peccato originale, pur mantenendo la convinzione che la vita sessuale sia importante, è apprezzabile aver presente che quello che buona parte degli attuali film e romanzi dice che debba accadere, non è affatto vero che debba accadere. E questo non significa neppure il suo contrario, e cioè che non debba accadere mai. Prima o poi accadrà. Nel frattempo, però, c’è ben altro (che è molto meglio). Questo “ben altro” non è “divertirsi senza fare figli”, ma sono tutti quegli aspetti della vita feconda che sono necessari per raggiungere il vero fine di una vita riuscita, che è la paternità spirituale. E che, in fin dei conti, è il vero motivo del celibato. Tutti “gli altri aspetti” della vita feconda sono certamente la preghiera e il lavoro, ma anche i mille linguaggi di cui l’amore ha bisogno per esprimersi. Nella vita normale di tantissimi, ci sono tali e tanti modi di esprimersi l’amore migliori dell’atto sessuale, che spesso quello sessuale (in senso stretto o in senso lato) non viene in mente. Rifiutiamo questa possibilità? Detto semplicemente, per una persona normale il sesso non importa, perché se il sesso è amore, allora importa l’amore e non il sesso. E se il sesso è il contrario dell’amore, cioè è potere, allora importa il potere. E ancora una volta il sesso non importa.

[1] Da adesso in avanti, per evitare di offendere alcune sensibilità a cominciare da quella ebrea, non scriverò più “Jahvè”, ma “YHWH” (scritto apposta senza vocali), come fa il Catechismo della Chiesa Cattolica. Occorre tener presente che quanto il tetragramma YHWH si trova nell’ambito dei capitoli 2-3 della Genesi, si dovrà leggere “YHWH Dio”, oppure “il Signore Dio”, salvo quando parla il serpente, che dice soltanto “Dio”.

[2] Gn 2,24: “I due saranno un’unica carne/i due saranno un solo corpo/una sola cosa”, come si evince dalla citazione di Gn 2,24 che Paolo fa in 1 Cor 6,16: “I due saranno, è detto, un corpo solo” (La traduzione di 1 Cor 6,16 che ho riportato è quella della precedente traduzione della CEI).

[3] “Nel moto del cuore accade qualcosa di simile a quelo che accade nel moto del cielo”. Cfr “De motu cordis”, II 164-165 (Leon. T. 43, p.129) “sic enim est motu cordis in animal sic motus coeli in mundo”. Tommaso ritorna su questo tema nella S. Th., I-II, q. 17 a. 9.

[4] Carlo Caffarra, Sessualità, san Paolo 1994

[5] Sulla base di quanto dice San Paolo, sottigliezza e agilità sono due delle quattro caratteristiche dei corpi gloriosi. (cfr. 1 Cor. 15, 42-44). Così vengono descritte nel Catechismo Romano: “La prima di queste doti è l’impassibilità, il dono e la qualità cioè per cui i corpi risorti non potranno più in alcun modo soffrire né essere colpiti da alcun dolore e molestia. Viene poi lo splendore, il dono cioè per cui i corpi dei santi risplenderanno come il sole. Questo splendore consisterà in una luce che si irradia su tutta la persona dall’intima e perfetta felicità dell’anima, quasi un riflesso della sua beatitudine; allo stesso modo in cui l’anima stessa sarà beata per comunicazione della felicità divina. A questa dote va unita quella dell’agilità, cioè il dono per cui il corpo sarà liberato dal peso che in terra lo affatica, così che potrà muoversi con la massima facilità dovunque voglia il desiderio dell’anima, con un movimento talmente celeste che nessun altro può esservi paragonato. L’ultima proprietà è la sottigliezza, in virtù della quale il corpo sarà completamente sotto il dominio dell’anima, cui servirà e ubbidirà in modo perfetto” (I parte, par. 137).

[6] Per comprendere questa modalità di esecuzione, bisogna tener presente due elementi. Da una parte l’esigenza che essa sia un agire di tutti assieme come un gruppo anonimo. E’ quanto avviene per esempio per la fucilazione o per la lapidazione: di nessuno si può dire che a uccidere sia stato “il suo” proiettile o “la sua” pietra. In questo senso, quindi, l’esecuzione è “di tutti”. A questo fine, e cioè consentire di suddividere su tutti coloro che partecipano all’azione la responsabilità di quanto avviene, c’è l’utilizzo della tecnica “venatoria” che si applica a certi animali: cinghiali, volatili, ecc. Un gruppo di persone circonda un territorio in cui si sa essere presente la selvaggina, e avanza verso il centro. Ad un certo punto, necessariamente, la vittima si mette “da sola” nelle braccia dei suoi cacciatori, che la uccidono. Nel caso di Cristo a Nazaret, il precipitare il condannato nel vuoto, sarebbe un ulteriore perfezionamento della riduzione della responsabilità personale perché, cadendo nel vuoto, sarebbe addirittura mancata chi avrebbe inferto materialmente il colpo mortale.

[7] Il mito contenuto nel Simposio è che i primi uomini fossero con quattro gambe e quattro braccia, e che quelli attuali siano il risultato di una divisione fatta dagli dei. Da quella separazione ne risultarono i maschi, le femmine e gli omosessuali. L’attrazione tra i sessi non sarebbe altro che l’espressione dell’aspirazione a ricostituire l’unità originaria.