Blog / Materiali dottrinali | 02 Ottobre 2015

Tuniche di pelli – Gregorio di Nissa. Dizionario

Questa è la voce Tuniche di pelli  tratta da Gregorio di Nissa. Dizionario, Città Nuova 2007, che ha per curatori Maspero G., Mateo Seco L.F.
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In Gen 3, 21, si afferma che, dopo il peccato, Dio vestì i progenitori con “tuniche di pelli”. G. vede un grande simbolismo in questo gesto divino. Ecco come lo espone in Or cat 8 (GNO III/4, 30): dopo la caduta, Dio spoglia l’uomo delle vesti della sua felicità primigenia (immortalità, fiducia in Dio [parrhesia], dominio sulle passioni), e lo riveste di animalità e di mortalità. Infatti, dice G., dato che la pelle, separata dall’animale, è morta, Dio, rivestendo l’uomo con “tuniche di pelli”, lo riveste della mortalità che è propria degli animali irrazionali.

Da parte di Dio è un gesto severo, ma premuroso e misericordioso verso l’uomo. Al riguardo, nulla è più eloquente del paragone con i “vasi di argilla” che G. usa in questo testo: dopo il peccato, Dio rende mortale l’uomo, perché prevede la sua risurrezione, come il vasaio ha potere di rompere il vaso di argilla che ha fatto e di rifarlo nuovamente (→ Morte). Il simbolismo delle “tuniche di pelli” contiene, secondo G., un’altra lezione di estrema importanza: le vesti per l’uomo sono qualcosa di accidentale; anche le “tuniche di pelli” continuano ad essere per noi qualcosa “ che ci avvolge dall’esterno”, qualcosa che ci è “estraneo” e che in nessun modo incide sull’intima essenza della natura umana.

Il tema delle “tuniche di pelli” ha una lunga tradizione tra gli alessandrini. L’interpretazione del simbolismo, tuttavia, si è realizzata con significati diversi. Filone aveva inteso le “tuniche di pelli” come la creazione del corpo umano (Quaest. Gen., I, 53). Secondo la testimonianza di Tertulliano (Adv. Val. 24), i valentiniani leggevano Gen 3, 21, come se le “tuniche di pelli” significassero il corpo umano. È lo stesso che S. Ireneo riferisce della gnosi di Tolomeo: “(gli gnostici) sostengono che la tunica di pelle sia la carne sensibile” (Adv. Haer., I, 5 , 5). Lo stesso accade con gli encratiti e messaliani, che definiscono il corpo umano “vestito di vergogna”. Secondo queste interpretazioni, sarebbe evidente che il corpo umano come tale è “estraneo” alla persona umana e la salvezza consisterebbe nel liberarsene. Clemente di Alessandria dice che è un errore identificare le tuniche di pelli con il corpo (Strom, 3, 14). Secondo Metodio di Olimpo (Res 1, 29), Origene avrebbe realizzato un’esegesi simile a quella degli gnostici. In realtà, Origene da una parte accetta come possibile l’esegesi degli gnostici, dall’altra intende le tuniche di pelli non come “corporalità”, ma come “mortalità” (Contr. Cels., IV, 40, SC 136, n. 1).

Gli gnostici utilizzavano l’immagine delle “tuniche di pelli” per respingere la fede nella resurrezione della carne: se il corpo terreno si identifica con le “tuniche di pelli”, il corpo risuscitato dovrebbe essere un corpo diverso dal corpo con il quale l’uomo sarebbe stato rivestito come da una “tunica di pelli”. In altre parole, se le “tuniche di pelli” designassero il corpo terreno, e non la sua condizione mortale, nella Resurrezione (→) non ci sarebbe identità materiale tra il corpo risuscitato e il corpo terreno.

  1. reagisce energicamente ed esplicitamente contro Origene sulla questione della Resurrezione (→) e sul tema della preesistenza delle anime; sottolinea anche l’identità materiale esistente tra il corpo risuscitato e il corpo terreno. Coerentemente con ciò, secondo G., “le tuniche di pelli” non designano il corpo umano, ma la “mortalità” di tale corpo, la sua “carnalità”. G. l’ha presente già nella sua prima opera (Virg 12 e 13, GNO VIII/1, 302-303): “ora vediamo l’immagine di Dio nascosta dalla oscurità della carne”; i progenitori sono stati rivestiti di “tuniche di pelli”; è necessario spogliarsene, cioè “uscire dalla mentalità carnale”. L’immagine delle tuniche di pelli si inserisce così in modo naturale nel simbolismo delle cerimonie battesimali dello spogliarsi delle vecchie vesti e del rivestirsi delle vesti bianche. A ciò si allude in questo passo di Virg, nel quale non si sta parlando di “liberarsi dal corpo”, ma di uscire “dalla condizione animale del corpo”, che è quanto designano, propriamente parlando, le “tuniche di pelli”.

In Vit Moys si trovano pure chiare allusioni alla cerimonia battesimale e allo spogliarsi delle “tuniche di pelli”. Nell’episodio del roveto che arde senza consumarsi, Dio ordina a Mosé di togliersi i calzari. G. commenta: questo significa che non possiamo correre verso le vette, se non spogliamo l’anima del rivestimento di pelli morte, di cui fummo rivestiti all’inizio (Vit Moys, GNO VII/1, 39-40). Solo purificandosi dalla visione “morta e terrena” che implicano le tuniche di pelli, Mosé può giungere alla contemplazione della verità. Daniélou (1970, 155) ha fatto notare che G. sembra essere il primo cristiano che ha usato il tema delle “tuniche di pelli” nella prospettiva dell’ascesa spirituale.

  1. parla delle “tuniche di pelli” in Mort e in An et res con un significato molto simile a quello che dà loro in Or cat 8: dopo che l’uomo, per il cattivo uso della sua libertà, cadde nel peccato, Dio lo rivestì di “tuniche di pelli”, affinché sperimentasse i limiti di ciò che è materiale, il carattere ripugnante delle passioni e la finitudine del male. Le “tuniche di pelli” sono una medicina amara, imposta all’uomo nella certezza che questi, facendo l’esperienza (πεῖρα) del male, ne avrebbe scoperto finalmente la finitudine e il fatto che, per essere estraneo alla nostra natura, non può permanere in perpetuo (Mort, GNO IX, 55-57).

Il fatto che le “tuniche di pelli” sono qualcosa di aggiunto e di estraneo alla nostra natura, implica che, nella resurrezione, i corpi saranno trasformati secondo quanto si dice in I Cor 15, 35-58. Risusciteremo, quindi, con i nostri propri corpi, ma il corpo sarà trasformato dalla resurrezione in uno stato più divino, purificato ormai da tutto ciò che risulta inutile al godimento della vita beata, cioè liberato dalle “tuniche di pelle” (ibidem, 59-62).

Troviamo lo stesso insegnamento in An et res. Colui che porta un vestito cencioso, dice G., spogliandosene, non vede più in sé stesso la vergogna degli stracci; noi, quando saremo spogliati di questa tunica morta presa dagli animali, che ci è stata imposta come una seconda pelle, ci saremo spogliati anche della “forma propria dello stato animale” (PG 46, 148-149). La forza con cui G. difende l’identità materiale dei corpi nella resurrezione è pari al vigore con cui insiste sulla profonda trasformazione che subiranno i corpi, spogliati delle “tuniche di pelli”.

  1. è perseverante nella sua interpretazione del simbolismo delle “tuniche di pelli” (Daniélou 1970, 185). Senza dubbio, le tuniche di pelli non sono intese da G. come la corporeità umana; talvolta sono intese come “la mentalità carnale”; quasi sempre come la “animalità” o la “mortalità”.

Esse sono in relazione con l’economia della salvezza, che passa attraverso la morte. Dio ha rivestito misericordiosamente l’uomo di “pelli morte” affinché possa morire, esperimentare la finitezza del male e convertirsi. Come osserva Daniélou (1970, 164), in questa considerazione delle “tuniche di pelli”, G. utilizza pensieri presi da Origene e da Metodio di Olimpo.

Bibl.: P.F. Beatrice, voce Tuniche di pelle, in DPAC 3524-3525; J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique, Paris 1944, 25-31; 55-60; Idem, L’être et le temps chez G. de N., Leiden 1970, 154-185; E. Moutsoulas, The incarnation of the Word and the theosis of Man, according to the teaching of G. of N., Atene 2000. 49-70.

Lucas Francisco Mateo-Seco