Articoli / Blog / Lezioni e Riflessioni | 12 Marzo 2017

Mauro Leonardi – Il senso del Pudore

Innumerevoli sono le opere di narrativa di sempre e di ovunque in cui la vicenda è risolta dai piccoli; anzi, per essere esatti, dai minori. Da quegli esseri od eventi cioè che appaiono (e sono) funzionali, secondari, a qualcosa di più grande e di più importante: il protagonista con le sue intraprese. Senonché accade che, per qualche sorprendente destino, per quel segreto nesso per cui la grande arte ripete in sé le ctonie leggi della realtà, proprio essi risultano decisivi: determinano gli eventi narrati inducendoli a compiersi;  e -si badi bene- adempiono il loro ruolo, rimanendo minori. In quanto  minori.

Se per descrivere il mondo della vita interiore si utilizza il linguaggio della virtù, lo schema della virtù, non è difficile dire che esso ha per protagoniste l’umiltà e la carità. Esse sono il fondamento dell’edificio delle virtù e la forma di ogni altra virtù. Di fianco ad esse, subito a lato, come in un secondo cerchio immediato, ci sono la fede e la speranza. Poi, lì circoscritte, ecco si incontrano la prudenza con le altre tre virtù cardinali: fortezza, giustizia e temperanza. Se si procedesse di questo passo, via via in questo bell’andare lungo strade e viottoli che secoli e secoli di lotta cristiana, di ascetica e mistica, hanno tenuto sgombri da sterpaglie e detriti, verrebbero ben presto incontro le altre virtù. Poste nell’alveo della temperanza, si incontrerebbe la purezza e lì, lì di lato, sorella minore appunto, farebbe capolino la virtù del pudore, la virtù del senso  del pudore.

 

E’ tipico dell’opera artistica, che il nodo narrativo cui alludevo, venga risolto dal “piccolo” proprio quando il nodo, la crisi, appaia grande, grande e drammatico nelle proporzioni. Si potrebbe ritenere che tale scansione di tempi e di modi sia dovuta solo ad un’abile sceneggiatura, ma non è così. Perché  così  è la vita. Quando la nostra vita personale, il mondo fatto dell’intreccio delle nostre vite personali, si aggroviglia in maniera tale da sembrare irrisolvibile, è allora necessario il colpo d’ala, la pienezza del gesto virtuoso intenso e lieto, facile e costante, crescente, proprio di chi è padrone dei suoi moti interiori ed esteriori, dei suoi atti. E’ allora che l’atto buono, divenendo eroico, minutamente e semplicemente eroico, diviene anche bello. E si capisce perché, santi, bambini e poeti sono da sempre esseri in comunione; santi e poeti si rispettano e si conoscono. A volte si identificano. E chi ha anima bambina ad entrambi presta ascolto. Hanno orecchio i bambini, hanno orecchio musicale.

Il piccolo quindi, proprio quando la crisi è grande, splende. Ma non splende -ecco dove volevo arrivare- perché relativo al grande; come di luce riflessa. Non riverbera per l’abile sceneggiatura. Splende da sé stesso, per la sua minorità, per la sua capacità di cogliere le cose piccole, gli equilibri lievi. Egli, essere millimetrico, è incapace di gesti chilometrici. Esiste solo nella variazione cromatica dei toni.

Non per una sceneggiatura artificialmente costruita quindi, ma per natura, dalle crisi si esce per santità[1]. E si è santi solo se si è totalmente santi.

Contempliamo quindi la virtù del pudore per riscoprirla nella sua verginale pienezza; e tutto ciò facciamo in giorni di nodi epocali, di svolta.  Si può dubitare di non essere in epoca di crisi? Si ripensi ad un anno fa, all’estate scorsa; a giugno scorso (può essere che risucceda quest’anno). Si pensi alle grandi girandole televisive (telegiornali, talk-show, interviste, tavole rotonde; quotidiani, rivisti) (pettegolezzi, pettegolezzi, pettegolezzi) che avevano per argomento la violenza sessuale. Si ripensi alle immagini sulla violenza sessuale. Alle immagini dei telegiornali ed alle immagini della gente in spiaggia. Ed ai film delle sere. Ed agli spettacoli della notte (agli spettacoli da ore piccole trasmesse in prima serata). Si ripensi cioè alla campagna contro la violenza sessuale e alla campagna a favore della pornografia. (A favore? Si scandalizzerà qualcuno). (A favore, ribadisco. E’ l’espressione più sintetica, più sinonima per evitare di elencare quello che avrei dovuto elencare: collusione, acquiescenza, disillusione. Rassegnazione).

Si pensi a quello che dopo l’estate non c’è stato.

C’è stato il dibattito parlamentare sulla violenza sessuale, contro la violenza sessuale (anche se) (dipende dall’età). Si è giunti -qualcuno lo ricorderà forse- a un qualcosa. Una legge. O forse era un decreto legge. Forse era un’interpellanza parlamentare. Forse (chissà) era un avviso di garanzia (Sì. Credo proprio si trattasse di quest’ultima cosa. Un avviso di garanzia ai violentatori. Che si tutelino, perbacco. Prendano le loro misure, le loro garanzie. Sull’età delle bambina). Si pensi, dicevo, a quello che lungo l’autunno e nell’inverno non c’è stato. E’ mancato un bambino, un politico bambino (un giornalista, un commentatore di politica), che avesse il candore, la semplicità di stabilire un nesso tra pornografia e violenza sessuale. Che dicesse: non possiamo fare una legge sulla violenza sessuale, senza farne una sulla pornografia. (Discutiamone almeno). (Almeno parliamone).

Non voglio sostenere che fra pornografia e violenza sessuale esista un rapporto di tipo deterministico, di causa e di effetto. Se non altro perché questo tipo di violenza è sempre esistito nella storia dell’umanità, mentre la diffusione della pornografia è un fenomeno relativamente recente, legato prevalentemente allo sviluppo dei  massmedia.  Neppure è detto che la pornografia basti da sola a provocare in un individuo  sano, fornito di normali capacità volitivo-intellettive e dunque di autocontrollo, incentivi e pulsioni irresistibili  verso questo tipo di comportamento violento e criminoso. Non si può negare però che essa esercita, almeno presso fasce più deboli di individui, un ruolo di causa occasionale o scatenante, di concausa, come del resto le cronache dimostrano: i responsabili di violenze sessuali sono  accaniti “consumatori” di pornografia; nelle loro case si trovano spessissimo impressionanti quantità di materiale pornografico.

E’ questo è così per qualcosa che nessuno[2] ha detto: cioè che la pornografia lancia  e diffonde un suo “messaggio” che si può riassumere in sostanza in questi termini: il corpo umano -e quello della donna in particolare- non ha dignità. Ed è disponibile. Per chiunque voglia servirsene. (Cambia solo la valuta con cui comprare. Nel primo caso si baratta con denaro. Nel secondo con violenza). E’ oggetto in mostra. Una merce. Che si vende e che si compera. E che volendo, si può anche ghermire.

Nessuno lo ha detto. L’unica cosa fatta è (insistentemente) proporre e riproporre immagini (ed interviste, e considerazioni, ecc.) più o meno efferate. Certamente quasi sempre impudiche. (E tutto ciò con per scusante un’ipotesi che nessuno mai ha dimostrato: che la visione di violenza possa dare repulsione alla violenza stessa.

Che nessuno l’abbia detto è il più chiaro segnale di essere nella crisi. Non tanto quello che è accaduto. Ma che nessuno abbia detto: il re è nudo.

E’ giunto il tempo che in scena entri la virtù minore, quella piccola. La bambina.

 

La minuta virtù del pudore, si trova, nei momenti attuali, ad adempiere un compito straordinario: aiutare l’uomo contemporaneo a superare una delle più laceranti ferite del suo vivere quotidiano, la dicotomia anima-corpo. Il pudore, infatti, è quella virtù che insegna a scoprire e a preservare la propria intimità: l’intimità di tutta la persona, non solo quella fisica. Dice il Catechismo:  “Il pudore nasce con il risveglio della coscienza del soggetto. Insegnare il pudore è risvegliare il rispetto della persona umana [2524][3]” E ancora: “Il pudore preserva l’intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto [2521]”. “Le forme che il pudore assume variano da una cultura all’altra. Dovunque, tuttavia esso appare come il presentimento di una dignità spirituale propria dell’uomo [2524]”. Da ultimo “il pudore custodisce il mistero delle persone e del loro amore [2522]”. E tutto ciò, va detto, non è solo a favore dell’anima, ma anche di quello del corpo. Se si perde il senso dell’anima, si perde anche il corpo; chi non sa cos’è la destra, dimentica anche cosa sia la sinistra.

Chi ha difficoltà a rendersi conto che le nostre anime sono conculcate, rifletta su quanto il nostro corpo reclama. Su come si lamenta di essere dimenticato. Il corpo chiede di essere messo in gioco. Si ascoltino con attenzione ragazzi e ragazze che frequentano abitualmente la discoteca. I grandi dicono: c’è un tale rumore da non poter parlare, come si farsi capire? Sciocchi: è il linguaggio non-verbale ad essere attivato. La discoteca è il luogo del corpo senza anima: del fare, non del parlare. Esattamente la stessa anima senza corpo e lo stesso corpo senz’anima del resto della settimana. Nei giorni feriali si parla con le parole, in discoteca si parla con il corpo. I grandi dicono: perché quel tirar tardi, perché quel non entrare in discoteca prima delle undici e mezza? Sciocchi: l’evento richiede il rito, e la ritualità dell’avvicinamento alla dimensione solo fisica, serve per abbassare i livelli di guardia della quotidianità, si devono  aprire  altre frontiere comunicative. Ci si trova negli stessi posti, alla stesso bar, si beve, si mangia la pizza, ci si abbiglia in un certo modo (nuovi toreri per nuove corride). E quando si è “dentro”; beh, quando si è dentro, il volume chiude certi canali e ne apre altri. Si stimola il ballo, si evidenzia il corpo, si innesca il suo movimento, il suo pulsare[4].

I giorni feriali dai quali essi scappano, i pensieri quotidiani che essi vogliono far scivolare via, sono parole, sono discorsi, sono relazioni, nei quali essi non sono mai stati trattati “da persone”. Sul lavoro, nell’amicizia, nell’amore, le loro relazioni sono sempre state improntate alla ragione tecnica: il mondo della materia, il mondo dell’economia, il mondo della psicologia. Insomma, il mondo del mondo sperimentabile e misurabile. Essi sono sempre stati trascurati nella dimensione più profonda: quella metafisica, quella religiosa. Quel mondo non conosce quella dimensione. Se ne tiene discosto ed allontana chi se ne avvicina. Quei ragazzi sono esseri a sé stessi sconosciuti. La ferialità è il luogo nel quale si viene continuamente espropriati della propria intimità, della propria misteriosità, della propria storia, cioè del proprio dove e del proprio quando. E quando e dove sono le categorie del corpo, non lo si dimentichi. Il loro corpo -il corpo, la persona di ciascuno di loro- non è mai stato trattato come ricettacolo di un mistero, di quel mistero con nome e cognome che è ciascuno di loro. Anima e corpo non si sono mai nutriti l’uno dell’altro. In discoteca, c’è la stessa logica: un qui ed ora meramente fisico, ancora senza storia, ben al di fuori di qualsiasi contesto (la ritualità di cui sopra, ci ha ben ripuliti di quel po’ di storia personale che ci era rimasta addosso).

La virtù piccola del pudore viene in soccorso. A corpi senz’anima non si possono offrire anime senza corpi. E’ necessario assolutamente allontanare da noi qualsiasi visione manichea. Qualsiasi punto di vista cioè, basato sull’idea che il corpo sia solo un’insieme di fastidiosi inconvenienti. Questo genere di mentalità, che -per osmosi-  dal corpo si trasferisce alla storia, al mondo, e infine alla realtà tutta, conduce inevitabilmente a due estremi: l’utopia e il disincanto. I nazismi e i comunismi, le utopie del nostro secolo, hanno già preteso (ed ottenuto) cospicui tributi di vite umane; il cinismo, il disincanto, l’acquiescenza, la rassegnazione (che spesso si traducono in collaborazione verso le utopie) stanno mietendo il resto (e sono gli altri milioni di uomini).

Già S.Tommaso, nella Contra Gentiles, sosteneva che, da sempre, dopo il peccato originale, l’uomo tende al manicheismo, cioè ha la perenne tentazione di attribuire il disordine (cioè il peccato in tutte le sue manifestazioni) non a sé ma alla materia, al male che è fuori di sé  (e si noti in ciò il sorprendente punto di contatto esistente tra mussulmani e protestanti). “Era bene perciò -conclude con il suo angelico candore- che Dio ci salvasse attraverso le cose materiali”. Si aggiungano a ciò i frequenti richiami di Giovanni Paolo II. Egli per esempio  afferma che “la separazione nell’uomo tra spirito e  corpo ha avuto come conseguenza l’affermarsi della tendenza a trattare il corpo umano non secondo le categorie della sua specifica somiglianza con Dio, ma secondo quelle della sua somiglianza con tutti gli altri corpi presenti in natura, corpi che l’uomo utilizza quale materiale per la sua attività finalizzata alla produzione di beni di consumo. In una simile prospettiva antropologica la famiglia umana si trova a vivere l’esperienza di un nuovo manicheismo, nel quale né il corpo vive dello spirito né lo spirito vive del corpo: essi sono radicalmente contrapposti (…). In tal modo questa civiltà neomanichea porta a guardare alla sessualità umana più come a un terreno di manipolazione e di sfruttamento, che come alla realtà di quello stupore originario che nel mattino della creazione spinge Adamo ad esclamare davanti ad Eva: «E’ carne della mia carne e ossa delle mie ossa (Gn. 2,23)»”[5]. Come dicevo, non è un’affermazione isolata. Egli fin dagli inizi del pontificato ha ricordato che “l’uomo è segno che trasmette efficacemente nel mondo visibile il mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità. Questo segno è il corpo. Esso è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. E’ stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto in Dio dall’eternità”[6]. Ora, il senso del pudore è strumento indispensabile affinché il corpo viva dello spirito e lo spirito viva del corpo. Lo spirito umano infatti, può giungere all’invisibile solo attraverso il visibile; e poiché l’unico “luogo” in cui l’invisibile si raffigura, diventa visibile e dicibile, è il corpo umano con le sue relazioni con altri corpi umani, è proprio attraverso la scoperta della specifica somiglianza del corpo con Dio, che lo spirito umano può giungere a Dio. Occorre scoprire che il corpo non è esterno allo spirito, è l’autoaffermazione di esso, è la sua immagine. Ciò che costituisce la vita biologica, è nell’uomo costitutivo anche per la persona, tanto che la persona adempie se stessa nel corpo. Perciò  il corpo è  espressione della persona. E’ in esso dove si può vedere la realtà invisibile dello spirito. E non solo vedere. Anche ascoltare. In silenzio, ascoltarne i sospiri. E poiché il corpo è la visibilità della persona, ma la persona è l’immagine di Dio, il corpo, in tutto il suo ambito relazionale, è ad un tempo lo spazio nel quale il divino si raffigura. Diventa  visibile. Diventa dicibile. Per accostarsi al mistero di Dio l’uomo ha bisogno di vedere, di toccare. Ha bisogno di fermarsi e di vedere. Di, fermandosi,  far sì che tale vedere divenga un toccare[7].

 

Ci sono due modi, due maniere, per non insegnare la virtù del pudore: farne una mera teoria, farne solo una pratica. Questi due errori segnano la differenza tra la rosa e l’ortica. Bisogna proporsi di essere rose: essere ortiche non affascina nessuno (né gli altri né, soprattutto, a noi stessi). Si può essere ortiche, e credere di essere rose. Non ho prezzo, si pensa; chi mi tocca si punge, ci si compiace. La libertà e la purezza hanno il loro prezzo, ci si consola. Non sei bella, non hai profumo, non hai calore. Offri centimetri di stoffa e teorie. (E’ il senso  del pudore che ti manca).

Ci sono ben stati, anche in questi mesi, anche in questi anni, persone che “sapevano” cosa fosse il pudore. All’apparenza hanno mosso ben pochi. Credo sia perché l’arte ha bisogno di gente commossa, non di gente riverente.

Era il senso  del pudore che mancava.

Siamo arrivati al punto decisivo: la virtù del pudore, è la virtù del senso  del pudore. Come il senso della giustizia, il buon senso o il senso estetico; il senso della misura. Il senso del ridicolo.

Quando si parla, per esempio,  di ”senso della giustizia” si vuole dire che la persona in questione non solo ha buona “conoscenza” dei principi, della teoria, di cosa è giusto e ingiusto, ma anche -e soprattutto- che ha la capacità di applicare con facilità  una tale conoscenza; di vedere, come per istinto, dov’è la giustizia nelle situazioni complesse, non del tutto chiare dal punto di vista teorico. Questo è il punto: la persona che ha senso della giustizia splende nelle situazioni limite. In quelle situazioni cioè che, per essere “al limite” sono illustrate non da un solo criterio, da un solo principio, ma da parecchi, a volte apparentemente contrastanti. Non c’è dubbio che un tale senso della giustizia non è semplice frutto della conoscenza teorica della morale e del diritto, ma anche e soprattutto è frutto della virtù della giustizia .

Così, si tratta quindi di educare alla capacità di discernere con facilità, quasi per istinto, se sia o no pudica una situazione non del tutto chiara. Tale capacità, nel caso del pudore, riconduce quasi interamente alla capacità di ridestare in sé il senso di vergogna, una sorta di disagio, anche emotivo, che in alcuni casi giunge ad avere delle manifestazioni perfino visibili: si “diventa rossi” (è quello che accadde ad Adamo ed Eva dopo il peccato originale; la virtù minore accorse subito come sangue alla ferita). Educare al senso del pudore significa dunque insegnare a percepire  –anche sensibilmente, anche emotivamente-, il trovarsi in una situazione lesiva della propria intimità. Non è affatto sicuro cioè che quando si dice di “non sentire nulla”, di non sentirsi a disagio, quella situazione sia realmente non lesiva della propria intimità. Si potrà essere certi che è così, solo nel caso in cui ordinariamente si svolge su di sé un “lavoro” di educazione tale da rendere delicati e attenti ai valori della propria persona. Se così non fosse, l’ipotesi che in realtà si stiano subendo delle violazioni delle quali però non si accorge, sarebbe molto probabilmente, tristemente più di un’ipotesi.

 

Insomma una ragazza che sente spuntare in sé la donna, che si accorge che la si comincia a guardare come donna (che le vengono da fare dei discorsi da donna, e da donna sono quei discorsi che le interessano) (e lo stesso vale per l’uomo) una ragazza così, si ribella ad avere accanto una donna (madre, sorella, amica) meramente “pratica” o solamente “teorica”. Che faccia solo  discorsi di centimetri e di spacchi. Ha bisogno di un’amica che sia come lei, e che sia santa. (Una mistica). Ad una teoria si può contrapporre un’altra teoria, nessuno invece può confutare una vita. Lo dirò con parole di d. Alvaro: “Massimamente utili nella Chiesa di Gesù non sono i cosiddetti uomini pratici e neanche i puri banditori di teorie, bensì i veri contemplativi, dominati da una passione lucidissima e infaticabile: divinizzare e trasfigurare in Cristo e con Cristo tutta la realtà creata. Non è un paradosso asserire che, nella Chiesa di Gesù, soltanto la mistica risulta veramente pratica”[8]. Quella ragazza ha bisogno di persone che permettano, a chi le incontra, di essere in contatto con il mistero della loro esistenza: con Dio in loro.

 

E’ nell’intimità dell’amicizia che si scopre e si ricostruisce la propria intimità.  Se questo non avviene si cadrà necessariamente  nel discorso dei centimetri di gonna, di spacchi, di pelle nuda. Se si abbandona la prospettiva teleologica, necessariamente si cade in un discorso di “regole”. “La domanda ineludibile, perché in pratica ciascuna vita umana fornisce ad essa una risposta è: che genere di persona devo diventare? Per le morali moderne, frutto dell’ illuminismo, questa è una domanda cui ci si può accostare solo indirettamente. La domanda principale dal loro punto di vista verteva sulle regole: quale regola dovremmo seguire? E perché dovremmo rispettarle? Non sorprende che sia stata questa la domanda principale, se richiamiamo alla mente le conseguenze dell’eliminazione della teleologia aristotelica dal mondo morale”[9] .

Ora, la domanda suddetta trova risposta solo nell’amicizia: con Dio e con l’uomo. Spiega MacIntyre: “Il tentativo per rispondere a questa domanda deve innanzitutto chiarire a quelle persone che esse non possono raggiungere il loro bene se rimangono nell’isolamento e che le relazioni che esse intrattengono al fine di soddisfare i loro bisogni primari sono incapaci di aumentare il loro grado di conoscenza a proposito di quale sia il loro bene. Si badi che interno a questo processo conoscitivo è la sequenza di necessità che passa da quelle fisico-biologiche a quelle della vita morale (Summa Theologiae, I-IIae, 94,2). Ciò che deve scoprire la persona bisognosa di un’adeguata educazione morale è che ciò di cui ha bisogno, è un amico che sia anche un maestro nelle virtù. Per tutti coloro che sono ancora moralmente immaturi, il bisogno di amici è assolutamente necessario se vogliono diventare virtuosi (Comm. sull’ Etica, VIII, lect. 1) così che se qualcuno volesse chiedere perché una persona debba imparare a costituire una relazione di amicizia sarebbe sufficiente anche solo rispondere che attraverso l’amicizia quella persona imparerà che genere di persona vuole diventare”[10].

Potranno essere così tutelate e valorizzate le rispettive peculiarità. Ragazzi e ragazze cominceranno a sapere di essere psichicamente diversi.

E’ tutto  un bel camminare lungo la stessa via: la scoperta della propria intimità, insieme con la consapevolezza dell’unità della persona, conduce alla difesa dell’intimità del proprio corpo. Se scopro di essere mistero, ovviamente la tendenza a nascondere i valori sessuali e la vita sessuale, sarà la via naturale atta a svelare i valori della persona stessa, il modo idoneo di parlare della realtà della persona in quanto mistero. Proprio velandosi, ci si svela come mistero. E così facendo ci si rende capaci di donarsi. Il pudore mette in evidenza il valore della persona, non in modo astratto, ma in maniera concreta, legato ai valori del sesso sebbene nello stesso tempo superiore ad esso[11].

Così “il pudore regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e del loro amore [2521]; “Ispira la scelta dell’abbigliamento. Insorge, per esempio, contro l’esposizione del corpo umano in funzione di una curiosità morbosa in certe pubblicità, o contro la sollecitazione di certi mass-media a spingersi troppo in là nella rivelazione di confidenze intime. Il pudore detta un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e alle pressioni delle ideologie dominanti”[2523]. Poiché non esiste soltanto un pudore del corpo ma anche dei sentimenti, “conserva il silenzio o il riserbo là dove trasparisse il rischio di una curiosità morbosa”[2522].

Con un’amica si può compiere la necessaria valutazione dei propri atteggiamenti pratici;  ella si trova nell’intimità dell’altra persona, ne è ammessa, e perciò può emettere il giudizio pratico di conformità tra l’intimità della persona e l’intimità della situazione, giudizi che, se si sforzasse di rendere “assoluti”, farebbero inevitabilmente cadere nel ridicolo[12].

 

“Consideriamo l’esempio di un bambino di sette anni molto intelligente a cui io voglia insegnare a giocare a scacchi, benché egli non abbia nessun desiderio di imparare questo gioco. Il bambino ha invece un fortissimo desiderio di caramelle, e scarse opportunità di ottenerle. Perciò io dico al bambino che se giocherà a scacchi con me una volta alla settimana gli darò 50 centesimi di caramelle; gli dico anche che giocherò sempre in modo tale che per lui sia difficile ma non impossibile vincere, e che se vincerà riceverà 50 centesimi di caramelle extra. Motivato in tal modo, il bambino gioca, e gioca per vincere. Osserviamo però che finché le caramelle rappresentano l’unica buona ragione che ha il bambino per giocare, egli non ha nessun motivo per non barare e tutti i motivi per barare purché possa farlo con successo. Ma possiamo sperare che giungerà un momento in cui il bambino troverà un nuovo insieme di ragioni nei valori specifici del gioco degli scacchi, nel conseguimento di una certa particolarissima specie di capacità analitica, immaginazione strategica e intensità competitiva: ragioni, a questo punto, non soltanto per vincere in una determinata occasione, ma per cercare di eccellere in tutto ciò che è richiesto dal gioco degli scacchi. A questo punto, se imbrogliasse, imbroglierebbe se stesso”[13]. Le parole in corsivo indicano il comportamento prudente. Si tratterà di valutare in che misura la gestualità in parola stia servendo alla scoperta da parte dell’amica della propria intimità (“il nuovo insieme di ragioni”) o se invece il gesto proposto rimane estrinseco alla persona ( rimane cioè “a giocare per le caramelle”).

 

Si sarà notato che gli esempi fatti, le situazioni descritte, sono quasi sempre declinate al femminile. Non è un caso. Non credo affatto che la donna abbia una responsabilità più grave: credo, semmai,  che la donna sappia ciò che l’uomo non sa. La Chiesa, al contrario di come a volte si dice, non dà “la colpa” alla donna. S. Maria Goretti non aveva nessuna responsabilità per le “voglie” del suo aggressore. Semplicemente, si rivolge alla donna perché sa che ella può riuscire, là dove l’uomo non può (a volte) neanche tentare.

Diciamolo con la S. Scrittura.

Esodo insegna che  con ciò che adorna le nostre mogli e le nostre figlie, ci costruiamo gli idoli che adoriamo.

«Il popolo, vedendo che Mosé tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: “Facci un Dio cha cammini alla nostra testa, perché a quel Mosé, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”. Aronne rispose loro: “Togliete i pendenti d’oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie e portateli a me”»[14]. Chi ha bussola nel cuore, chi sa adorare Dio (e, quindi, riconosce chi è Mosé), non adora le Sue creature. Chi dubita che Mosé viva (che Dio viva) vuole idoli. E il processo idolatrico inizia dal “fior fiore”, dall’ultima  creatura, la donna. Si badi bene: sono i suoi pendagli, le sue grazie, che divengono oggetto di adorazione, non “lei”. Invece l’uomo, quando sa riconoscere chi è Dio, sa incorniciare i Suoi capolavori, sa incorniciare d’oro la donna. Ed appena lo dimentica, è la donna che vessa. Tutto ciò, se si conosce il cuore dell’uomo, è molto facile da spiegare. L’uomo che ha dimenticato la sua dignità, cerca succedanei a Dio attraverso tre principali modalità viziose: lussuria, avarizia, ricerca del potere (con tutte le variazioni: violenza, ricerca di consenso, superbia, invidia, gelosia, ecc.). Tra le tre, proprio perché la peggiore è la questione che si riferisce al potere; e perché, tra lussuria ed avarizia, la più ostile all’uomo buono è la seconda; ecco che, in genere, i primi peccati di chi non adora Dio (essendo già questo un peccato) sono contro la purezza. Prima dell’avarizia e della ricerca del potere. Per questo, quando la donna era sana, quando la donna si negava, la società (l’uomo) era ad un passo dall’essere salvo. E’ quando l’influenza è senza febbre che si trasforma in polmonite.

Diciamolo con l’arte.

L’insostituibile ruolo femminile è insegnato (anche) stupendamente da Kafka. Mi riferisco a quella sorta di “profezia”  dell’epoca moderna  costituita da Il Processo . E’ noto che per Josef K,  il protagonista, le donne presenti nel romanzo sono puri oggetti erotici, tutti simili e tutti ugualmente privi di personalità. Ed egli cerca il loro intervento; anzi, significativamente, il rapporto con esse è quello della preghiera: “Signorina Burstner!’. Sembrava una preghiera più che un richiamo”[15]. Questo è ciò che accade in un mondo in cui al posto di un Padre c’è solo un eterno Giudice che tutto trasforma in processo. Sì, K. prega  le donne: forse una donna potrebbe liberarlo facilmente dalle pene della sua vita disperata. Una donna potrebbe costruire per lui un piccolo mondo fatto di calore, di baci, d’amore. K. sa che quell’idea è falsa. Ed è falsa esattamente perché è troppo facile. Per questo lo condurrà ancora più in basso; ma, pur sapendolo, non riesce a rinunziarvi, tale è la sua forza. Si vede che la preghiera è qualcosa di naturale per l’uomo, ma come si fa a pregare?[16]. A ciò mi sto riferendo.

Quello che serve è l’evento di una donna forte: che sa dire di no. Ecco il miracolo di Dio. Il digitus Dei  che serve.

Studi Cattolici nn. 425/426 – Agosto 1996


[1]Cfr. Beato Josemaría Escrivá, Cammino, n° 301: “Un segreto. – Un segreto a gran voce: queste crisi mondiali sono crisi di santi”.

[2] Tranne Paolo Baffile su  Avvenire,  del 21.1.96 da cui abbiamo mutuato la riflessione che stiamo riferendo.

[3]Catechismo della Chiesa cattolica, n° 2524. D’ora innanzi le cifre tra parentesi quadre indicheranno punti del Catechismo.

[4]Di grande interesse per quello che ho appena affermato è la ricerca sul tema delle discoteche finanziata da Fondazione Corattin e Regione Veneto, e svolta da Carlo Castelli, Salvatore La Mendola, Maurizio Rasera, M. Clorinda Salvadori.

[5]Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, n° 19.

[6]Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò.

[7]Cfr.”Il corpo non è esterno allo spirito, è l’autoaffermazione di esso, è la sua immagine. Ciò che costituisce la vita biologica, è nell’uomo costitutivo anche per la persona. La persona adempie se stessa nel corpo ed il corpo è perciò sua espressione; in esso si può vedere la realtà invisibile dello spirito. Poiché il corpo è la visibilità della persona, ma la persona è l’immagine di Dio, il corpo, in tutto il suo ambito relazionale, è ad un tempo lo spazio nel quale il divino si raffigura, diventa dicibile e visibile. Per accostarsi al mistero di Dio l’uomo ha bisogno di vedere, di fermarsi a vedere, e di far sì che tale vedere divenga un toccare. Egli deve salire la scala del corpo”. J. Ratzinger, Guardare al crocefisso, pp. 47.49  (Jaca Book 1992).

[8]S. E. Mons. Alvaro Del Portillo, Le profonde radici di un messaggio, in L’Osservatore romano, 23 giugno 1985

[9]Cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù, p. 146.

[10]Cfr. A. McIntyre, Whose Justice, pp. 179-80.

[11]Cfr. K. Wojtyla, Amore e responsabilità, p. 166

[12]Naturalmente, ricordo che l’ipotesi sotto la quale stiamo lavorando, è quella di escludere le evidenti e clamorose mancanze di pudore.

[13]A. MacIntyre, Dopo la virtù, p.226

[14]Esodo 32, 1-20.

[15]F. Kafka, Il processo, p. 72 (Mondadori 1985)

[16]Per le considerazioni su Kafka, ho preso spunto da un saggio di Luca Doninelli che introduce l’edizione de Il processo omaggio de Il Sabato ai propri lettori.