Angelo Cupini – Visitare gli infermi. Lasciamoci arricchire dalla debolezza
Questa opera di misericordia parte da un movimento: “visitare”. “Indica un punto di partenza e uno di arrivo. Indica la tensione della persona. Intreccia interessi, affetti, operazioni. Indica un coinvolgimento.”
Già dalla prima pagina, è un libro che ci mette in moto, che ci dice che se stiamo chiusi in camera, fosse pure a pregare, quest’opera di misericordia non potremmo farla mai, mai viverla.
Si va dal malato e allo stesso tempo si è visitati, investiti quasi, dal malato e dalla sua famiglia, dalla sua malattia. Che non riguarda solo lui ma chi gli sta intorno e quindi anche noi.
C’è una frase di Gesù che è sempre per noi e che potrebbe essere una traccia importante per vivere quest’opera di misericordia: “Tu seguimi”. Seguiamo Gesù quando seguiamo un malato, quando ci lasciamo raggiungere da lui. Malattia si dice anche morbo, che ha la stessa etimologia della parola morbidezza. Dai mali si è “smollati”, dice l’autore. La malattia ci toglie forze e energie. Visitare un malato significa che anche noi dobbiamo farci smollare dalla malattia. Non si può fare una visita ad un malato, da sazi, da forti della nostra salute.
Per entrare nel vivo di questa opera di misericordia, è molto interessante sentire le esperienze di vita di tante persone, uomini e donne, consacrati e non, giovani e anziani, che hanno dedicato anni della loro vita ai malati. Hanno imparato tantissimo dagli altri ma soprattutto, hanno imparato tantissimo di sé stessi.
Hanno imparato a gestire il tempo, ad avere pazienza, ad entrare in casa come scalzi perché si entra in zona sacra. Rispettare gli orari della famiglia, i suoi usi e costumi, a non fare domande inopportune, ad ascoltare e non chiedere o chiedere pochissimo.
Gesù non era un mago e non era un taumaturgo. Non aveva parole miracolose o ricette magiche da applicare. Lui portava su di sé il peso dell’incontro. Lui entrava nella storia della persona malata che aveva davanti e ripercorreva quella storia nell’ascolto e nella partecipazione. Si lasciava commuovere, “smollare”. Ogni miracolo di Gesù è stato un miracolo di amore.
Pensiamo all’altro malato, come ad un fratello o ad una sorella, perché questo sono: fratelli e sorelle.
Interessante e commovente la testimonianza di un’usanza clarettiana in India. I confratelli lavano sempre e subito, i piedi ad ogni povero e malato che si presenti. La cura dei piedi è parte essenziale del ministero alle persone che passano per la comunità.
“…Ma anche il missionario ne viene sanato: il male dell’altro ti ferisce; le impurità rituali che chiudono il dialogo con le istituzioni tu le tocchi. La diversità di genere la superi prendendoti cura di tutti. Si apre così un cambiamento vocazionale. Il missionario non è solo quello che dice le preghiere per gli altri o celebra o legge la Parola, ma è quello che contamina le sue mani, che diventano amiche dei piedi delle donne e degli uomini che ti chiedono aiuto. Questo ti permette di riprendere il contatto con il più profondo di te, della tua vita, delle ferite di cui anche tu sei portatore. Ci si compromette in un modo più trasparente con la vita di tutti.”
“Tra gli uomini dobbiamo provare ad aprire piccoli percorsi di contatto, a costruire ponti, magari leggeri. Questa è una delle prime regole della grammatica dell’umanità: farsi prossimo è la responsabilità personale verso l’altro, è imparare a ricostruire la materialità dei gesti”.
Elemento fondamentale di questa grammatica dell’umanità è la compassione che l’autore traduce con un efficacissimo “sentirsi divorare le viscere” dall’altro e per l’altro.
C’è un capitolo che si chiama in un modo molto bello “Guaritori perché feriti”. È importante perché solo da feriti c’è compassione. È come se la compassione nascesse in noi dalle nostre ferite. Persone pie e pietà, non sempre coincidono. Ripetono le formule delle teologie in cui credono. Invece lì dove ci sono ferite ci sono le porte per far uscire la compassione.
“Spesso i malati diventano vittime di persone che si sentono la vocazione di essere salvatori degli altri”. Invece questo libro parla di quest’opera di misericordia, partendo dal malato. È il malato che ha l’aureola. Si va a trovare un santo. È un’opera che ha dei pericoli. Non basta sedersi al capezzale.
“È possibile che si generi uno scioglimento reciproco delle difese, che si apra un tempo vitale di crescita, o che invece si verifichi un irrigidimento dell’uno contro l’altro, l’uno che aggredisce e l’altro che si difende, ognuno immaginando di voler realizzare il bene dell’altro. La visita diventa allora un’occasione preziosa per rivelare a noi stessi chi siamo.” Quest’opera di misericordia può essere pericolosa e dolorosa.
Viene riportata una preghiera bellissima di uno dei monaci massacrati in Algeria a Tibhirine: “Signore disarmali, Signore disarmaci”.
Gesù visita un malato quando visita la suocera di Pietro. Non la guarisce solo togliendole la malattia. La guarisce permettendole di riprendere il suo posto di padrona di casa che accoglie gli ospiti.
Visitare un malato è ridargli quella dimensione sociale che ha perso con la malattia.
La dimensione sociale propria di ogni uomo è quella di essere utile al prossimo, di poter fare qualcosa per gli altri.
Chiude il libro la lettera di un uomo molto malato che parla della felicità che ha scoperto nella sua vita, specificando bene che la sofferenza non è necessaria per essere felici ma che per lui è stato così e lui non voleva dare una testimonianza di felicità dalla malattia ma solo di felicità.
Una bella lettera in un bel libro.
Angelo Cupini, Visitare gli infermi, Emi 2016