Blog / Lettere | 12 Aprile 2014

Le Lettere di Paolo Pugni – La lezione della maratona

E così si parte appena dopo Pasqua. Niente biglietti millemiglia (riproviamo per luglio, non smettere di pregare… per questo capriccio) e il messaggio, forte e chiaro, che il piano B, ispirato da un sogno alla mia signora, era in realtà il vero piano A.
Ci mettiamo sul cammino di Santiago a partire dal 21, cosa che mi impedirà di  dialogare su queste pagine per una decina di giorni, ma di conversare con angeli e pellegrini sul sentiero che porta ad ovest di se stessi, fino ai confini della terra, usque ad ultimum terrae…
Nel frattempo però abbiamo corso la maratona, mica tutta però, la staffetta, in 4 frazioni differenti, come a ricordarci che la giustizia non è diviso quattro, ma ad ognuno il suo.
Sì, perché se è vero che tutto concorre al bene, allora è vero che devo leggere in ogni cosa il sussurro di Dio, la Sua carezza. E quindi in questa domenica speciale, dove ho condiviso 42 e rotti chilometri con un amico delle medie (e fa due, dopo che con un altro ho corso la Stramilano) moglie e figlia prossima alle nozze, che cosa m’ha voluto insegnare il Signore?
Benedetta sia la fatica, perché squarcia le fragilità. Iniziamo da qui. Mai divertiti di più. Anche se ne siamo usciti un po’ cotti. La notte seguente ho dormito quasi dieci ore di fila, credo che l’ultima volta fosse capitato quando avevo 9 anni o giù di lì…
Però dentro quella sgobbata ci trovi la gioia, l’umiltà. Non il dolore, perché spesso il dolore –spesso, non sempre- è la suppurazione del nostro egoismo. Coma capita leggendo affermazioni in rete di chi, avendo molto sofferto, pretende che il suo strazio si erga a misura del bene, diventi legge, regola per tutti. Confonde la giustizia, tutta da dimostrare, con la verità. Non c’è sofferenza, per quanto infinita ed ingiusta, specie se subita, che possa cambiare la verità e il vero senso del bene. Un po’ correndo lo capisci.
Poi c’è il ritmo che è lezione di saggezza e umiltà. Son partito nella prima frazione, quella che colava giù da Rho Fiera attraverso la tangenziale e i parchi per ammarare a san Siro, primo cambio. 13,5 km. Mica bruscolini. Son partito nelle prime file, mica perché abbia sgomitato, ma perché ho seguito alla lettera le istruzioni: presentarsi alle 8.45. Per non sbagliare alle 8.30 ero là. E finisci alla testa della folla di oltre 2200 staffettisti. Ossia tra i più veloci.
E corri cercando di tenere il loro passo, e ti sembra comunque che ti sorpassino a migliaia. Così rispetto al mio tempo medio di 6 minuti a chilometro, mica male comunque, mi trovo a correre i primi tre chilometri ad una media inferiore ai 5 minuti: vale a dire ad un ritmo folle che poi paghi. Infatti.
E la vita è così: prendi il tuo passo, non farti trascinare, non farti risucchiare da chi vuole di più, che magari lui riesce a farlo, a tenerlo quel ritmo. Ci vuole pazienza, costanza, sforzo sì, ma senza fretta. E coraggio, per non adeguarsi, per non avere paura di restare indietro. Che il Signore non misura i tempi –prende anche quelli dell’ultima ora- ma la destinazione.
Così un 3-4 pezzettini li ho fatti di buon passo, ma non di corsa. E dentro, dopo l’ottavo chilometro quando la corsa sfilava proprio nei posti miei, lambendo il parco di Trenno, è stata la fragilità a dominare. Non quella dei muscoli, ma quella della testa: ecco, sto rovinando tutto, che figuraccia. E squilla all’improvviso la voce di don Ugo e della necessità di venire approvato dal gruppo primario. Perché mentre corri, anche se nelle orecchie ha la musica –I will survive ci vuole proprio- la testa parte e va in giro con tutti i suoi perché.
Sorridi, è l’angelo parcheggiatore che ti prende per mano e ti sta vicino, al tuo passo solo un po’ più veloce perché comunque è una sfida e devi migliorare, poco ma giusto.
Al decimo chilometro, dove c’è il cronometro ufficiale, lo scatto per stare dentro i 56 minuti che ti sembra come traguardo impensabile, è il momento della gioia un po’ trionfale, della carezza, dell’incoraggiamento.
Poi si arriva a san Siro e ti dici che ormai è fatta, che devi correre a testa alta. La corona l’hai meritata, ma è lì che si annida l’ultima tentazione.
Le staffette erano 2200, per facilitare i cambi hanno creato box per centinaia 0-100, 101-200, 201-300 e così via. Ogni box occupava circa 50 metri. Forse poco meno. Di sicuro più di 30. E quando arrivi e vedi il primo box è lì che si vede se hai tenacia e persistenza, come nella vita spirituale, quanto tutto sembra sciolto e pronto.
Perché il mio pettorale fa 1719. E da correre quando pensi di poterti fermare e tirare il fiato, ci sono ancora circa 800 metri, che sembrano pochi, ma falli a quel punto della mattina e dei muscoli, quando per colazione hai acido lattico e spugnate in faccia.
È lì che il Signore t’aspetta: vuoi mollare proprio adesso o ti lasci guidare e acceleri?
E il resto?
Se vi interessa ve lo racconto poco alla volta

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