Blog / Lettere | 28 Settembre 2013

Le Lettere di Paolo Pugni – Però volersi bene, no…

Tre corner un rigore. Questa era la regola quando giocavi a palla nei vicoli stretti di un borgo di lago. Ma forse era una di quelle norme comuni. Tre indizi fanno una prova: non è probabilmente una tesi accettabile in un tribunale, ma nei romanzi gialli sì. Ecco, il mio rigore e la mia prova sono qui, a voler leggere la trama, la realtà in trasparenza, e non solo surfare sulla superficie incurante del senso offertoci tra le pieghe della quotidianità. Dunque quando tre Dioncidenze ti attraversano la strada in breve tempo, beh saresti proprio sciocco e tardo di cuore a capire se non iniziassi a farti domande sul senso e soprattutto sulle tue azione che ne devono conseguire. Definire una strategia, un piano, una modalità. Perché questa è una grande differenza e lo so già che farò fatica a spiegarla: e basterebbe questo a disperdere infinite discussioni basate sull’ideologia e non sulla natura. Come faccio a far capire ad una donna che del particolare a me non interessa niente: è un pretesto, un mezzo, un trampolino per risalire all’Idea, al Sistema, al Pensiero che è ciò che per me conta veramente. Invece guarda qui cosa è successo la scorsa settimana, parto da un pretesto, una piccola cosa, quasi una invenzione letteraria –no, è vera, ma potrebbe starci- l’aver smarrito un fazzoletto per parlare poi di come Dio irrompa nella tua vita partendo dalle banalità per condurti su ali d’aquila, e cosa succede? Che le signore si concentrano sul fazzoletto: ma di che colore era? Come era ricamata? Del papà? E quando è morto? E come? Scusate, parafraso, caricaturo, provoco. Scherzo. Non intendo irridere. Ma stupisco: che accidenti mi frega del fazzoletto? Non capite che è un’icona di un pensiero che conta realmente? Che a me sta a cuore il senso e non la sensibilità? Gli è che siamo diversi e che di questa differenza s’arricchisce il mondo e al vita, e grazie a Dio. Tirem innanzi! Ora in un breve spazio leggo il libro di un amico sacerdote che tra le righe parla della necessità di amare, poi un altro, sempre di un prete molto caro, che addirittura dell’amore porta il sapore nel titolo, e infine per ribadire il conto, Papa Francesco in una lunga intervista letta il medesimo giorno mette l’amore al centro di tutto. E qui sul blog se ne parla a mani basse. O con basse mani. Sarà mica vera allora quella storia che dice che saremo giudicati sull’amore? O c’avrà mica ragione sant’Agostino quando dice ama e fai ciò che vuoi? Ciò detto come lo mostro questo amore qui, su questa stessa pagina, senza mentire? Nella mia percezione c’è che l’amore passa attraverso l’ascolto, la pazienza, la voglia di sentirsi raccontare, capire. Non che lo esaurisca si intende: non c’è riuscito il mio omonimo santo con il suo Inno… Dico che specialmente in rete se non provi a capire e reagisci subito, beh c’è una altissima possibilità che tu sbagli. E che cosa è successo ai commentatori della pagina che è dedicata a questi post? Chi trova una domanda trova un tesoro! Invece che cercare di comprendere, si reagisce subito, si schernisce, si giudica, si applica il proprio metro.

Senza nemmeno provare ad applicare una delle due domande per ascoltare che suonano così: domanda chiusa di conferma (quando dici che… vuoi forse dire questo….?) e domanda aperta di chiarimento (che cosa intendi quando scrivi…?).

Sia chiaro, primero yo!, sono io il primo a cascarci, e probabilmente ci cascherò nei commenti a questo post, temo. Perché cado 77 volte al giorno io: meglio abbondare che…

Lo dico come spunto, che quel libro di don Ugo m’ha straziato il cuore, quando dice che non amiamo minimamente se non riusciamo ad amare non un nemico –che magari è più facile- ma l’immagine del male che ci siamo fatti. E tocca il sublime quando chiede al prete di periferia se è capace di amare il riccastro che con del Suv fa trombetta e se va in giro sgommando mentre telefona senza auricolare. Lì ci interroga Gesù. Lì ci chiede conto delle nostre parole. Che queste promesse in vento et rapida scribere oportet aqua.

Ma la strada è tracciata: ci tocca solo seguirla.

 

P.s. mi dispiace per Fefral che ama la scrittura secca e lineare, soggetto verbo predicato. C’ho provato. Non riesco. Mi piace il verbo che s’intesse e che evoca. Perché dentro di me non trovo più distinzione tra esperienza vissuta ed assorbita, che poi è altro modo per viverla. Che è come se davvero il mio amore avesse “le stesse parole, li stessi respiri del libro che leggevi di nascosto sotto il banco”.

Ogni parola mi narra e mi ricorda e mi conduce dove vorrei portare anche voi. E ci vogliono rime gonfie e tonde, da prendere in mano e rigirarle e spremerle per vedere cosa ci sta dentro, dato che la letteratura –ma sì, facciamo finta che…- sempre interroga e ad ognuno chiede cose diverse.

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