Blog / Lettere | 14 Giugno 2013

Lettere – Intervista a Pierluigi Bartolomei

Pierluigi Bartolomei è nato a Roma nel 1961, sposato con Emanuela e padre di cinque figli. Un passato da aspirante attore cinematografico e una forte passione per il teatro specialmente per il cabaret. È Direttore e consigliere nel Cda della Scuola di Formazione ELIS, e lì dentro è responsabile di tante altre cose. Nel 2007 ha scritto il libro “I ragazzi di Via Sandri ” (Ares), Recentemente si è improvvisato sceneggiatore/form-attore, mettendo in scena I cinque linguaggi dell’amore, di Gary Chapman. Da oggi inizia a collaborare con il nostro blog. Ecco qui un’intervista che ha appena rilasciato al settimanale “A sua immagine”.

1. Appassionato di teatro e recitazione, come ha scoperto la vocazione di educatore?

Per puro caso.Devi sapere che non credo di essere ancora uscito definitivamente dalla fase dell’adolescenza di mezz’età, per cui fino all’età di vent’anni era la mia famiglia a dirigere le mie scelte scolastiche e professionali. Prima il tecnico industriale perché mio padre era convinto sostenitore del nucleare e stavano costruendo in quel periodo la centrale di Montalto di Castro. Poi economia e commercio perché avevamo una conoscenza nella grande distribuzione organizzata. Ad un certo punto incontro un tizio fuori dell’ecosistema famigliare, un tale che mi propone per una posizione da manager didattico in un master patrocinato dal gruppo Iri Italstat. Accettai perché ero molto stressato e lavoravo 12 ore al giorno, entrai al centro Elis, una specie di eldorado della formazione, il tempio dell’apprendimento educativo, una vera isola felice. Poi la direzione della scuola, i ragazzi dei quartieri difficili, l’humanae vitae di Casal Bruciato, un posto border line dove si innalzano al cielo una serie di palazzoni zeppi di povera gente, alcuni lavoratori, altri che vivono di espedienti. E sentendo le storie dei miei ragazzi mi sono innamorato di loro rivedendo me stesso alla loro età. Ogni giorno penso alle loro spalle gracili e ai pesi che debbono sopportare nonostante la loro tenera età (alcuni appena quattordicenni). Storie di abbandono, di violenza domestica, di droga, di alcool, di isolamento e di mancanza di affetto. Il mondo è nelle mie mani, penso spesso, non posso far finta di non vedere, di lasciar cadere o peggio ancora di assecondare certe cattive inclinazioni. Li voglio aiutare a riflettere e a ritrovare Dio nelle loro esistenze. Mentre il teatro e la recitazione sono nella mia struttura molecolare, fanno parte della mia indole ed io li utilizzo per comunicare contenuti valoriali. Il cabaret come mezzo, il divertimento come sostegno perché chi deve ascoltare e capire sia più facilitato nell’apprendere il valore del servizio e dell’amore senza correre il rischio di andarlo a cercare altrove.

2. Lei ha cinque figli…una scelta controcorrente anche questa?

Anche questa totalmente casuale. Non mi volevo sposare, facevo politica con l’estrema sinistra e l’idea di rifare quello che avevano fatto i miei genitori mi metteva una tristezza infinita. Volevo fare l’alternativo, quello che voleva dimostrare che si può vivere anche uscendo dal seminato e dalla tradizione. Poi Emanuela, una donna che mi fa ancora girare la testa quando la vedo.Mi innamoro subito dei suoi difetti. Poi da adolescente convinto smetto di fare calcoli matematici e mi butto come un ragazzino, senza ragionare tropo ma fidandomi. In fondo cos’è un adolescente se non uno che ha il motore di una Ferrari con i freni di una bicicletta. Prima Teresa. La Teresona di papà, quella che mette in riga tutti con un semplice sguardo. Poi Giovanni, il genio della lampada che esce da casa con una scarpa marrone e una nera per distrazione professionale, poi Pietro, il nazional popolare, quello che ha una marea di amici e che fa ridere tutti, Agnese, il vero fenomeno, Brava con le mani, con la testa, adulta con un corpo da dodicenne, e infine Stefano, di 5 anni, mammone, mangione, colui che ha riacceso nuovamente il fuoco dell’amore in famiglia.

3. Ha cantato davanti Giovanni Paolo II. Che ricordo ha?

Ricordo che dopo la canzone, gli raccontai una barzelletta in dialetto romanesco e che lui rideva a crepapelle. Buttandosi sulle mie spalle, in un abbraccio indimenticabile, sentivo il suo corpo sussultare per le risate sincere. Mi disse di non aver capito nulla ma che l’avevo convinto lo stesso e che ero una gran faccia tosta. Un complimento più bello non credo di averlo mai ricevuto. Non dobbiamo avere rispetti umani con nessuno, se veramente vogliamo annunciare Gesù a tutti, specialmente a coloro che hanno maggiori responsabilità e che si trovano in alto come la neve sulla cima delle montagne, con la speranza che questa prima o poi si sciolga ed arrivi a tutta la vallata.

4. Come è avvenuto il suo incontro con L’Opus Dei?

Conobbi un uomo normale, non uno con la faccia clericale, il classico sepolcro imbiancato, ma uno che aveva i piedi ben piantati per terra che mi parlò di povetà , di castità coniugale, di un piano di vita adatto a coloro che hanno poco tempo e che lavorano molto e bene, curando tutti i particolari. Dissi tra me, questo è matto oppure è un prete pentito. No era un laico che aveva compreso fino in fondo l’insegnamento del concilio vaticano secondo. Iniziai a spostare il mio sguardo più in alto e a vedere oltre, oltre il mio naso, cercando di ragionare con la testa di Dio. Ho trovato il miglior posto dove nascere e morire.

5. Che ruolo ha la fede nella vita di ogni giorno e quanto/come influisce sul suo lavoro?

Lo sforzo è quello di vivere in perfetta unità di vita. La fede si fonde con il lavoro e viceversa senza alcuna schizofrenia. Nel lavoro, nello sport, in famiglia, ovunque sei come fossi Gesù che passa. La scrivania è il nostro altare da baciare ogni mattina e la confessione è il nostro pit stop settimanale per un lavaggio alla carrozzeria, una messa a punto generale, un cambio gomme per poi ripartire veloci. Per servire…servire, indicava San Josemaria, come fosse l’unica vera strada da attraversare. Il lavoro è servizio senza riserve, senza tenersi nulla per sé stesso. Diresti, facile a dirsi ma io non mi sento portato, non ne sono degno. Dio ci ha scelti fin dall’eternità, così come siamo, con i nostri difetti sapendo che sbagliamo e che continueremo a farlo ma nonostante tutto ci chiede di aiutarlo. La Chiesa è Sua e Lui può farci quello che vuole, può anche rischiare di mettere nella vigna dei servi infedeli come noi. Noi dobbiamo solo assecondare la sua volontà, dicendogli ogni tanto. “ Te l’avevo detto…io sono fatto così…che te ne fai con uno come me” e Lui ci dirà che non Gliene frega nulla e che ci vuole infinitamente bene.

6. Cosa è l’Elis e cosa significa per lei lavorare con ragazzi, spesso problematici, in un quartiere difficile (in periferia, come dice Papa Francesco)?

Elis è educazione, lavoro, istruzione, sport. Elis è il luogo in cui ben tre pontefici hanno sperato che si realizzasse un lavoro ben fatto a favore di coloro che sono giunti all’ultima spiaggia. Elis è un posto dove la politica e i suoi meccanismi non mette piede, perché c’è da sporcarsi veramente le mani ogni giorno. Un posto dove puoi guadagnarti un pezzo di paradiso, se veramente ci credi. Ieri un ragazzo è entrato in presidenza con un vistoso ematoma sul viso, gli ho chiesto cosa fosse accaduto. Mi ha risposto che suo padre gli aveva dato un calcio in faccia e tirandosi su la maglietta mi ha mostrato il suo corpo martoriato dalle percosse di un padre disperato, ubriaco, senza lavoro, volento anche con sua madre, siamo andati insieme nella cappellina della scuola e abbiamo urlato a nostro Signore il perché di tutto questo. Ci siamo letti dalla Bibbia la storia di Giobbe che dopo aver perso tutto si grattava strofinandosi sulla terra con un coccio per la malattia che era intervenuta nella sua vita. Poi Dio lo prende e gli fa capire tutto. Decido di mettermi in gioco e di parlare con sua madre. Poi ho fissato un appuntamento per la prossima settimana con suo padre. Non ho una strategia in mente, so solo che andrò fino in fondo perché non posso lasciar solo Daniele. Per ora prego, poi se sarà necessario quando vedrò suo padre forse lo sbatterò amorevolmente addosso al muro perché capisca che deve parlare e non usare mai la violenza, contro nessuno. Questo è l’Elis.

7. Sul sito si definisce “un preside di frontiera”.

Perché? Perché non siamo ai Parioli e perché la nostra missione non è quella di stare riparati sotto una tenda con i generali a fare strategia ma bensì quella di andare ogni giorno in trincea per fare e per raccontare cosa accade ogni giorno dal fronte.

8. La scuola è un’antologia di storie, di immagini, di aneddoti, di volti…ce n’è uno in particolare a cui è particolarmente legato?

La storia di un ragazzo molto povero (Giovanni) figlio di un operaio edile e di una casalinga, entrambi analfabeti. Giovanni scelse di frequentare il primo corso per orologiai. La scuola di orologeria nacque per desiderio di un gruppo di gioiellieri romani in risposta all’ennesimo morto sul lavoro causato da una rapina a mano armata avvenuta in una gioielleria romana del quartiere africano. Il giovane gioielliere ucciso, Giorgio Baglioni, sembrerebbe per mano di alcuni delinquenti del quartiere San Basilio, lasciò sola sua moglie e un figlio di appena 6 mesi. Morì con lui, durante il conflitto a fuoco con la polizia, anche uno dei criminali, Vinicio Leonetti anche lui di San Basilio. La categoria degli orafi romana si riunì d’urgenza nella propria sede in piazza Gioacchino Belli, per porre rimedio al dilagare della violenza in quel periodo essendo questa l’ennesima rapina avvenuta, durante la quale c’era di nuovo scappato il morto. Alcuni dei partecipanti all’incontro proposero di rispondere utilizzando gli stessi metodi, suggerendo ai vari commercianti di armarsi e di andare a scovare gli autori dei delitti nella borgata da cui si pensava provenissero i malviventi. Volevano per questo organizzare delle vere e proprie ronde di sorveglianza e di investigazione. L’allora Presidente, Ernesto Hausmann propose invece di creare una scuola che togliesse dalla strada i potenziali delinquenti. La risposta fu proprio quella di organizzare presso il Centro Elis una scuola di oreficeria e orologeria a Casal Bruciato che come detto a quei tempi ospitava molti sfollati delle borgate limitrofe. Tornando a Giovanni ti assicuro che questo giovanotto aveva molto probabilmente tutte le potenzialità per diventare da grande uno dei tanti che si guadagnano da vivere senza rispettare la legalità. Era vissuto in una baracca per 17 anni della sua vita senza essere seguito da nessuno dei suoi genitori. Vestiva come fosse nato nella giungla e oltre a non saper nè leggere nè scrivere, non era infatti mai andato a scuola, parlava quasi a gesti e ogni tanto tirava fuori dei mugugni che gli servivano a rassicurare il suo interlocutore facendogli capire che aveva compreso la domanda anche se non riusciva a formulare una risposta adeguata e completa. Riempiva il suo tempo andando in giro a caccia di storni che in alcuni periodi dell’anno passano proprio sopra la capitale, durante lo spostamento migratorio. Si appostava dietro una siepe tenendo in mano un’ esca da mangiare e non appena l’uccello era alla sua portata lo agguantava con le proprie mani più veloce di un serpente. Poi fece dei passi in avanti, si industriò e come Robinson Crosuè, escogitò un sistema di caccia più raffinato. Si metteva sotto un albero zeppo di storni nascondendo un tocco di zolfo puro acceso, sotto una tinozza di plastica. Non appena l’esalazione di zolfo fuoriusciva dai lati del recipiente capovolto, rovesciava il contenitore e si alzava improvvisamente una nube altamente tossica di zolfo, come fosse il fungo dell’atomica che raggiungendo i vari rami dell’albero faceva precipitare a terra decine di uccelli moribondi. Subito dopo raggiungeva il mercato di piazza Vittorio e lì iniziava la fase di vendita. Era furbo e intelligente. Iniziò così la fase di sgrossatura didattica che consistette immediatamente in un corso intensivo di italiano. I docenti inoltre, come esercitazione, lo tempestavano di continue domande non appena arrivava la mattina a scuola per evitare che si impigrisse. Dava risposte di tutti i tipi che spesso facevano sorridere il docente a crepa pelle e con lui lo stesso Giovanni che forse si rendeva conto dell’ambiguo significato delle sue risposte. Il pomeriggio andava a correre con il motorino sulla tangenziale ancora in costruzione e ovviamente ancora chiusa al traffico. Il docente gli diceva: “Giovanni dove sei stato ieri?” Giovanni: ”Professò so stato su a sopra levata”. Il papà di Giovanni purtroppo era un alcolista e dopo un anno che Giovanni era a scuola, morì di cirrosi epatica. Questo triste avvenimento gettò l’allievo in uno stato di profonda tristezza e forse anche a causa di ciò cominciò a fare uso personale di droga, l’eroina. I docenti se ne accorsero subito ed uno di questi un giorno lo accompagnò personalmente e a forza, caricandolo sulla propria macchina, alla comunità di recupero di Don Giussani. Il docente andava a trovarlo spesso tanto che i suoi amici di sventura lo ritenevano fortunato perché almeno aveva un padre che si prendeva cura di lui. Giovanni chiarì che quella persona non era suo padre ma bensì il docente di orologeria che si preoccupava di dargli un avvenire, trattandolo come fosse un figlio. Un giorno finalmente terminò la fase di recupero ma le tentazioni di ricaderci dentro erano sempre in agguato e i professori della scuola erano particolarmente attenti e guardinghi. Lo seguivano finanche fuori la porta del bagno perché non stesse troppo tempo da solo. Il pomeriggio la scuola lo aveva affidato ad un amico gioielliere che aveva il suo negozio vicino piazza di Spagna, per fare pratica. Per fortuna dopo poco tempo conobbe anche una brava ragazza che abitava proprio davanti l’ingresso della Scuola di Formazione Elis. Era una bravissima ragazza che poi da grande sposò e dalla quale ebbe due bambini. Quella gioielleria del centro di Roma, lo assunse come apprendista ma Giovanni era molto ambizioso e in poco tempo divenne anche bravissimo da un punto di vista tecnico. Attualmente lavora nella sede più importante della Rolex di Roma e sta decidendo di trasferirsi in Cina dove la sua azienda sta per aprire un importante laboratorio. Se si ha l’occasione di telefonargli anziché sentire quei mugugni delle prime ore e quell’accento romanaccio che abitualmente ancora si può ascoltare nelle vie del suo quartiere, sentirà per incanto una voce educata che in perfetto italiano vi dirà: “Pronto Rolex, posso fare qualcosa per lei?”.

9. Gira l’Italia portando in scena spettacoli di cabaret. Che tipo di esperienza è e quale è il messaggio che vuole trasmettere a suon di risate?

Mia moglie un giorno mi disse se ero interessato a sapere piu’ cose di lei. Le risposi che mi bastava quello che gia’ sapevo e che lo ritenevo sufficiente. Lei insistette e mi regalò una copia del libro sui 5 linguaggi dell’amore di Gary Chapman chiedendomi di leggerla. Decisi di farlo al bagno dove ho una libreria personale e dove riesco a stare finalmente solo. Il libro mi incuriosì moltissimo e decisi allora di sceneggiarlo e di farne uno spettacolo di cabaret, non il solito spettacolo parolacciaro romano, ma una lezione spettacolo, con un cabaret a 5 stelle, con alcune spalle multimediali, degli spazi dove si balla, delle musiche appropriate per ogni linguaggio e da lì lo testai in un teatro romano. Quando Dio vuole una cosa, questa si realizza sempre. Mi hanno cominciato a chiamare da tutte le parti d’ Italia. Finora ho fatto 131 repliche da Bolzano a Ragusa, lunedì prossimo vado a Palermo al teatro Verdi. Due ore sul palco da solo per uscire tra gli applausi almeno tre volte sulle quinte. Poi la fila al camerino e da ogni occasione nascono gruppi di preghiera e momenti di approfondimento sul sogno di un amore per sempre. Dovreste vederlo, le parole servono a poco. La comunicazione può essere baronale, tradizionale, con il bicchiere di acqua sul tavolo presidenziale ma può anche passare attraverso una canzone, il teatro, il ballo e il divertimento. L’importante è come dici quello che vorresti dire. L’innamoramento dura due anni, poi devi scegliere di Amare ma non con la tua lingua madre bensì con quella che parla chi ti sta vicino.

 

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