Carlo Fenu
Blog / Presentazioni dei libri | 18 Novembre 2012

Abelis – La relazione di Carlo Fenu alla Presentazione romana

Buonasera a tutti e grazie per essere intervenuti così numerosi.Ammetto subito di essere un po’ intimorito nel presentare Abelis. Per la bellezza e la profondità del libro, e perché di mestiere non sono critico letterario. Sono però amico di don Mauro Leonardi, e ho accolto quindi con grandissimo piacere il suo invito.

Cosa dire di Abelis? Innanzitutto che è un libro solo apparentemente semplice e immediato: in realtà è lettura impegnativa, complessa, che disvela molteplici significati via via che la si medita. È un corposo vino rosso da far decantare, per scoprirne profumi e sapori. È un’affascinante e profonda allegoria del nostro tempo e della società contemporanea. Lo hanno definito un fantasy metafisico, ma accostare il termine fantasy alla metafisica credo sia improprio. Abelis è, piuttosto, una meravigliosa “fiaba sapienziale” che ricorda le antiche favole rabbiniche alimentate dalla suggestiva tradizione del midrash.

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Non si può parlare di Abelis senza parlare del suo linguaggio e del suo stile di scrittura, a loro volta strumenti di una fantasia prorompente, di una fine ironia e di un ricco simbolismo; arriverei a dire degni del miglior Buzzati. C’è chi ha definito la scrittura dell’autore “visionaria quanto basta”. A me non sembra che questo aggettivo renda giustizia ad un linguaggio invece molto concreto, quasi plastico, a tratti addirittura musicale. Un linguaggio che nella sua essenzialità e con la sua sintassi parca di aggettivi e scevra di avverbi inutili, ricorda il linguaggio poetico.

La scelta delle parole è raffinata, la ricerca delle espressioni meticolosa, l’accostamento dei termini perfetto, come nella buona poesia. La musicalità della scrittura, la ripetizione studiata e cadenzata di parole ed espressioni – che udiremo tra breve dalla voce di Debora Caprioglio – trasmettono emozioni e stati d’animo in maniera più evocativa di quanto solitamente riesca a fare la prosa. Anche l’intenso utilizzo di figure retoriche – Abelis ne è un vero e proprio concentrato – ricorda il linguaggio poetico.

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I temi principali del libro – la vita e la morte, il bene e il male, l’amore e l’amicizia, la bellezza e la malvagità – sono in fondo dei classici. Ma il modo in cui l’autore li accosta e li collega, impastandoli di magia e simbolismo, fanno emergere una trama di significati che conferiscono ad Abelis un vigore speculativo notevole.

In estrema sintesi, sono l’innocenza e il candore di un bambino, uniti alla saggezza, alla purezza e alla bellezza di una madre, a scardinare il sistema ingannevole costruito in maniera sistematica da Ciambellano; quella che potrebbe definirsi una “grande simulazione”.

Non dimentichiamo la bellezza di Lutet, elemento importante del libro, che attribuisce al tema della bellezza in generale un valore specifico: si potrebbe dire che Abelis è intessuto di bellezza e di armonia. “Con quel sorriso che era davvero un sorriso”, dice l’autore di Lutet. “La più bella di tutte, che aveva sempre detto di no a Ciambellano. Per questo Ciambellano aveva ordinato che i suoi ritratti fossero orribili”.

Scrive Nietzsche che “un individuo isolato sbaglia sempre, però con due incomincia la verità”. È il caso di Abelis e Lutet: separati, non avrebbero chance di successo, neppure con l’aiuto decisivo di Messer Ferriere; ma uniti vincono, e affermano la verità. A smascherare gli inganni più profondi, fino a sovvertire l’ordine costituito, sono quindi la semplicità, la logica che guarda ai fatti, che va all’essenza della realtà e rifiuta l’eccesso di parole. “La natura delle cose, la natura delle cose”, rimugina infatti Messere mentre si pone l’interrogativo cruciale: schierarsi a favore o contro Ciambellano. “Ecco perché non parla – dice ancora Messere pensando ai silenzi di Abelis –, non perché le parole siano poche, ma perché sono troppe. Sono troppe e tutte assieme”.

È la semplicità disarmante (ma non disarmata) di Lutet, affilata come lama di rasoio, che la porta a dire alle “cortigiane che ammiccano”, e che vorrebbero darla in pasto a Ciambellano: “Se volete, fate pure catene con i vostri impasti di menzogne: io ho congiurato con l’amore”. Splendido ossimoro – “congiurare con l’amore” – che si ricollega ad un’altra bellissima espressione – “Innamorarsi è decidere di esistere” – che nel libro figura due volte, rappresentandone una sorta di fil rouge. Congiurare con l’amore, significa anche congiurare per esistere. È l’amore che sprona Lutet e Abelis a ribellarsi a Ciambellano, per far tornare Arileva a vita nuova. Dall’amore tra il Re e Lutet nasce Abelis. Non a caso Ciambellano malignamente osserva: “L’errore peggiore del Re però non fu sposarsi, ma innamorarsi di Lutet”.

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E Messer Ferriere? Che figura è? Parrebbe a prima vista un debole o un pavido, che si sottomette a Ciambellano pur conoscendo la verità, collaborando quindi consapevolmente ad un disegno malvagio. Va osservato che Ciambellano non possiede né i poteri magici (quelli li ha solo il Re) né la tecnica per utilizzarli (appannaggio di Messere): è solo uno spregiudicato manipolatore di qualità altrui.

Messere agisce, in realtà, nella logica del male minore: concetto metafisicamente stridente, così tipico delle simulazioni del mondo contemporaneo. Cerca di convincersi, Messere, di operare per il bene, ma vi riesce solo in parte.

Messere, però, è anche la persona che protegge Lutet e Abelis, facendoli fuggire e vegliando da lontano su di essi; “trema di emozione”, Messere, quando si trova dinanzi ad Abelis, e va a cercare Lutet per riportarla ad Arileva, dando così inizio alla fine della grande simulazione. Messere vorrebbe liberarsi dal giogo di Ciambellano, ma accetta di tentare la rischiosa trasformazione di Abelis in cavaliere pensando che il bambino morirebbe, se al suo posto agissero i suoi assistenti. Anche in questo caso, la logica è quella del male minore.

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Accanto al lato “interiore” della grande simulazione, che pervade gli animi e occlude le coscienze, vi è un lato “esteriore” di essa, edificato con scientifica spregiudicatezza da Ciambellano, che consiste nel “dominio sugli altri regni con la scusa della pace”: creare mostri che tali non sono e nemici artificiali per mantenere in vita un sistema di potere e un ordine sociale iniquo. Spingersi fino al punto di “esorcizzare definitivamente il dolore”, dice Ciambellano che vuole così farsi Dio, tentazione demoniaca. “Possibile che non riesca a rendersi conto di che cosa sarebbe la vita senza la malattia e la morte?”, chiede Ciambellano a Messere per cercare di persuaderlo: “Lei e io saremmo come i padri di una nuova umanità”.

Al linguaggio ingannevole e menzognero di Ciambellano si contrappone, tuttavia, il linguaggio franco di Abelis. È il parlare chiaro ed esplicito del bambino – i greci direbbero la sua parresia – a frantumare la crosta di menzogne che asfissia la vita del castello: la parresia come “etica della verità”, osserverebbe Michel Foucault.

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Veniamo, da ultimo, a Ciambellano, detentore del potere attraverso la magia, che a sua volta è metafora della moderna “tecnica” disgiunta dalla “sapienza”. Ciambellano esercita un dominio sia tecnico sia morale su Arileva. I cavalieri sono sottoposti, infatti, non solo ad una coartazione fisica (l’armatura), ma anche ad una sofferenza morale, perché iniziano a dubitare della malvagità dei draghi: che è il motivo – ai loro occhi autentico e nobile – ad averli spinti a diventare cavalieri, trasformandoli così “in un’altra specie e in un’altra genìa”. L’alienazione arriva fino a questo punto: “Per i cavalieri il mondo è unicamente un confine con cui urtare e combattere, una frontiera. Il prossimo o è un nemico o è un padrone”. Heidegger e Sartre non avrebbero saputo dir meglio.

Cruciale, in proposito, è il tema del dominio della tecnica sul mondo contemporaneo, associato a quello del nichilismo che trova compimento nell’organizzazione tecnico-scientifica del mondo. Heidegger – il più raffinato interprete di questa problematica – ritiene che per vincere la tecnica non si possa affrontarla con armi diverse dalle sue, assumendo atteggiamenti estrinseci ad essa, ma si debbano sviluppare fino in fondo tutte le possibilità della tecnica stessa. Non meraviglia quindi che Lutet – donna filosoficamente preparata, come del resto l’autore del libro – utilizzi a proprio vantaggio le stesse armi della magia, sfruttandone tutte le potenzialità, anche le più pericolose per la propria vita, e accetti così il rischio di morire mescolando le scaglie di drago con il liquido della vasca, immergendosi in essa.

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Mi avvio a concludere, sottolineando ancora due aspetti del racconto che mi hanno colpito. Il primo è che Ciambellano viene sconfitto proprio dalla persona – Abelis – che egli stesso ha chiamato ad Arileva per perpetuare il suo disegno di menzogna. I due dialoghi tra Messere e Ciambellano, fondamentali nell’economia del libro, in proposito sono emblematici. Messere dice infatti a Ciambellano, parlando di Abelis: “Sono loro, i bambini, che dicono quello che pensano senza rendersi conto delle conseguenze. Che fanno sembrare contraddizioni i nostri equilibri faticosamente raggiunti”.

Il secondo aspetto è che Ciambellano viene sconfitto proprio con l’arma – l’amicizia tra Abelis e Blennenort – che Messere gli aveva suggerito di usare per trasformare Abelis in cavaliere, operazione necessaria per non far crollare il regime iniquo di Arileva. Come non ricordare, in proposito, gli struggenti dialoghi notturni tra Abelis e Blennenort sulle torri più alte del castello? Anche tali dialoghi, nella loro solo apparente infantilità, contribuiscono a sgretolare l’inganno di Ciambellano, parlando delle commoventi carezze di una madre e ridestando la coscienza di Blennenort al ricordo di cose dimenticate, del suo amore per Lutet, del suo essere stato uomo. Sono dialoghi che ottengono, appunto, l’effetto opposto a quello voluto da Ciambellano, predisponendone così la rovina.

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Un’ultima parola sul finale del libro. Così sorprendente, quasi brusco, stridente con il resto del racconto. Pare quasi infrangere, con un repentino cambio lessicale – compaiono le parole goretex, trekking e nomi finlandesi di difficile pronuncia – il clima di magia che permea l’intera fiaba. Ma in realtà non è così. È infatti questo finale, così inatteso e contemporaneo, ad interpellare ciascuno di noi e a dare un significato ulteriore alla lettura di Abelis. Quale esso sia, sta a noi trovarlo.

Grazie.

 

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