Ami come l'avaro ama il suo oro? No? allora non ami
Blog / Riflessioni | 18 Agosto 2012

Mauro Leonardi – Spread, povertà e Gesù Cristo (3/3)

Quale radicalità per il cristiano che vive nel mondo? Il profit delle virtù 

Dopo il peccato originale non è possibile pensare che il mondo si possa reggere sulla sola gratuità. Per questo si impone la domanda: come si può vivere la gratuità da laici nel mondo? Per parlare di gratuità nel retto modo dobbiamo innanzitutto sgombrare la testa dall’idea di confinare la gratuità a quei gesti che sono fatti di un dare senza nulla ricevere in contraccambio. Se penso alla gratuità non penso al no profit, cioè a quelle aziende che nascono per essere progettualmente in pareggio (sto andando per le spicce: so bene che questo è solo uno dei tanti modi per definire il no profit). Proprio l’altro giorno mi hanno raccontato di una signora con grossi problemi economici che è andata a vendere il suo oro dall’orefice. Oltre alle collane e agli orecchini aveva dato anche la fede nuziale. L’orefice ha preso tutto, ha pesato tutto, ha dato il corrispettivo in denaro come se avesse trattenuto tutto ma ha restituito la fede. Ecco, un gesto come questo – bellissimo – è estraneo al discorso sulla gratuità che sto facendo perché l’orefice non potrà comportarsi sempre così. La gratuità cui sto pensando si deve esprimere in un altro modo.

Come vive la povertà, la gratuità, chi chiede il compenso per il proprio lavoro, chi vive nel profit? Bisogna in primo luogo affermare che comportarsi così, chiedere il giusto prezzo, è giusto. Chi lavora ha diritto al suo nutrimento (Mt 10,10). Queste le parole di Gesù rivolte ai dodici, dopo che li ha chiamati a sé per inviarli a predicare il Vangelo. Sono parole che – pur se in un altro contesto – hanno a che fare con la vita di ogni uomo su questa terra. Chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Sicuramente anche Gesù – figlio del carpentiere e carpentiere lui stesso – riceveva il compenso per il suo lavoro durante gli anni di Nazareth.

L’appropriarsi dei beni – come ci ricorda il Catechismo – è onesto, nella misura in cui consente una naturale solidarietà tra gli uomini (CCC 2402). Qui torna quel concetto che abbiamo visto nell’altra lezione. La sofferenza – e la povertà nei casi più radicali è senza dubbio una forma di sofferenza – fa sì che le persone si incontrino, cioè appunto che divengano solidali. È nella sofferenza che si riconosce il cuore dell’altro; nella povertà l’altra persona diventa importante mentre quando “manca” la povertà – cioè si è ricchi – si tende a pensare a sé stessi. Io credo che la grande crisi economica che stiamo attraversando ci stia soprattutto portando questo bene: di aiutarci e quindi di ritrovarci come persone. Nell’occidente opulento è molto facile essere egoisti. Se in una famiglia composta da cinque persone ci sono cinque auto è nella logica delle cose che ciascuno pensi per sé stesso. Invece se di auto ce ne fosse una sola bisognerebbe accordarsi, cioè aprirsi alla necessità dell’altro. Grazie alla povertà – alla sofferenza – le persone si ritrovano in quanto persone. La naturale solidarietà non è qualcosa come il dare l’elemosina o il fare la carità a qualche povero. Essere solidale con i propri fratelli, come ci ricorda il termine, è essere legati a ciascuno di essi con un obbligo (solidus, solido, deriva dal linguaggio giuridico per cui il creditore può esigere dal debitore il dovuto). A me tutto questo fa venire in mente la domanda retorica di Caino a Dio: sono forse io il custode di mio fratello? (Gn 4,9). La risposta è sì: noi siamo i custodi dei nostri fratelli. Sì, noi siamo solidali con loro, attenti a loro. “Siate persuasi che non potrete mai risolvere i grandi problemi dell’umanità unicamente con la giustizia. Quando si fa giustizia e basta, non c’è da meravigliarsi che la gente si senta ferita: la dignità dell’uomo, che è figlio di Dio, chiede molto di più. La carità deve accompagnare e penetrare tutto, perché addolcisce, deifica: “Dio è amore” (1 Gv 4,16). Dobbiamo essere sempre mossi dall’Amore di Dio che rende più facile voler bene al prossimo, e purifica e innalza gli amori terreni” (Josemaría Escrivá, Amici di Dio n. 172).

“Riconoscere la semantica della laicità, significa sapere che l’amore è il valore fondante della vita umana perché è l’unico valore che individua la sacralità dell’uomo, ma significa anche sapere che l’amore non è l’unico valore perché esiste anche il valore dello scambio.  Vivere nella dimensione laicale ci consente di stare in un paradosso: da una parte il dono è pura gratuità, dall’altra dà origine a un’operazione di scambio. (…) È il dono che fonda lo scambio e non viceversa perché quasi ogni dono (tranne il puro dono) dà origine a uno scambio (…). Lo scambio non è un dono, ma è vero che la catena degli scambi ha all’origine un dono non fosse altro che per il primo dono, quello della vita.” (Cfr Come Gesù, p. 150).

Queste possono sembrare solo belle parole, eppure non sono nulla di astratto se si pensa che google, facebook, twitter e così via sono tutti strumenti gratuiti eppure chi li ha inventati è diventato di gran lunga tra le persone più ricche al mondo. È così proprio per il misterioso legame che esiste nella realtà tra ciò che è gratuito e ciò che è utile.

“Il puro dono è al confine fra il sociale e il religioso, là dove il sociale si fa radicalmente umano e con ciò mostra che l’umano è specificamente tale quando trascende sé stesso nel divino (cfr P. P. Donati,  Il dono in famiglia, p. 67). In questo senso si potrebbe dire che il religioso (cioè il frate, il monaco) e il chierico hanno con la gratuità, un rapporto diverso rispetto al laico. Se la gratuità è elemento essenzialmente escatologico, il religioso dovrebbe vivere di essa; e il chierico dovrebbe con essa avere quel particolare rapporto che deriva dal sacramento dell’ordine (è interessante riflettere a questo proposito su quale significato abbia per le nostre riflessioni la simonia, cioè il commercio riferito a realtà o beni sacri e spirituali). Il laico invece deve entrare in dialogo con la gratuità mantenendola aperta alla relazione con le realtà di scambio, di mercato, della politica, dell’utile, categorie che hanno tutte in sé stesse un’anima di gratuità, e se non fosse per questo sarebbero chiuse alla trascendenza, ma che non sono solo gratuità. Solo donando gratuitamente si dà inizio e si conserva la vita, ma la vita non è solo gratuità. Se delle monache di clausura ospitano per qualche giorno dei pellegrini nella loro foresteria, è bene che alla domanda su quanto devono pagare esse rispondano che possono lasciare liberamente un’offerta; ma non è bene che un laico dia la stessa risposta a dei clienti che ha ospitato nella sua struttura alberghiera. Egli deve chiedere il giusto prezzo. E, se si vuole santificare con il suo lavoro, sarà necessario che introduca qualche elemento di gratuità (non necessariamente materiale) che dica a chi riceve il servizio di essere stato, in qualche modo, al centro di un atto di amore. La missione del laico è evitare che si oscilli tra l’utopia di una società fatta solo di «puro dono», una società in cui il dono sarebbe l’unico e universale operatore, e una società solo dell’utile. Il laico pensa a un mondo che dà al dono gratuito il posto che gli spetta, quale motore delle relazioni e di tutti gli altri comportamenti nella misura in cui essi vogliono qualificarsi come umani (cfr Il dono in famiglia, p. 78)” (Come Gesù, pp. 152-3).

Nella precedente lezione ho parlato di san Francesco e adesso mi vengono in mente delle parole di santa Chiara. Ella dice a santa Agnese di Praga, una delle sue prime figlie spirituali: ciò che fai, fallo bene (FF 2875). Il testo latino originale dice quod facis facias, nec dimittes. La traduzione potrebbe essere “ciò che fai, fallo, non lasciarlo”. Mi sembra una bella intuizione: fare ciò che si sta facendo. Implica avere la consapevolezza profonda di quanto si fa: la responsabilità e la libertà di farlo. Non è semplicemente farlo bene, che già ha una connotazione morale. È qualcosa di più: farlo fino in fondo, farlo con tutto di sé. La sfumatura ancora più interessante è in quel nec dimittes, che è – secondo tutti gli studiosi –  una citazione diretta del Cantico dei Cantici 3,4 : lo strinsi forte e non lo lascerò. Il fare non è mai fine a sé stesso ma, oltre ad implicare l’intero sé stessi, coinvolge anche il volto della persona che si ama, della persona che attraverso il nostro lavoro, ci viene affidata. Conosco una signora che fa l’estetista e che, per un certo lavoro, può chiedere fino a 1300 euro. Lei mi spiegava che il suo impegno è nel far sì che il suo lavoro meriti 1300 euro. Per lei quel compenso è in relazione al corpo della persona che ha davanti: un corpo unico, con la sua dignità e che merita tutta la sua attenzione per stare bene, e che va al di là del fatto fisico. Non so se quella cifra sia esagerata, ma capisco che la gratuità di cui sto parlando va in quella direzione, perché il proprium della gratuità non sta tanto nelle prestazione che si dà ma nel volto che si ama.

Credo che la gratuità si esprima proprio in questo: facciamo il nostro lavoro con il compenso dovuto, senza mai dimenticarci che quel dovuto è in relazione al volto della persona che abbiamo davanti.

Questa lezione fa parte della raccolta di lezioni su Spread, povertà e Gesù Cristo:

Mauro Leonardi – Spread, povertà e Gesù Cristo (1/3)
Mauro Leonardi – Spread, povertà e Gesù Cristo (2/3)
Mauro Leonardi – Spread, povertà e Gesù Cristo (3/3)