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Blog / Riflessioni | 31 Luglio 2012

Mauro Leonardi – Spread, povertà e Gesù Cristo (1/3)

Cosa c’entra la povertà col cristianesimo?

La domanda con cui ho deciso di intitolare questa lezione può meravigliare perché povertà e Gesù Cristo sono sempre andate d’accordo. Forse però non ci è altrettanto noto che nella storia della civiltà la povertà è andata d’accordo con molte religioni e con molte filosofie, non solo con il cristianesimo. La meraviglia nasce dal giudizio che diamo nell’attuale occidente sulla povertà. Se cerchiamo “povertà” su wikipedia troviamo che “la povertà è la condizione di singole persone o collettività umane nel loro complesso, che si trovano ad avere, per ragioni di ordine economico, un limitato (o del tutto mancante nel caso della condizione di miseria) accesso a beni essenziali e primari, ovvero a beni e servizi sociali d’importanza vitale. La povertà diventa pauperismo quando riguarda masse che non riescono più ad assicurarsi i minimi mezzi di sussistenza: è questo un fenomeno collegato a una particolare congiuntura economica che porta al di sotto del minimo di sussistenza una gran parte della popolazione ecc. ecc.”. Alcuni amici coltivano una sorta di disprezzo per wikipedia, ma a me sembra uno strumento molto utile per cogliere la sensibilità della nostra epoca. In questo caso per esempio si desume chiaramente che la povertà, intesa come assenza di beni materiali, in occidente è percepita come un male: ma questo è il modo di vedere la povertà che ha l’occidente: anzi “un certo tipo” di occidente. In verità, ripeto, ogni volta che l’uomo ha cercato una strada per avvicinarsi a Dio con le sole forze umane – cioè non attraverso il cristianesimo che è religione “nuova” perché rivelata – ha sempre fatto i conti con la povertà: i digiuni, i silenzi, l’ascetica, non sono altro che forme di povertà. Quando pensiamo alla povertà non solo come all’assenza di beni esterni, di cose, di proprietà, ma la pensiamo anche in senso più ampio, con riferimento al cibo, all’astinenza sessuale, al silenzio, alla solitudine – che sono semplicemente altre forme di povertà – ci accorgiamo che misteriosamente l’uomo sa che il vuoto, la fame, la solitudine, il silenzio, regalano l’autocontrollo, il nirvana: conducono ad entrare dentro di sé, introducono cioè in qualche modo al mistero. Sto dicendo che il monachesimo non è nato con il cristianesimo. C’era già tra gli ebrei come è implicito in alcune espressioni del vangelo: “Quando digiunate non diventate malinconici come gli ipocriti” (Mt 6.16) oppure: “perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?” (Mc 2,18);  c’era in mille altre religioni e c’era anche al di fuori della religione, come per esempio nello stoicismo.

 

Che la povertà sia un bene per il cristianesimo lo dice il vangelo. Per esempio quando alcuni discepoli di Giovanni interrogarono Gesù su chi Lui fosse veramente, la risposta che ricevettero era che la Sua presenza guariva da molti mali (ciechi che vedevano, zoppi che camminavano, lebbrosi mondati, morti risorti, sordi di nuovo udenti) ma che dal male della povertà non si “doveva guarire”. In qualche modo la povertà era un bene: ai poveri è annunciato il vangelo (Mt 11,5). Gesù cioè non dice “e i poveri diventano ricchi”: questa sarebbe un’affermazione semplicemente simmetrica rispetto alle altre. Ma dice che per ricevere Lui bisogna essere poveri. D’altra parte nelle beatitudini c’era stata un’affermazione ancora più esplicita in tal senso “beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Potremmo citare tanti altri punti del vangelo. Per esempio l’elogio che Gesù fa della donna povera che getta tutto quello che ha nel tesoro del tempio (cfr Mc 12,42.43) o le espressioni in cui Gesù afferma tassativamente che il suo annuncio è per i poveri (per es. Lc 4,18).

Ma resta, appunto, da capire “come” la povertà c’entri con il cristianesimo. Questa è una domanda che si presenta ogni qual volta si parla di virtù cristiane – e la povertà può essere vista così. Quando si parla di “virtù cristiana” è necessario riflettere su quale sia il cuore del cristianesimo, per non rischiare di rimanere legati a un modo di pensare le virtù alieno a quello del Verbo Incarnato.

Ci sono delle parole di Gesù che indicano chiaramente cosa sia questo cuore. Le troviamo nel cosiddetto discorso di addio del vangelo di Giovanni, laddove Gesù consegna ai suoi il comandamento nuovo, quello che noi definiamo il comandamento dell’amore: Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri. (Gv 13,34-35; cfr Gv 15,12). Che la carità, cioè l’amore sia, l’anima del cristianesimo è risaputo. C’è un modo per dirlo semplice ed efficace che forse non è molto conosciuto. Cerco di illustrarlo di seguito. Come forse abbiamo notato qualche volta leggendo il vangelo di Giovanni: a distanza di pochi versetti il discepolo che nelle sue lettere non fa altro che parlare dell’amore, ripete due volte le stesse parole. Gli esegeti danno di ciò una spiegazione che può essere accettata o meno, ma che a me sembra molto convincente. Essi spiegano che il vasto insieme letterario costituito dai capitoli 13 – 17 del suo vangelo ha avuto due stesure. Una prima stesura costituita dai capitoli 13 e 14, e una seconda stesura nella quale Giovanni (o chi per lui) per sviluppare il primo discorso di addio, aggiunse quelli che noi adesso chiamiamo i capitoli 15, 16 e 17. È facile lasciarsi convincere da questa spiegazione se ci si accorge che le ultime parole del capitolo 14 (“Alzatevi, andiamo via di qui” – 14,31) si collegano direttamente al capitolo 18 (“Dopo aver detto queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli” – 18,1). La cosa sorprendente – quella che interessa al nostro caso – è che il comandamento dell’amore si trova al centro di entrambe le stesure. Nella prima, la simmetria è ottenuta ponendo il mandatum novum al centro matematico delle parole che compongono i capitoli 13 e 14; nella seconda, allorché Giovanni aggiunse l’ampliamento costituito dai capitoli 15, 16 e 17, la simmetria è mantenuta ripetendo il mandatum novum a metà del capitolo 15. E così anche nel secondo enunciato, quello esteso ai capitoli 13 – 17, il comandamento nuovo è al centro. Una volta è un caso, due volte comincia a essere una regola.

Il comandamento dell’amore è nuovo perché è definito da un come, quello di Gesù che dà la vita per i propri amici. L’amore è dare la vita. Questa logica che nel seno della Trinità è perfetta, cioè il Padre è tutto donato al Figlio e viceversa, ed entrambi si donano allo Spirito Santo che fa lo stesso con le prime Due Persone, a partire dal mistero dell’incarnazione e della redenzione deve trovare casa nella vita di ogni discepolo. Il cristiano è uno che dà la vita e sta nel mondo con l’unico criterio dell’amore che è dono di sé. È alla luce di queste verità che dobbiamo leggere quanto si riferisce alla povertà, altrimenti rischiamo di fare del cristianesimo il sinonimo di una nuova forma ascetica, una delle tante con cui l’uomo ha costruito la sua storia. Il cristiano non è uno che digiuna e che vive la povertà come il pagano, ma è uno che poiché vuole vivere d’amore – e questo significa dare la vita e quindi a maggior ragione, se necessario, dare le proprie cose – è capace di essere povero. La differenza con il pagano non può essere maggiore poiché lo stoico, per esempio, è temperante nell’uso dei beni ma lo è perché ha l’obiettivo di raggiungere la propria perfezione, perché vuole ottenere l’armonia con sé stesso, perché non vuole essere dominato dalle cose. Lo stoico pensa a sé, non agli altri. Nulla di più diverso da Cristo che da ricco che era, si fece povero per voi, perché voi diventaste ricchi della sua povertà (2 Cor 8,9).

Ecco dunque. La povertà è cristiana se è nuova, cioè se è informata da qualcosa di “nuovo”, cioè dal mandatum novum. È cristiana se è causata dall’amore, se nasce dall’amore. Proprio nel senso che io rinuncio a delle mie cose – cioè mi impoverisco – per darle a chi ne ha bisogno, al povero. E questa circolazione di beni, questa comunicazione, questo trasferimento di povertà e di ricchezza dagli uni agli altri, è costitutivo del cristiano perché radica in un elemento decisivo dell’essere umano. È il paradosso per cui a fronte della pari dignità di ogni persona umana c’è che nessun uomo possiede mai a sufficienza tutto quello che gli serve. Proprio questa idea di disuguaglianza (contenuta nei punti 1934/1938 del Catechismo della Chiesa Cattolica) coniugata con il principio della destinazione universale dei beni che pone quello della proprietà privata in subordine (e questi principi sono contenuti nei punti 2402/2404 del CCC), permette di capire in che senso la povertà è essenziale al cristianesimo. Cioè in che senso un certo modo di intendere il rapporto con i beni (in primo luogo quelli materiali, ma non solo) è consustanziale al cristianesimo.  Di questo paradosso parleremo nelle prossime lezioni.

Questa lezione fa parte della raccolta di lezioni su Spread, povertà e Gesù Cristo:

Mauro Leonardi – Spread, povertà e Gesù Cristo (1/3)
Mauro Leonardi – Spread, povertà e Gesù Cristo (2/3)
Mauro Leonardi – Spread, povertà e Gesù Cristo (3/3)