AGI – Perché il Nobel per la pace alle donne afghane avrebbe un grande significato
Il Nobel per la Pace è un riconoscimento dalla straordinaria importanza politica. In alcuni casi è servito per disconoscere alcuni governi, come avvenne nei confronti della giunta birmana quando nel 1991 il Premio venne assegnato ad Aung San Suu Kyi.
Il giornalista Emilio Mola propone di dare quest’anno il Nobel alle donne afghane che da sole, a mani nude, munite unicamente di cartelli e cori, resistono contro i talebani armati di tutto punto. Sono d’accordo con lui. Mi sembra un’idea geniale. Lo dico in questi giorni quando veniamo a sapere come i Talebani allontanino le donne dai luoghi della cultura, del lavoro, della politica. In ultimo dallo sport perché in questo modo “espongono i loro corpi”.
Ed è l’ennesimo sopruso contro di loro. L’odio dei talebani contro le donne (e ci tengo a sottolineare che parlo di “talebani” e non di Islam) nasce forse dal fatto che la donna è in grado di costruire una coscienza personale e sociale silenziosa, duttile, ramificata, più forte di qualsiasi violenza. Quello cui mi sono appena riferito è un messaggio profondamente iscritto in quella Bibbia che dovrebbe essere alla base anche di chi, come i talebani, dice di essere musulmano.
Si trova agli inizi, nell’Esodo, quella parte della Bibbia che racconta la liberazione del Popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto. Gli egiziani avevano ordinato agli ebrei di uccidere tutti i figli maschi ma “La [madre di Mosé, ndr] concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Poi non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: “È un bambino degli Ebrei”.
La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: “Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?”. “Và”, le disse la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone le disse: “Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario”. La donna prese il bambino e lo allattò.” (Es 2, 2-9).
Anche chi non crede è in grado di commuoversi dinnanzi a questa cordata tutta feminile in cui il compito e la missione di proteggere e di farsi carico della vita umana viene passato di mano in mano secondo la logica umile e forte dell’amore.
Il Nobel per la pace alle donne afghane avrebbe il senso di dare voce e protezione a quelle donne che i talebani stanno cercando di imbavagliare fisicamente e psicologicamente. A dare speranza alle bambine. A far sì che le madri possano educate i figli, maschi e femmine, ad una cultura diversa. La pace è il miglior antidoto alla paura. È il dono che Gesù conferisce, appena risorto, ai suoi discepoli rinchiusi e spariti nel Cenacolo: “vi do la mia pace”, dice. Riconoscere il Nobel a queste donne significa incrinare il sistema di paura che le sta attanagliano e far sentire loro che il mondo c’è, che loro esistono. Al punto da meritare un premio internazionale da opporre a chi vorrebbe negare loro persino la dignità dello sguardo.