Le Lettere di Luciano Sesta – Una critica teologica al primato del celibato sul matrimonio
Sarah svegliati, è primavera. È passato il lungo inverno in cui occorreva disprezzare il matrimonio per essere graditi a Dio. Mi si perdoni la battuta. Non voglio essere irrispettoso. E so benissimo che, nel loro Dal profondo del nostro cuore, Cantagalli, Siena 2020, il papa emerito Benedetto XVI e il card. Robert Sarah esprimono una sincera convinzione, oltre che una posizione teologica seria e meditata. Ma anche fragile. E poiché io non ho nessuna particolare autorevolezza perché ci si fidi di me piuttosto che di loro, illustro a seguire il perché di questa fragilità. Anche in teologia, nella comune fede della Chiesa, chi argomenta una posizione, anziché limitarsi a enunciarla, si espone a delle repliche. Con tutti i miei limiti, propongo le mie, di repliche, anticipando alcune riflessioni contenute in un mio volumetto di imminente pubblicazione.
Nella tradizione cattolica celibato e verginità sono stati sempre considerati stati di vita oggettivamentesuperiori allo stato di vita matrimoniale. Nel magistero ecclesiastico più recente, soprattutto da Giovanni Paolo II in poi, questa superiorità è mitigata da affermazioni che insistono sul fatto che il matrimonio e la verginità sono due modi di esprimere l’unico mistero dell’amore di Dio. Si aggiunge, inoltre, che verginità e celibato non contraddicono la dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Questa affermazione potrebbe indurre a credere che celibato e matrimonio siano considerati stati di vita equivalenti, e che, rispetto all’amore, l’uno valga l’altro. Non è così. Al contrario. Se si dice che il celibato conferma il valore del matrimonio senza contraddirlo, infatti, è per ribadire la sua superiorità sul matrimonio. Se infatti il celibe rinunciasse a qualcosa di disprezzabile, non potrebbe offrire a Dio una rinuncia meritoria. Solo se il matrimonio ha un certo valore la decisione di rinunciarvi potrà averne di più. Ed ecco che l’apparente equivalenza di celibato e matrimonio, tipica della dottrina cattolica più recente, è in realtà una conferma della tradizionale superiorità del primo sul secondo.
Un recente e autorevole tentativo di ribadire la superiore importanza del celibato sul matrimonio è venuto dal papa emerito Benedetto XVI, il quale, insieme al card. Robert Sarah, ha pubblicato un volume sul celibato sacerdotale cercando di contrastare i movimenti che, all’interno della Chiesa cattolica, premono affinché il celibato non sia considerato necessario per l’esercizio del sacerdozio. Nel loro libro, Ratzinger e Sarah difendono la superiorità del celibato sul matrimonio, e, soprattutto, la necessità spirituale del celibato per i sacerdoti. Perché questa posizione non venga interpretata come una forma di disprezzo del matrimonio, i due autori, nei loro rispettivi contributi, precisano che l’impossibilità di sposarsi, per i preti, deriva dal fatto che tanto il sacerdozio quanto il matrimonio esigono una donazione totale, e proprio per questo si escludono a vicenda. Il celibato è un “cuore a cuore” con Dio, in cui nessuno può intromettersi. Ma se anche il matrimonio esige che gli sposi elevino il loro legame al di sopra di tutto il resto, ne consegue che concedere il matrimonio ai preti o ordinare preti uomini già sposati significherebbe annacquare entrambe le vocazioni, sminuendo la dignità del matrimonio, da un lato, e riducendo il sacerdozio a un mero servizio “professionale”, dall’altro lato.
L’argomentazione di Ratzinger e di Sarah, che può sembrare convincente, nasconde in realtà uno strano (e discutibile) presupposto teologico, e cioè che non sia possibile amare totalmente il prossimo togliendo qualcosa a Dio, o totalmente Dio togliendo qualcosa al prossimo. Come se l’amore coniugale fosse un amorealternativo a quello per Dio e non la forma che l’amore di Dio e per Dio assume nella vita degli sposi. Come se la Chiesa non avesse mai elevato l’amore umano a sacramento nel matrimonio, ma lo avesse lasciato nella sua condizione di carnalità ribelle al piano di Dio.
Si può osservare, inoltre, che l’affermazione secondo cui celibato e matrimonio si equivalgono perché sono entrambi vie di impegno esclusivo e totale, si contraddice una volta che si ricordi il primato tridentino del celibato sul matrimonio. Se infatti lo stato coniugale esige un impegno altrettanto totale di quello celibatario, allora il primato della condizione celibe su quella matrimoniale implica che l’impegno totale dello sposato sia parziale rispetto a quello celibatario. Essendo totalmente impegnato non con Dio, ma con la propriafamiglia, lo sposato non può esserlo anche con Dio. Ma se il matrimonio non implica un impegno altrettanto totale di quello profuso nel celibato, è compatibile con esso.
Insomma, delle due l’una: o si difende il sacerdozio dal rischio della “contaminazione” matrimoniale affermando che celibato e matrimonio sono due forme di impegno totale che si escludono a vicenda, ma allora si dovrà rinunciare al primato del celibato sul matrimonio affermando l’equivalenza oggettiva delle due vocazioni, oppure si ribadisce il primato del celibato, ma allora si dovrà ammettere che il matrimonio, non comportando un impegno totale come lo comporta il sacerdozio, è compatibile con il sacerdozio.
Non mi interessa dimostrare che è bene che i preti si sposino, né che le persone sposate possano utilmente essere ordinate sacerdoti. Anzi. Sono contrario tanto all’una quanto all’altra ipotesi, perché credo che il celibato e la verginità abbiano un valore insostituibile all’interno della Chiesa. Un valore che smette di essere tale, però, una volta che lo si faccia dipendere dall’esclusione di principio del matrimonio. Le controindicazioni teologiche degli argomenti usati da Ratzinger e da Sarah, a mio avviso, ne sono un’evidente prova.