Le Lettere di Maddalena – La superbia del dolore
Forse questa è la prima volta, dopo tanto tempo, che scrivo per me. Un amico caro mi dice sempre che scrive per sé, prima che per gli altri. Io non so, scrivo e basta. Stavolta è per me.
Sento tanto ragionare sulla vita e sulla morte, in questi giorni, sulla Croce e sul dolore. E’ chiaro che per mia esperienza personale nel corso della vita ci abbia ragionato parecchio.
Che non lo voglia nessuno, è intrinseco alla nostra natura. Chi lo vuole? Se ne ha paura, una paura folle. E quando arriva, non chiede il permesso. Non bussa alla tua porta: la spalanca. Sull’uscio ci sei tu: il più delle volte incapace e attonito, con il desiderio di fuggire. Questo dolore può essere fisico, ma non solo. Spesso si accompagna con quello interiore. Fa male anche quello.
La mia conversione, risalente a non molti anni fa, effettivamente, ha impedito che nella vita potesse comparire la disperazione. Perché quando il dolore è forte e non te lo spieghi, il rischio di disperarsi è molto alto. Non subito, magari: si tende a rimandare la faccenda, a data da destinarsi. Ma il tarlo rimane, eccome. Lo anestetizzi come puoi, cercando di vivere una vita normale, ed ecco che poi salta fuori: è lì che ti guarda.
Un anno fa moriva una mia cara amica di cancro. Lasciava un bimbo di sei anni da solo, perché il padre era morto un mese prima.
Ciao, Elena, tesoro mio.
Ero venuta a trovarti qualche giorno prima che tu morissi, con una rosa bianca. Mi avevi sorriso, e mi avevi detto che sentivi tanto amore intorno a te. Ho sempre pensato che quell’amore che sentivi non fosse altro che il manto della Madonna, che da giorni occupava la tua stanza.
Il dolore di Elena era tangibile, sia fisico che interiore. Potevi afferrarlo con le mani.
Ma c’è un altro dolore, che tocca tutti, più o meno.
Per alcuni è molto forte, e ciò dipende effettivamente dalla vita di ciascuno, e soprattutto dalle scelte che accompagnano la vita stessa.
È quello che gli altri non capiscono.
Quello nascosto, che conosci solo tu. Si acuisce e ti si conficca nella carne come una spina lunga una spanna, proprio perché impastato dell’incomprensione degli altri, nei confronti dei quali nutri spesso, molto umanamente, un’aspettativa.
È un tipo di Croce provata da Gesù stesso, e… da Maria. Da Lei, che conosceva quale sarebbe stato il destino di Suo figlio, ed è vissuta nel silenzio di questo dolore per trentatré anni. Dolore condiviso con il Figlio, ovviamente. Ma a volte mi viene da pensare che se lo tenesse solo per sé, nelle notti in cui accarezzava il suo bambino che dormiva spensierato nel suo lettino, con un ditino in bocca. Quei momenti che le mamme conoscono, di coccole silenziose, in cui il piccolo non si accorge di nulla, c’è silenzio in casa, e magari qualche lacrima può scendere liberamente.
Il dolore non capito. Che non puoi condividere. O che vorresti condividere, se ci fosse qualcuno che mostrasse di volerlo comprendere. Ma spesso gli altri…fanno finta di niente. Perché parlarne? Perché chiedere, che poi si corre il rischio di ferire? Meglio… “distrarre”, si dice oggi.
Penso a Gesù nel Getsemani. Credo che sia uno dei momenti della Sua passione che più mi fanno soffrire. Perché quello che lo faceva sudare sangue non era solo il peso dei peccati di tutti, ma la solitudine. Quella solitudine in cui facilmente si insinua il Verme che ti tira per un braccio e ti fa apparire ragionevole la disperazione.
Nel dolore dell’uomo, in questo dolore non capito, il Berlicche ti mette di fronte ad una tentazione altrettanto pesante, veramente difficile da gestire, da allontanare, che proprio con la solitudine va a braccetto.
Quella della superbia del dolore.
La chiamo spesso così, perché la conosco bene. È quella che ti dice che gli altri non capiranno mai. È quella che spesso si confonde con il pudore e la dignità. Che sono sacre, invece. Perché certo il dolore non è che lo si possa “spiattellare” o raccontare a chiunque, senza un minimo di confidenza.
Ma la superbia ti dice: gli altri non potranno mai capire, mai. Certe cose bisogna provarle, per capirle veramente. Ed in effetti, una parte di verità c’è. Eccome se c’è.
Ma non è questo il punto. Questo non aiuta a vivere la sofferenza. Dico a viverla, non a superarla. Perché non lo sai quanto dura, e se ci sarà domani.
Il dolore non capito fa male perché si nutre, come prima scrivevo, spesso di un’aspettativa nei confronti delle persone che ti sono vicine. E a volte basterebbe una carezza. Un “sono qui”. E’ sempre stata la frase che ho pensato dicesse Maria sotto la Croce di Gesù. Anche dopo la deposizione. Penso alla Pietà Rondanini, in cui Maria sostiene il Corpo del Figlio che scivola in verticale. “Sono qui”, sembra dire al Figlio. Non so, per me glielo ha detto veramente.
Mi sono interrogata, da cristiana. Quante volte ho detto “sono qui” a chi sembrava stesse vivendo la solitudine del dolore?
E allora forse, proprio quelli che soffrono o che hanno sofferto, possono capire cosa significhi non abbandonare le persone sofferenti, che pensano che nessuno le possa capire (e intendiamoci: forse non verranno mai capite davvero, ma questa Croce se la porteranno per il resto della vita, e poi alla fine l’abbraccio di Cristo sarà talmente grande da lasciare stupito il Cielo intero) . Che a volte non serve un sermone o il predicozzo. Anzi, quando stai soffrendo, il sermone dà fastidio. Il manuale di consigli pratici, come se ci fosse una tecnica, se vogliamo anche spirituale, per lenire la faccenda. La Tachipirina del dolore. Balle. Quello che serve è un abbraccio. Una carezza. Che non si può imporre, mai: meglio se quasi impercettibile, seppure presente. Perché il dolore ha una dignità che va rispettata, sempre.
Piangere insieme.
Ecco.
Qualche lacrima.
Ieri leggevo di Gesù che piange per Lazzaro. Gesù piange per Lazzaro, ma per me anche per Marta e Maria, che si sentono non capite da Gesù, che non è arrivato in tempo. Che se fosse arrivato prima, Lazzaro non sarebbe morto. Gesù si commuove nel vedere le lacrime di Maria che si è sentita… abbandonata. Sola. Non capita. Perché Gesù era stato lontano. Gesù piange anche per questo.
Penso che forse… potremmo cominciare a farlo anche noi.
Maddalena Fabbri è nata a Milano, il 5 settembre 1971. È sposata e ha tre figli. Laureata in giurisprudenza, ha svolto la pratica professionale per poco tempo. Ha preferito iscriversi all’albo delle “mamme”. Vive a Milano.