Ringrazio don Mauro della cortese risposta. Sottoscrivo le sue preoccupazioni e condivido appieno l’idea che la verità debba per così dire “incarnarsi” attraverso la relazione sull’esempio del Verbo divino. Per questo cercherò di specificare meglio il mio pensiero.
Comincio allora dalla sua domanda. Lei chiede: «dopo la Piazza, quelli che dovrebbero essere i destinatari delle tue parole, ti ascoltano più volentieri o meno volentieri?».È fondamentale chiedersi a chi stiamo parlando. E ciò richiede di capire prima dicosa stiamo parlando. Ebbene, dopo avermi posto questa domanda, osservo, Lei sposta il focus sull’omosessualità e sulle persone omosessuali. Ecco, questo passaggio a mio avviso è la sintesi di un fondamentale equivoco che porta a confondere piani distinti: il piano pubblico (legislativo) e il piano morale (individuale).
Se ci si muove nell’ordine legislativo io non intendo minimamente parlare di omosessualità. Trovo sconsiderato che si leghi la questione delle unioni civili e del matrimonio all’omosessualità, cioè ad un orientamento sessuale. Di omosessualità – lo sostengo a tempo – in un simile contesto non bisognerebbe nemmeno fare cenno.
Cerco di spiegarmi. Sono fortemente convinto che la veraquerelle non derivi in alcun modo da una presunta lotta tra “omosessuali” e “eterosessuali”. La reale posta in gioco sta invece nel tentativo di riconfigurare i rapporti all’interno della coppia “genitori-figli”. Questo aspetto, a mio avviso, è stato ben colto dagli organizzatori della manifestazione del 20 giugno ed è la ragione per cui ho accolto con grande soddisfazione la loro intuizione.
Non lo hanno compreso invece le frange del variegato mondo del dissenso “tradizionalista”, che non a caso hanno rimproverato al comitato organizzatore di essersi sottratto alla dialettica amico-nemico omettendo pavidamente di “denunciare” la “piaga” dell’omosessualità. Il tradizionalismo “ultra” si rivela così come il calco rovesciato dell’antagonismo LGBT. Adotta lo stesso schema etero vs. omo invertendo il segno del giudizio di valore (vale a dire che tra i due campi in “lotta” il tradizionalista si schiera della parte del primo, condannando il secondo).
È invece di vitale importanza sottrarsi a questa dialettica capziosa e malsana. Occorre impostare su altre basi la questione. Cioè bisogna – mi ripeto fino alla noia – andare all’essenziale. E l’essenziale, per come la vedo io, è questo. In che misura ha senso dire che si sta snaturando il matrimonio? La mia risposta è: perché è in atto il tentativo di vincolarlo all’orientamento sessuale, non più alla differenza sessuale. Questa, che sembra una sottigliezza da legulei, veicola in realtà un mutamento di proporzioni epocali.
Che interesse può avere lo stato per la famiglia? Ci sarà pure un motivo se il matrimonio ha sempre goduto di un posto privilegiato nell’ordinamento giuridico. Infatti c’è, ed è molto semplice. È banale dirlo, ma lo stato è composto da cittadini. E i cittadini devono prima essere nati. E si dà il caso che per millenni la famiglia sia stata l’unico luogo in cui si potevano generare esseri umani, cioè i futuri cittadini.
Ecco perché lo stato ha tutto l’interesse a riconoscere il matrimonio come unione tra due individui di sesso diverso. Ha interesse cioè a riconoscere uno spazio privilegiato al matrimonio come unione fondata dalla differenza sessuale. La ragione essenziale di questo riconoscimento sta nel fatto che solo “quel” tipo di pratica sessuale ha la potenza generativa. È il motivo per cui perché la legge delinea un quadro oggettivo, senza addentrarsi nella psiche individuale (senza sindacare cioè sull’orientamento sessuale), ma stabilisce delle condizioni oggettive: si possono sposare un uomo e una donna perché la loro unione sessuale è l’unica potenzialmente feconda. In ragione cioè della loro oggettiva pratica sessuale: l’unica dalla quale possano nascere figli, la sola che possa generare vite di nuovi cittadini.
È chiaro che ordinariamente orientamento sessuale e identità sessuata sono correlati in senso etero (altrimenti la specie umana non sarebbe sopravvissuta a lungo sulla terra). Ma la legge questo elemento lo dà per presupposto, non è il suo campo. Alla legge dello stato interessa (rectius, interessava) il matrimonio come atto fondativo della famiglia, perché la famiglia è (era) il nucleo generativo della società. La famiglia dà (dava) cittadini allo stato.
Con l’avvento delle nuove tecnologie della riproduzione il discorso cambia radicalmente. Ed ecco perché parlo usando l’imperfetto. È lo stesso motivo per cui ho voluto riportare la “profezia” di Derrida sulla fine del matrimonio civile, destinato ad essere soppiantato da una unione civile legata all’orientamento sessuale.
Se colleghiamo il matrimonio all’orientamento sessuale, e non più alla differenza sessuale, la conseguenza è una e una sola. Significa che viene scardinato il legame tra la coppia matrimonio-famiglia e la fecondità. Vuol dire destrutturare in radice il “patto
interessato” dello stato con la famiglia. Vuol dire preludere a uno scenario in cui i figli sono destinati ad essere fatti in altra maniera. Verranno “prodotti” per via tecnologica, ovviamente. In laboratorio. Al momento solo i facoltosi possono permettersi di
“affittare un utero” per non disturbare la propria carriera con le complicazioni e le perdite di tempo di una gravidanza. In futuro probabilmente ciò sarà prassi comune. Le cose cambieranno, e di molto. Perfino l’utero in affitto tra qualche anno sembrerà una
pratica obsoleta. Quando sarà pronto l’utero artificiale, cosa impedirà di “coltivare” esseri umani al di fuori del corpo femminile? In sintesi: le potenzialità della tecnica permetteranno sempre più di espropriare la famiglia della sua funzione procreativa. Come nucleo generativo della società, pertanto, la famiglia non è più insostituibile. E a nessuno sfugge quanto sia funzionale alla logica di un potere inteso come kratos – come potenza, non come servizio – poter produrre direttamente esseri umani senza dover passare attraverso i genitori, ovvero evitando il passaggio attraverso esseri dotati di una propria libera volontà. Cioè pur sempre un potenziale ostacolo per qualsiasi genere di governance demografica. Non ci sarà più bisogno di fare liste di leva. Basterà produrre direttamente in proprio i futuri soldati, magari predisponendone già d’anticipo le caratteristiche più idonee al combattimento attraverso manipolazioni genetiche. Perché no? Cosa lo impedisce?
Dietro a una simile pretesa si intravede il profilo di quella che Pier Paolo Pasolini chiamava «anarchia del potere». È il potere nella sua dimensione elementare e nuda, il potere come comando. Ogni comando ha in sé una carica disumanizzante, perché richiede all’individuo di accantonare la propria libera volontà per farsi strumento della volontà altrui. È come se, così facendo, la persona fosse pietrificata: il corpo, dice Pasolini, è ridotto a cosa inanimata, l’individuo è trasformato in oggetto. Incrociare lo sguardo pietrificante del nudo potere significa pertanto esporsi alla pura arbitrarietà (in questo senso si può parlare di anarchia).
Se le cose stanno così, non c’è da stupirsi che la famiglia naturale stia perdendo il suo posto centrale. E ciò permette di cogliere anche la natura strumentale della questione omosessuale. Essa è agitata al solo scopo di celare questo mutamento epocale dietro il paravento dei “nuovi diritti”. Per questo perché è folle un muro contro muro contro il mondo LGBT. Non è questo il punto. L’equivoco sta in questo: credere che il muro vada innalzato contro gli omosessuali, anziché essere eretto per impedire l’esproprio della funzione procreativa.
San Paolo, in un passo enigmatico della seconda Lettera ai Tessalonicesi, accenna al katéchon, a ciò che trattiene il dilagare del mistero d’iniquità. E in questo senso che occorre intendere la metafora del muro: come argine alla dissoluzione della persona. Maligno è tutto quel che minaccia la persona come essere dotato di un volto. E a tutto questo il cristiano, se ha a cuore il bene della persona, ha il dovere di opporsi anche pubblicamente.
Naturalmente non nego che con alcuni amici, che pure erano in piazza, su questo punto a volte mi trovo in garbato dissenso. Anche loro, a mio avviso, seppure in totale buona fede hanno abboccato alla martellante propaganda e si credono in dovere di “dire la verità sull’omosessualità”. È mia convinzione che così facendo si confondano soltanto i piani – il piano legislativo-pubblico e quello morale-individuale – danneggiando fortemente la resistenza a questo progetto disumanizzante. Allo stesso modo, sono fortemente convinto che la gran parte, se non la totalità delle polarizzazioni che Lei (giustamente) paventa, don Mauro, nascano da questo fondamentale equivoco: molti credono di dover “combattere” una battaglia contro il mondo LGBT. Pertanto si contrappongono in maniera polemica a questo avversario. E l’accesso alla logica amico-nemico alimenta così uno scontro fittizio che inasprisce gli animi e fomenta una stadio di anteguerra civile. È un colossale abbaglio.
Anche io condivido in toto la sua preoccupazione, don Mauro: mantenere un canale per il dialogo è una necessità vitale, imprescindibile.
Chi si prefigge un simile obiettivo non può non notare come le parole della senatrice Cirinnà a loro volta alimentino il medesimo scenario irreale e propagandistico (la lotta di una minoranza oppressa di omosessuali contro la discriminazione perpetrata dagli oppressori etero). L’errore, a mio avviso, consiste nel credere che quelle parole siano una specie di reazione alla “chiusura” della manifestazione del 20 giugno e non, piuttosto, la conseguenza di una concezione politica totalitaria. Lo scopo non è quello di favorire l’integrazione sociale delle persone con orientamento omosessuale. È quello di sovvertire la natura del matrimonio. E in questo caso vengono a mancare gli stessi presupposti del dialogo.
Nel mio articolo ho cercato di mostrare proprio questa duplice accezione: la parola “dialogo” non ha un significato univoco. Esiste il dialogo autentico, quello diciamo nell’accezione socratica: il dialogo come ricerca comune della verità. Ed esiste il dialogo sofistico, dove la parola diventa strumento di potere con cui si cerca di imporre la propria volontà all’interlocutore. Nel secondo caso siamo nell’ordine della sottile manipolazione della propaganda. Ci sono gruppi di pressione che indubbiamente “dialogano”
in questa maniera sofistica. Dialogare in maniera indiscriminata quindi è come minimo imprudente. Per questo talvolta occorre anche dire “no”, cioè alzare un muro. Perché ci sono muri che hanno una funzione protettiva (preservano la vita) e muri che hanno una funzione maligna (preservano la morte).
Riconoscere l’esistenza di un’agenda politica che si propone di mutare la natura del matrimonio per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi non equivale a cadere nella paranoia cospirazionista. È prendere atto della realtà. Naturalmente è viva e presente la tentazione di asserragliarsi in una cittadella di “puri e duri” rancorosi e inaciditi. È una possibilità concreta. Per questo sulla Croce il sottoscritto e altri hanno scritto più volte contro il rischio di una simile deriva. Uno dei modi per evitare questo pericolo è, credo, cercare di andare in profondità. Andare alla radice delle cose e cercare di capire qual è la vera posta in gioco.
L’interrogativo dovrebbe essere questo: un mondo così ci piace? Lo vogliamo davvero? O meglio: un mondo dove le persone diventano prodotti possiede ancora le caratteristiche dell’umano? Tutto il resto per me è questione assolutamente secondaria e derivata. E finché non saremo capaci di presentare le nostre ragioni in questi termini la polemica anti-gender apparirà come una rivendicazione confessionale, come una strana fissazione dei cattolici. All’opposto, credo che essa abbia una rilevanza universale, che interessi ogni singolo cittadino. Si tratta proprio del bene comune, di un bene cioè che al tempo stesso è di tutti e di ciascuno. Perciò non si scappa. È una situazione in cui, come direbbe Pascal, siamo tutti “embarqués”. Siamo irrimediabilmente coinvolti.
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