Blog – In due si è soli due volte
Ero ragazzo ed un giorno, parlando della vita, un signore mi disse: “in due si è soli due volte”. Allora quella frase mi sembrò frutto di un’esistenza infelice, adesso mi sembra descriva in maniera efficace una delle conseguenze del peccato originale: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gn 2, 18). Nessun credente può meravigliarsi che le ferite conseguenti la caduta rendano praticamente impossibile all’uomo, in questa vita, la piena comunione con un altro uomo. «Nell’estrema preghiera di Gesù sulla Croce (“Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” – Mc 15,34), come del resto anche nella scena dell’orto degli ulivi, il nucleo più profondo della Passione non sembra essere qualche dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. In ciò viene in luce, in definitiva, semplicemente l’abissale solitudine dell’uomo in genere: dell’uomo che nel suo intimo è solo, tragicamente solo. Pur camuffata, questa solitudine rimane la vera situazione dell’uomo, e denota al contempo la più stridente contraddizione con la natura stessa dell’uomo, che non può sussistere da solo, ma abbisogna invece di una vita con altri. La solitudine è perciò la ragione dell’angoscia, radicata nel fatto stesso che l’essere è gettato allo sbaraglio, eppure deve ugualmente esistere, anche trovandosi costretto ad affrontare l’impossibile» (Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, p. 242).
Far compagnia a chi soffre è un sublime atto di carità ed è una sapienza che si impara solo dopo tanti anni. Di fronte al dolore abbiamo tutti la tentazione della fuga: chi ci comunica la sua sofferenza vorrebbe compagnia ma il nostro primo istinto non è quello di stare vicino ma di eliminare il dolore rimuovendone la causa. Se è possibile benvenga chi risolve il problema ma in genere chi si rivolge a noi ha già verificato che non ci sono soluzioni: vuole compagnia nel dolore, non rimedi che non esistono.
Parecchi anni fa una moglie telefonava da Toronto al marito. La città era piena di neve, c’erano 15° gradi sotto zero e lei diceva di essere al Commissariato. Aveva perso il passaporto e lo stava rifacendo. Il tono della voce di chi raccontava era quello dell’ira trattenuta. Dopo poche parole si lasciò andare con l’amica e disse che, al telefono dall’Italia, le prime parole del marito alla notizia erano state: “Ma come hai fatto a perderlo?”. “Non poteva pensare che quando uno perde qualcosa, per definizione non sa come ha fatto a smarrirla?” raccontava seccata.
La moglie, che oltretutto già stava facendo la cosa giusta, aveva bisogno non di consigli su come trovare il passaporto ma di non sentirsi sola. Il marito però non voleva accompagnarla nella solitudine ed essere contaminato dal suo dolore: per questo voleva, in teoria, risolvere il problema.
Se mio fratello è ricoverato all’ospedale con un male incurabile e vuole che io gli faccia compagnia, cosa vuole esattamente da me? Forse vuole quello che vuole dai medici, cioè che io lo curi? No: io non sono medico ma fratello. Da me non vuole la guarigione, quella la vuole dai medici. Da me non si aspetta la salute e neppure vuole che lo aiuti a “dare un senso alla sofferenza”. Vuole che io soffra con lui. E cosa vuol dire questa frase? Posso forse prendere la sua sofferenza e farla mia? Posso prenderne cinquanta e lasciargliene l’altro cinquanta? No, questo, non è possibile, e infatti non me lo chiede. Quello che mi chiede è che io sia con lui, cioè che gli tolga la sofferenza nel suo aspetto di solitudine. Far compagnia nel dolore è cosa ben diversa dall’eliminare il dolore: significa sostare con la persona che amo nel conflitto esistenziale che la coinvolge. Significa resistere alla tentazione di provare inutilmente ad eliminare il dolore (“ripensa a dove hai lasciato il passaporto”) per deciderci invece a fargli meramente e semplicemente compagnia.
Si tratta di eliminare la solitudine non il dolore.