Articoli / Blog | 08 Febbraio 2024

Studi Cattolici – Cavalleri e l’arte di scrivere

Il numero 755 di Studi Cattolici (Gennaio 2024) contiene questo mio ricordo di Cesare Cavalleri

Cesare Cavalleri è stato per me un padre. Il primo ricordo nitido di lui è quello di una sua frase chirurgica scandita durante un incontro informale con giovani numerari. “L’Opus Dei – disse – non è venuta per insegnare il Rosario alla gente”. Stupore, silenzio, riflessione. Dando per ovvia la necessità della preghiera e della vita sacramentale in tutte le sue manifestazioni, Cesare aveva utilizzato un’espressione così caustica perché non voleva che dei giovani universitari ai primi passi nella loro vocazione dimenticassero un aspetto essenziale del carisma dell’Opera, e cioè che chi ha il talento dell’intelligenza deve sentire come un obbligo l’impegno a portare il proprio essere cristiano anche nel mondo della cultura (Cfr Statuti dell’Opus Dei, Cap. 1, art. 1, par. 2): vivere del proprio carisma, infatti, significa cercare ciò che caratterizza la propria vocazione, non rimanere solo in ciò che è comune alla vita di ogni cristiano.

Quella frase, che posso collocare tra l’ottobre 1978 e il giugno 1980, affiorò con forza dentro di me quando, sebbene stessi per laurearmi in economia e commercio, sentii premere come ineluttabile la vocazione allo scrivere. Sapevo confusamente che anche Cavalleri proveniva da studi universitari dello stesso tipo e questo mi incoraggiava. Abitavo a Genova e ricordo ancora l’infinita trepidazione della telefonata nella quale chiedevo al Direttore di Studi Cattolici di incontrarmi. Sapevo di essere uno tra i tanti ma non mi sentivo uno dei tanti. L’asciuttezza abrasiva delle sue espressioni, medicata dall’affetto degli altri membri della redazione, fu, miracolosamente, subito da me intesa come la fragile difesa della rosa che si illude di tenere lontani i pericoli acuminando le proprie spine. Ho sempre avuto la certezza che il chiaro senso del limite introdotto da Cesare in ogni momento relazionale (era uguale si trattasse di una telefonata, di un pranzo o di un viaggio in macchina) nascesse dal tracimare di un pudore, innanzitutto verso sé stesso, che coltivava mentre allo stesso tempo ne era anche prigioniero. Sotto la sua guida, acuminavo la mia penna leggendo i suoi autori preferiti. Nacque in quegli anni Quare, il mio primo libro, che pubblicai per Ares però solo vent’anni dopo. C’era un motivo per tanto ritardo. Mi ero nel frattempo trasferito a Roma dove ero diventato sacerdote nonché collaboratore di Studi Cattolici. Lo documenta, a pagina 57, la foto pubblicata sul numero della rivista dedicata al suo direttore storico. Lì, insieme a lui ma non solo con lui, siamo ritratti prima dell’incontro con Papa Benedetto XVI. Per quel senso del limite che ho già descritto, i nostri incontri non erano mai stati frequentissimi però ogni volta erano stati degli eventi: piccoli come una telefonata o grandi come una presentazione.

Per legge di natura è frequente che i figli partano per lunghi viaggi. Chi non li conosce può pensare che la relazione si sia inaridita e invece, spesso, ha solo assunto un andamento carsico. I figli, poi, assomigliano ai genitori pur senza esserne consapevoli. Con il passare degli anni mi sono accorto di aver preso qualcosa da Cesare. Non tutti sanno che Cavalleri, in genere, scriveva di getto, senza correzioni. La sua macchina per scrivere (non da scrivere, come correggeva instancabilmente) non ritornava mai indietro: soprattutto quando scriveva articoli. Questo superpotere era dovuto alla sua cura manicale per i particolari. Aveva asceticamente addestrato il proprio talento di critico letterario al punto da impedirsi per lunghi anni di pubblicare le proprie poesie che riteneva non di sufficiente valore letterario. Quelle particolarità che a volte apparivano come bizzarrie erano dovute alla sua costante passione per la misura degli esatti. Erano, pensava, ciò che permettevano di essere riconosciuti, di venir ricordati come unici. Questo valeva per ogni cosa. Lo scopo di ogni addestramento è far sì che le capacità divengano riflessi, atti meccanici. Nel campo dello scrivere, ovvero nell’attività editoriale nel senso più ampio del termine, Cesare Cavalleri era in grado di muoversi d’istinto verso il bello, l’alto, il difficile. Alzava costantemente per sé e per i propri collaboratori la greppia del cavallo. Io sono molto distante dall’essere come lui però ho profondamente assorbito l’imperativo dello scrivere sempre “come se pubblicassi”. Vale anche per una mail, per un messaggio di WhatsApp. Pare una piccola cosa ma cambia la vita. Di se stessi e di chi legge. Pensate a quanto migliorerebbe la nostra esistenza se tutte le persone che ci inviano note vocali si sforzassero di scriverci in maniera essenziale e corretta quello che pensano. Se la comunicazione degli appuntamenti e delle circostanze della nostra vita avesse le maiuscole giuste e la punteggiatura al proprio posto. Se ci prendessimo qualche secondo in più per raccontare un’emozione invece di cliccare banalmente un emoticon con il pollice verso l’alto o con le mani giunte. Sento Cesare alle mie spalle che mi guarda con soddisfazione. Ma se mi volto non lo vedo più. Si è nascosto per paura che vengano superati i limiti della decenza. O anche solo dell’educazione.

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