Blog – Atteggiarsi a vittima alla lunga non paga
Fabio Caressa spiega l’esonero di Mourinho dicendo, tra altre cose, che tutto quel suo litigare, quell’essere divisivo, quel dare la colpa agli arbitri, alla lunga ha stancato la proprietà americana.
Non so se è vero ma certamente un importante compito dell’educatore, soprattutto in ambito sportivo, è insegnare a rifuggire da quel diploma di vittima che tanto spesso è gran parte del nostro curriculum vitae. Nel calcio, come nella vita, riesce chi non dà la colpa agli arbitri – ovvero al governo, alla storia, allo stato, ai genitori, alla razza o alla sorte – ma si rimbocca i calzettoni e lavora.
Josif Brodskij, che fece un memorabile discorso in proposito all’Università del Michigan, viveva negli Stati Uniti e conferma che l’indole americana è disgustata da modi di fare che, purtroppo, ai nostri tifosi spesso piacciono troppo. Chi vinse il Nobel per la letteratura nel 1987 venne condannato in URSS per parassitismo sociale e nonostante ciò sosteneva che la parte del nostro corpo che più dobbiamo temere è il nostro dito indice, perché ha la mania di incolpare gli altri.
Il diploma di vittima all’inizio è tanto comodo ma alla lunga rivela la volontà di chi non vuole cambiare le cose. “Sono una vittima” è lo carta d’identità della parte debole della nostra personalità, quella che non vuole affrontare ne sé né gli altri. Quella parte che se passasse il buon samaritano non si farebbe caricare e portar via ma direbbe di lasciarci lì, a terra. Sì, è un po’ sporco, poco dignitoso, ma è una scomodità tanto comoda. Se sei a terra non hai responsabilità, pesi, colpe. Sono a terra, lasciatemi in pace.
Ma l’arte di dare colpa agli altri, alla lunga non paga