Avvenire – Guido, quindi servo: perché bisogna farsi “schiavi” per essere numeri uno
In Cento volte tanto Leonardi guida il lettore a rintracciare nelle pagine del Vangelo tracce di management per l’oggi: management aziendale, certo, ma affiancato da un management personale che ci aiuti nella nostra vita di tutti i giorni. Secondo il Vangelo, Gesù non nega l’esistenza dell’autorità, che è chiamata a fare sintesi nel compimento del bene comune e a promuovere il massimo dalle persone che sono nella comunione
Cristo vive secondo una logica periferica, però, questo suo essere forestiero e lontano dalle headquarters umane, non significa che il Nazareno fosse un anarchico o un solitario che viveva da individualista.
Dire che in un’azienda il centro non è la sala delle riunioni ma il fronte non significa dire che non debbano esistere dirigenti e Ceo, così come non significa affermare che in una famiglia, in una comunità, non debbano esserci un padre o una madre di famiglia o un superiore (e non importa che sia maschio o femmina). È chiaro che per il Vangelo quando si parla di autorità, di obbedienza, non si intende qualcosa di simile alla relazione gerarchica di un esercito piramidale, che poi era il modo in cui era costruita la società in tutte le sue parti ai tempi di Cristo: era un sistema di élite, un sistema di gruppi, un sistema di caste, che governavano le une sulle altre a partire dall’alto verso il basso, dal poco al molto, dal centro alla periferia, dalla plancia di comando al cambusiere.
Nella versione che Matteo ci offre del brano di Luca in cui Gesù dice che il più grande deve ascoltare il più piccolo (cfr. Lc 22), Cristo è ancora più chiaro su come debba essere strutturato il principio di autorità. Egli dice: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (Mt 20,25-27). Quindi Gesù non nega l’esistenza di un’autorità ma dice che il compito dell’autorità è servire: anzi, quando si parla dell’autorità nel suo vertice assoluto, essere “il primo” significa essere lo schiavo, quello che sta più in basso. Ecco l’incredibile conferma per cui la verità e l’autorità vengono dal basso. L’attenzione di Gesù è maggiormente volta a evitare la deriva per cui gli apostoli esercitano l’autorità in modo assoggettante piuttosto che ricordare il dovere di obbedire a chi è sottoposto.
L’autorità è di chi è chiamato a fare sintesi nel compimento del bene comune. Il suo compito è far emergere la creatività che c’è in ciascuno al fine di metterla insieme, di “sussidiarla”, di “fare sinfonia”: perché senza autorità non c’è comunione di persone. Senza autorità – che sia un’autorità “schiava” e che “serva” – non c’è comunità, non c’è famiglia, non c’è patria, non c’è azienda. Se vuoi essere il primo devi essere lo schiavo di tutti. Schiavo vuol dire “nessuna autorità intesa in senso verticistico”: del tutto diverso dal dire che essa va intesa in senso “monarchico”, giustificandosi con l’assioma che “ogni autorità viene da Dio”. Ancora, “essere schiavo” significa dire che l’autorità non deve avere alcuna volontà propria: il più grande si faccia servo di tutti, il primo si faccia schiavo. Questa è l’abilità dell’autorità: fare sinfonia attirando alla comunione. Lo schiavo non ha nessuna autonomia. Il bene comune è la ragione dell’autorità. Io non posso avere un’autorità su di te se non siamo legati da un bene comune. È il senso della parabola del buon pastore in cui «il pastore dà la vita per le pecore» (Gv 10,11). Che il buon pastore dia la vita per le pecore è nella logica dello schiavo non del satrapo che tiranneggia. Ma, a ben vedere, è anche nella logica del padre di famiglia: perché è il padre che dà la vita ai figli e non viceversa. Per questo è sommamente innaturale che i genitori vedano morire i propri figli: perché nessun padre vuole che i figli diano la vita per lui. Sono i padri che generano dando la vita, non il contrario. L’idea per cui il soldato dà la vita per il sovrano, ben raffigurata per esempio nel gioco degli scacchi dove il pedone si sacrifica per il re, non è l’idea cristiana: è, piuttosto, quella del sommo sacerdote Caifa quando dice «voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv 11,49-50). Nel Vangelo, il Figlio dell’uomo non opera come quel sommo sacerdote giudeo ma, Agnello pasquale venuto non per essere servito, serve e dà la propria vita in riscatto per molti, potenzialmente per tutti (cfr. Mt 20,28).
L’autorità deve essere servizio al bene comune. Significa che io devo riuscire a promuovere il massimo di tutte le persone che sono nella comunione, armonizzando, sommando tutte le forze. La comunione di persone fa sì che, se stiamo assieme, tutti insieme possiamo fare qualcosa che da soli, in quanto individui, non eravamo in grado di realizzare. La regola d’oro dell’esito positivo di un’azienda ha una sola parola: “noi”. Una squadra di spalatori di neve non è una squadra nel senso in cui ne sto parlando ora. Detto semplicemente: una squadra di cinque spalatori di neve fa lo stesso lavoro di un singolo spalatore anche se lo fa in un tempo cinque volte inferiore. La squadra di cui parlo io invece fa, assieme, una cosa nuova, una cosa che cinque singoli non possono fare. Una squadra di cinque cestisti non ha cinque giocatori che fanno la stessa cosa ma ha cinque uomini che fanno cose diverse: uno fa il pivot, due le ali, uno la guardia, uno il regista, e così via. Fanno una squadra se giocano “assieme”. Due molecole di idrogeno e una di ossigeno che si combinano nel modo giusto non fanno un nuovo gas ma quella cosa totalmente nuova e che consente la vita che si chiama acqua. L’acqua è il bene comune e il principio di autorità è quella cifra, incarnata da qualcuno, che fa in modo che le diversità dell’ossigeno e dell’idrogeno si combinino nel modo appropriato. In questo senso, l’autorità deve fare in modo che ossigeno e idrogeno siano davvero sé stessi, e deve lavorare perché si combinino nel modo giusto. È proprio a partire dalla loro identità che si fa qualcosa di nuovo. La squadra, il bene comune – sia che si chiami azienda o che si chiami patria o famiglia o comunità – non è solo qualcosa di più, ma anche qualcosa che da soli non si può fare. Un bene comune è un bene sovraordinato al bene del singolo. Il buon padre di famiglia non è quello che dà a ogni membro dei soldi perché ciascuno faccia la propria vacanza da solo ma è quello che fa in modo che si riesca a godere insieme il proprio periodo di riposo. La civiltà non è una società di ciclopi. Il mondo leggendario in cui viveva Polifemo era un mondo di singoli dove ciascuno stava nel proprio antro. Polifemo, dopo che viene accecato da Ulisse, urla dal dolore, ma agli altri ciclopi, per acquietarsi senza uscire dalla loro autoreferenzialità, basta sentir dire da Polifemo che «Nessuno mi uccide con l’inganno, non con la forza» (Odissea, libro IX). Così non vanno da lui e non scoprono che è stato reso cieco.
L’autorità, come la intende Cristo, è il principio della comunione e la promozione massima di ciascuno, armonizzata con quella di tutti gli altri. Un motivo in più per spingere chi comanda ad essere “periferico”, ovvero schiavo. Il cristiano non crea “caste”, nel senso che non costruisce situazioni che gli evitino di essere toccato, contaminato, dalla vita degli altri. Gerusalemme era, nel sogno dei farisei, una città di non contaminati. La Galilea invece era una terra di gente mista, proveniente da molti luoghi, di diverse religioni. Gesù è un “Dio in mezzo a noi”; non sopra, non a fianco, ma proprio in mezzo, dove è impossibile non toccare e non essere toccati nell’anima e nel corpo. Gesù sosta in mezzo alla strada per parlare con una donna straniera in pieno giorno. I suoi si scandalizzano, ma in questo modo Gesù non solo salva una donna riportandola a Dio ma, tramite lei, un’intera città si converte (cfr. Gv 4). Se crediamo veramente che il Vangelo è Parola del Signore crediamo anche che è corpo di Cristo che si contamina con noi, un corpo che ci lava i piedi e che si fa lavare con i capelli misti a lacrime di una peccatrice. Questo è il Vangelo. La neve appena caduta è meravigliosa: crea un incanto di purezza. Ma è anche vero che frena tutto, blocca tutto. Per contemplarla, questa neve, per apprezzarla, per viverla, bisogna tracciarvi un cammino sopra. Sopra la neve. Un’impronta sulla neve “contamina” la sua bianchezza ma è l’unico modo per rendere quel paesaggio fecondo, per vedere un percorso oltre il bianco, una via, un sogno da seguire. Contaminazione: se vogliamo, questo è un altro dei nomi della Chiesa.
Cento Volte tanto. Diventa manager della tua vita con il Vangelo (pp. 77-83) pubblicato su Avvenire di Mercoledì 26 aprile 2023