Blog – Vuoi Guarire?
«Vuoi guarire?» (Gv 5,6). Nel Vangelo di Giovanni Gesù rivolge questa domanda a un uomo che giaceva da trentotto anni paralitico e costui, con una reazione che mi ha fatto riflettere molto lungo la quaresima che si conclude con la Veglia di stanotte, non risponde affermativamente alla domanda.
Dice che nessuno lo aiuta ad immergersi nella piscina al momento opportuno e, quando Cristo lo cura esortandolo a fare del proprio lettuccio da paralitico non un guscio nel quale rifugiarsi ma un trampolino da cui lanciarsi verso una nuova vita guarita, si mette sì a camminare ma con un astio che si rivela nell’azione successiva.
Di lì a poco infatti, scoperto che chi lo ha guarito è ostracizzato dai suoi capi, non trova di meglio che denunciarlo ricompensando così il gesto di amore del Nazzareno con la persecuzione. “Quell’uomo se ne andò e disse ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. Per questo i Giudei cominciarono a perseguitare Gesù” (Gv 5, 15-16).
Immaginiamo che quell’uomo avesse quaranta, cinquant’anni. È possibilissimo che quel signore, paralitico per trentotto anni, avesse trascorso la gran parte della vita in quella situazione. Significa che, in un’età per l’epoca ormai anziana, non aveva alcuna competenza, non era capace di svolgere alcun lavoro. Era solo in grado di elemosinare, quello era il suo mestiere. Era grande nell’arte del lamento, del dare la colpa alle circostanze, alla vita, a quanto gli era capitato. E a manipolare gli altri con la propria sofferenza. Ad usare il dolore oggettivo che gli era capitato, certamente non in una miniera d’oro però, almeno, in un espediente che gli dava da campare. D’un tratto, senza più la sua malattia, si trovava gettato allo sbaraglio in un mondo che non aveva alcun ammortizzatore sociale.
La parabola del cosiddetto “fattore infedele” (Lc 16,1-8) ci dà un’idea di quanto profondo potesse essere il disagio di chi si trovava in situazioni simili. L’uomo della parabola che sta per essere licenziato ragiona tra sé dicendo “zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno” (Lc 16,3). Ci fa capire cioè quanto l’attività del mendicare fosse un’alternativa al lavoro tutt’altro che remota e da disprezzare. Ora, per “colpa” del miracolo di Cristo, l’uomo del capitolo quinto del vangelo di Giovanni si trova d’un tratto senza risorse. Sa bene che a cinquant’anni non s’impara un lavoro. Dopo il primo momento d’euforia che gli fa muovere i primi passi, rimane preda della paura al punto di essere ghermito dal terrore di venir anche “espulso dalla sinagoga” ovvero isolato in quelle relazioni esistenziali che, per quanto misere, erano le uniche che gli davano da vivere. Ecco quindi salire in lui i sentimenti d’odio che lo portano a vendicarsi di quel guaritore invadente e sconosciuto che gli aveva complicato la vita regalandogli un miracolo non richiesto.
In questo groviglio di sensazioni, pensieri, paure, incubi, sta a volte il principale ostacolo al nostro incontro con Cristo. Il motivo per cui non riconosciamo il bene della Resurrezione che inizia in noi già da qui.