METRO – Le cicatrici di quelle famiglie ucraine
Nel discorso di Zelenskij al parlamento italiano spicca il duro paragone tra Kiev e Roma, tra Mariupol e Genova. Il leader ucraino ci induce a immaginare la capitale della liguria rasa al suolo e di pensare le ferite che questo potrebbe provocare in noi. Sono le cicatrici delle famiglie ucraine. Non sono solo i danni materiali – tremendamente ingenti – ma le ferite nei ricordi, le voragini nelle strade che ti hanno visto crescere bambino, gli strappi sul golfino dove magari hai dato il primo bacio, hai sentito il primo abbraccio. Le macerie di una città, peggio ancora di una capitale, sono il simbolo di una patria: è come un lutto familiare difficile da accettare e da elaborare.
Stare a fianco di un popolo che soffre non significa solo mandare aiuti materiali o accogliere dei profughi. Vuol dire anche sforzarsi di assumere il loro punto di vista quando la necessità della separazione diventa inevitabile: “camminare nel scarpe dell’amico” come diceva quel proverbio Sioux. Mogli e figli lasciano padri e fratelli a combattere e mentre lo fanno hanno nel cuore l’incertezza sul loro futuro. E questo pesa più di qualsiasi ansia economica, alla precarietà della vita materiale si aggiunge quella degli affetti.
Lasciare una patria in guerra significa non sapere cosa resterà in piedi della propria vita. Non solo per quanto riguarda le strade e le case ma soprattutto riguardo a quei legami, a quelle relazioni nelle quali riponevamo le nostre sicurezze