METRO – Said, la lezione più dura
Said Visin prima di essere un calciatore di talento, prima di essere un ragazzo adottato era un ragazzo che soffriva per le discriminazioni razziste cui era sottoposto e che, pur di non ferire i propri cari, aveva taciuto per tanto e troppo tempo il suo dolore.
Visin si era tolto la vita agli inizi di giugno. Quando la notizia era diventata pubblica, a causa di una lettera diffusa dai media, fin da subito l’opinione pubblica individuò le ragioni del suicidio nel razzismo. Però i genitori smentirono. Dissero che quella lettera parlava di un problema superato: ora hanno ammesso di essersi sbagliati e di essere arrivati alla conclusione che il figlio nascondesse loro la sua sofferenza per proteggerli. Forse questa è la lezione più dura da digerire nell’intera vicenda. Non parlare del proprio dolore può far implodere e trasforma la sofferenza in disperazione. Ci vuole un’umiltà particolare nel mostrarsi aperti nei momenti di fragilità perché si rischia di passare per ingrati o esibizionisti (e non mi riferisco a Visin). Il segreto è rivelarsi tutti figli, fratelli, compagni di un viaggio. Quando si è soli le ferite divengono più profonde e la possibilità di sopravvivere si allontana. Ungaretti diceva che la parola fratelli è un’involontaria rivolta dell’uomo alla propria fragilità. Tutto cambia invece quando un dolore solitario diventa un dolore che unisce a chi ci vuole bene.