METRO – Manca anche il nome per descrivere il dolore
Un papà mi chiede cosa avrei detto al padre che ha perso i figli ad Ardea. Già, io, prete, come sarei stato vicino a un uomo che, uditi i colpi d’arma da fuoco, esce dall’abitazione e vede a terra il figlio Daniel di 10 anni e David di 5? Rimango in silenzio qualche secondo e poi gli dico che quel padre è un uomo inconsolabile. Se per chi perde papà, mamma, marito o moglie la lingua ha elaborato parole per descrivere quella condizione – orfano e vedovo – per chi perde i figli non c’è alcun nome possibile: significa che non ci sono parole. E poi quell’uomo è tormentato anche da un interrogativo dolorosissimo. Perché lui era ai domiciliari per “un po’ di droga” ha detto, e invece all’assassino, un uomo dichiaratamente instabile, lo Stato ha consentito di tenere la pistola del padre deceduto da tempo? Il danno oltre alla beffa.
Davanti a queste tragedie non ci sono parole, si può solo cercare di stare accanto, di provare a condividere e a comprendere il dolore, la rabbia, anche la sete di vendetta forse. Perché solo il tempo dirà se ci sarà lo spazio per il perdono. Il tempo del perdono viene dopo quello del pianto, e il tempo del pianto ha bisogno di tempo: quello di piangere. Chi crede può chiedere l’intervento della grazia. Nel frattempo però la società si deve interpellare su quanto avvenuto. Perché, in misura diversa, ne siamo un po’ tutti responsabili
Tratto da METRO