Don Massimiliano Nastasi – II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia / B

At 4, 32-35  ⌘  Sal 117  1 Gv 5, 1-6   Gv 20, 19-31

 La II domenica di Pasqua – o della Divina Misericordia, voluta da Giovanni Paolo II dall’anno giubilare del 2000, secondo le indicazioni di suor Maria Faustina Kowalska: «Figlia Mia, parla a tutto il mondo della Mia inconcepibile Misericordia. […] La festa della Misericordia è uscita dalle Mie viscere; desidero che venga celebrata solennemente la prima domenica dopo Pasqua» [1] – chiude il periodo liturgico dell’ottava ricordando l’esperienza dell’apostolo Tommaso.

Egli, non presente la sera dell’apparizione del Risorto agli apostoli, resta scettico al punto da indurlo ad affermare che se non avesse visto nelle sue mani il segno dei chiodi e non avesse messo il suo dito nel segno dei chiodi e non avesse messo la sua mano nel suo fianco, non avrebbe creduto. Tommaso, come già chiarisce l’evangelista, è chiamato Δίδυμος, ossia significa “doppio” o anche “gemello”.

 

«Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso» (Gv 20,26). L’indicazione temporale per il IV Vangelo è importante, perché è la ripresentazione del giorno della resurrezione, l’ottavo giorno dopo il riposo del settimo, (immagine della discesa agli inferi) e della nuova e definitiva creazione simboleggiata dal soffio del Risorto sui discepoli presenti: «ἐνεφύσησεν» (Gv 20,22). Non a caso il verbo utilizzato da Giovanni è lo stesso che troviamo in Gen 2,7 (נשמה, neshamà) riguardante la creazione dell’uomo: «La sera di Pasqua, Gesù risorto, apparendo ai discepoli nel Cenacolo, rinnova su di loro la stessa azione che Dio creatore aveva compiuto su Adamo. Dio aveva “soffiato” sul corpo dell’uomo per dargli vita. Gesù “soffia” sui discepoli e dice loro: “Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 22). Il soffio umano di Gesù serve così all’attuazione di un’opera divina più meravigliosa ancora di quella iniziale. Non si tratta soltanto di creare un uomo vivente, come nella prima creazione, ma d’introdurre gli uomini nella vita divina» [2].

 

Il Risorto appare «in mezzo» (Gv 20,26) alla sua comunità come unico centro di attrazione e pone a Tommaso i suoi segni, non piaghe perché esse sono guarite pur restandone le cicatrici, ossia la memoria della croce, ma superata dalla sconfitta della morte: «Il Signore della vita, morto, vivo trionfa» [3]. Appare non come un fantasma, che secondo la tradizione giudaica si dissolveva davanti al tentativo di toccarlo, ma con un genere di realtà trasformata in quanto «l’Uomo Gesù appartiene ora proprio anche con lo stesso suo corpo totalmente alla sfera del divino e dell’eterno […]. Il corpo trasformato di Cristo è anche il luogo in cui gli uomini entrano nella comunione con Dio e tra loro e così possono vivere definitivamente nella pienezza della vita indistruttibile» [4]. La richiesta del discepolo perciò è esaudita, non privatamente, ma all’interno della stessa comunità credente che rinnova il dono della pace come pienezza della grazia messianica: «Pace a voi» (Gv 20,26).

Ciò conduce il discepolo ad una vera e propria professione di fede: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Il doppio (Δίδυμος) che ha dato origine al dubbio, ora aderisce con una confessione matura e «pronuncia la più alta confessione cristologica dei Vangeli […] un’inclusione con le parole del prologo: “La Parola era Dio”» [5], riconoscendolo come Adonai.

Egli è dunque il modello non di incredulità, ma di una esperienza adulta di fede tanto che il Risorto lo invita a «non essere incredulo, ma credente» (Gv 20,27) o meglio, a «γίνου», “divenire” credente attraverso un dinamismo capace di relazione e di fiducia; «La via per fugare ogni dubbio non è data né da argomentazioni, né da terapie, né da guida amorevole e affettuosa dell’anima, bensì della sconvolgente esperienza della presenza del Dio personale in Gesù» [6].

 

Tommaso, se può essere rappresentato come lo specchio del Risorto che con la sua fede riflette il volto di Gesù (alter Christus), è anche possibile vederlo come il gemello di ogni cristiano (alter ego) che ha incontrato il Signore. Ma, nel caso della teologia giovannea, è soprattutto il gemello dello stesso libro che stiamo meditando: il Vangelo è il gemello di Tommaso che serve da testimonianza per garantire la verità degli eventi (mediazione apostolica); e chi crede in esso ottiene la beatitudine: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,28).

 

Una fede, quindi, che non necessita di toccare fisicamente, ma che è donata e trova conferma nei segni: «Giovanni ha avuto nei confronti dei segni un atteggiamento positivo (Gesù stesso li ha programmati, a partire da Cana: 2,11; in funzione della fede, come fanno capire i discorsi di addio: cfr 15,22-25); ma il segno deve essere ricevuto, non preteso; deve essere accettato secondo il piano di Dio, non secondo le proprie attese» [7].

L’episodio non termina narrativamente ma l’autore interviene chiudendo il testo: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31). Giovanni conclude il suo vangelo richiamando l’inizio del vangelo più antico, che fu base di Matteo e di Luca per i loro scritti: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1).

Ad esso aggiunge come il credere non sia il fine ultimo, ma la trasmissione della vita divina che comunica l’esistenza di Dio nel nome di Gesù Cristo il Risorto; «Gesù annuncia dunque una felicità possibile in questo mondo che rende duratura e ben motivata ogni altra forma di felicità […]. Perché questa felicità possa diffondersi tra gli uomini, perché si diffonda tra loro la fede che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, così che chi crede possa avere la vita nel Nome di lui, è stato scritto il Vangelo di Giovanni, sono stati raccolti i “segni” compiuti da Gesù» [8].

 

«Cristo avrebbe potuto risanare le ferite della sua carne al punto da non fare apparire neppure le impronte delle cicatrici. Aveva il potere di non mantenere nelle sue membra il segno dei chiodi, di non mantenere la ferita del costato. Ma permise che quelle cicatrici rimanessero nella carne perché fosse tolta dai cuori degli uomini la ferita della miscredenza e perché i segni delle ferite lasciassero l’impronta nell’animo» [9].

 

[1] Maria Faustina Kowalska, Diario, Q.II, LEV, Città del Vaticano 2004, 440-441.

[2] Giovanni Paolo II, Udienza generale del mercoledì, 10 gennaio 1990.

[3] Wippone di Borgogna, «Victimae paschali laudes», del 1039.

[4] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla resurrezione, LEV, Città del Vaticano, 2011, 303-304.

[5] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2001, 491.

[6] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2014, 531-532.

[7] G. Ghiberti, «Le esperienze pasquali (Gv 20-21)», in Opera giovannea, G. Ghiberti e coll. (a cura di), Elledici, Torino 2003, 312.

[8] L. Pacomio, Gesù. 37 anni che cambiarono la storia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 20004, 265.

[9] Agostino, Serm., 375/C, 1-2, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXXIV («Discorsi [341-400]: su argomenti vari», tr. it. V. Paronetto – A.M. Quartiroli), NBA – Città Nuova, Roma 1989, 125.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)