Articoli / Blog | 18 Luglio 2020

Le interviste del blog – Chiara Beninati: il miracolo di mio marito Jaime

Oggi pomeriggio alle 18.30, nella loro parrocchia di Santa Rosalia a Palermo, ci sarà una Messa di Ringraziamento per la felice conclusione della storia di Jaime Mba Obono, il cittadino italiano di 49 anni che il gennaio scorso era in Guinea Equatoriale e che, malato di Covid-19, dopo mille peripezie miracolose raccontate dai giornali era stato portato in Italia in condizioni gravissime.
La foto di copertina di questo post – che ritrae Jaime, con Chiara e il figlio Riccardo – è del giorno delle dimissioni dall’ospedale di Sciacca, avvenute Mercoledì 8 luglio. In vista della giornata di ringraziamento di oggi ho intervistato la moglie.
Chiara Beninati ha già raccontato mille volte i mille risvolti avventurosi della vicenda, ma oggi le chiedo di entrare di più in quelli spirituali

Quando mercoledì scorso siamo andati a trovare il nostro medico curante, quella che ha seguito dall’Italia la vicenda di Jaime fin dagli inizi, perché facesse la visita conclusiva, ha esclamato: qui c’è stato necessariamente l’intervento divino. Ci ricordavamo in particolare della prima notte trascorsa da mio marito all’ospedale Cervello, quando tutti pensavano sarebbe morto.
Il medico diceva: è innegabile che la scienza abbia lavorato molto ma c’erano tutti i presupposti per celebrare un funerale invece che assistere a una guarigione.

Se lei, Chiara, non avesse avuto Fede, avrebbe fatto quello che ha fatto?
Da sempre, ho pregato per il bene di mio marito e la sua salute fisica e spirituale. In più, da quando ho saputo che si era ammalato di Coronavirus in Guinea, avevo detto a Dio: Signoruzzo, tu qui ci devi mettere non solo le due mani ma tutto te stesso. Perché conoscevo le difficoltà a livello sanitario della Guinea Equatoriale

Si è sentita aiutata dalla Madonna in modo particolare?
Dalla Madonna sicuramente. Io le sono molto devota. Le ho detto: Tu sei la Mamma di tutti e mio marito è tuo figlio e tu devi averne particolare cura. In tutto il percorso che abbiamo fatto mi sono sempre sentita un po’ sollevata da terra, come se ci fosse qualcuno che mi stava guidando: sto pensando proprio ai numeri di telefono, ai contatti con persone verso le quali mai avrei potuto immaginare di sperare di poter arrivare. Ho sentito la presenza di Dio attraverso l’affetto di persone che non conoscevo. Che mi scrivevano su Facebook o che arrivavano a me attraverso contatti insperati. Le parrocchie limitrofe alla nostra per esempio – oltre alla mia, naturalmente – hanno organizzato serate di veglia, di preghiera, per Jaime. Mia sorella e mia cognata frequentano la Comunità dei Cappuccini e lì il giovedì facevano l’adorazione eucaristica dedicata a mio marito. Oppure tante persone che mi dicevano: stiamo pregando tutti il Rosario per tuo marito, oppure le mie amiche dalla Spagna che mi scrivevano “faccio il corso di ritiro e lo offro per tuo marito”.
Io mi sono sentita enormemente confortata dalla preghiera e mi dicevo che quand’anche lui non ce l’avesse fatta, anche nel caso lui fosse morto, io avrei dovuto dire di non aver alcun rimpianto, di aver fatto veramente tutto quello che potevo e che poi avrei dovuto ringraziare per tutto quello che questa situazione aveva smosso. Tanta preghiera, tanto affetto, tanto coinvolgimento nella sofferenza dell’altro senza un perché. Una signora dal Lussenburgo mi scrisse: non ti conosco ma ti sono vicina. In piena notte ricevevo messaggi di solidarietà: ti abbraccio con affetto, cerca di dormire

Le posso dire che noi sentivamo che lei era sicura che sarebbe accaduto qualcosa di positivo…
Per me, forse il momento della disperazione maggiore prima di reagire, è stato quando mi hanno detto che aveva bisogno urgente della dialisi ma sapevo che in Guinea questa terapia non era possibile. Ero a casa mia a Palermo e mia nipote, che era presente, mi ha detto che sono rimasta a piangere per un’ora ai piedi del mio letto, disperata, e stavo pregando. E poi mia nipote mi ha detto: zia, tu, d’un tratto, sei cambiata. Hai smesso di piangere, hai alzato la testa, sei andata in cucina, hai acceso il computer e hai cominciato ti-tic ti-tic e una telefonata, pi-pi-pi e un’altra telefonata. Avevi il volto completamente stravolto. Io posso dire che ero arrivata al punto per cui, o uno molla tutto e ti rassegni al finale nefasto; oppure dici: lo devo fare, non c’è altro. Devo mettermi nella condizione di non poter rimpiangere di non aver detto, di non aver fatto… io ho chiamato tutti gli angeli del mondo, ho pregato San Josemaría e mi sono affidata a tutte le persone buone, cattoliche e non cattoliche che ci sono state vicino e che hanno dimostrato veramente affetto incondizionato. E adesso non posso che ringraziare. La salvezza di Jaime è stato un grande lavoro di squadra dove tutti quelli che si sono sentiti coinvolti, fosse per un semplice messaggio d’affetto per portarmi una fetta di torta o per un articolo su un giornale o i medici che mi davano indicazioni o per smuovere i ministeri o per la raccolta di fondi (che poi sono stati restituiti), hanno dato il loro meglio. Ognuno ha fatto il suo. Se uno solo fosse mancato non saremmo arrivati al risultato che è arrivato. Ai giornali e ai blog come il suo io devo tanto: hanno fatto sentire la mia voce dove io mai sarei potuta arrivare