Blog | 29 Aprile 2020

Fulvio De Giorgi – CEI: riapertura delle chiese! La fase 2 della Chiesa italiana?

Un vescovo amico mi segnala questo interessante articolo

Il comunicato della CEI del 26 aprile 2020 è veramente strano per la forma e per l’orientamento che esprime.

Per la forma: si è ripreso un tono perentorio e d’imperio (come nell’era ruiniana, che sembrava ormai archiviata): «la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale». Diciamo subito che qui si tratta, innanzi tutto, di una questione interna alla Chiesa. Evidentemente ci si vuole allontanare da papa Francesco, forzando palesemente le sue osservazioni del 17 aprile sulla Chiesa “viralizzata”. E infatti Francesco, nell’introduzione alla messa quotidiana in S. Marta, il 28 aprile, ha chiaramente mostrato una diversa sensibilità, pregando: «In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni». Dire poi – come fa il comunicato – che tutto quello che tanti preti e laici e comunità religiose e chiese domestiche familiari hanno fatto finora non è «azione pastorale» appare veramente strano.

La CEI è, certo, comunque libera di andare sulla linea pastorale che vuole, assumendosene la responsabilità. Mi appare, tuttavia, strano che condivida le posizioni religiosamente strumentali di ben noti politici cattolici-non-cristiani. E mi interrogo sul senso storico di questa clamorosa svolta anti-Bergoglio della Chiesa italiana: rappresenta un incidente limitato (sono ‘saltati i nervi’)? Oppure l’ala tradizionalista ha conquistato la maggioranza della CEI? Gli sviluppi ci faranno capire di più. Comunque questo linguaggio così poco conciliare, così poco roncalliano-montiniano, così non-bergogliano, che invece di unire la comunità nazionale apre uno scontro Stato-Chiesa, che, invece di calmare gli animi e tranquillizzare, grida e chiama allo scontro, appare un fatto nuovo, sul piano della storia ecclesiale recente (e in fondo anche su un più lungo periodo) ed una inversione ad U rispetto all’atteggiamento costruttivo e collaborativo fin qui assunto. Paradossalmente, gli effetti pastorali interni, che esso può produrre, si rafforzerebbero nel caso che la richiesta avanzata sia accolta: le posizioni più chiuse, oltranziste e clericali canterebbero vittoria e segnerebbero un forte arretramento rispetto a quella Chiesa della misericordia e dell’umiltà che è la divisa dell’attuale pontificato. Insomma, sul piano storico, si tratta di un momento non secondario.

Per l’orientamento: si afferma «di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto». Il vescovo di Ascoli Piceno – in un intervento dalla forma così violenta e insieme superficiale, che si stenta a credere venga da un vescovo – grida alla dittatura. La logica conseguenza è quella di invitare all’obiezione di coscienza e alla disobbedienza civile: la prossima domenica tutti in massa a messa! Veramente strano che si sostenga un orientamento così palesemente imprudente. Prudenza e temperanza sono virtù cardinali, insieme a fortezza e giustizia: non è alta teologia, è catechismo. Giustizia verso gli anziani che rischiano la vita, fortezza nello stare a casa e resistere, temperanza verso scatti di nervi e impazienze, prudenza per un esercizio sereno di analisi razionale della realtà.

I vescovi hanno un comitato scientifico diverso e migliore rispetto a quello del governo? Non credo. E allora perché – in un ambito in cui ci si orienta a fatica, con approssimazioni e tentativi, davanti ad una malattia nuova e sconosciuta – si propone un orientamento netto e perentorio e si denuncia come un vulnus all’esercizio della libertà di culto quello che al massimo potrebbe essere un eccesso di cautela? Un eccesso che, eventualmente, potrebbe essere corretto ragionando e dialogando, dandosi il tempo che serve per vagliare, insieme, i rischi eventuali e non cercando di forzare le tappe.

Qui non c’è solo una caduta di stile, qui c’è un atteggiamento incomprensibile che sembrerebbe irresponsabile. Mentre cautela e responsabilità sono dovute, quanto meno per rispetto delle tante vittime morte (compresi i presbiteri scomparsi per aver contratto il morbo). Ripeto: nel comunicato non si esprime un rammarico per un deficit di dialogo, non si manifestano le ansie di pastori, le preoccupazioni spirituali della comunità cattolica: si indica con nettezza un orientamento. Una ferma richiesta – anche espressa con fiera dignità – di un tavolo di dialogo del governo con tutte le maggiori comunità religiose italiane sarebbe stata comprensibile e altamente apprezzabile. Ma pretendere, alzando la voce, un orientamento d’azione dal governo è un rispondere a un (eventuale) errore con un errore maggiore.

Penso che andrebbe ricordato quanto afferma il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, pubblicato durante il pontificato di Giovanni Paolo II: «Le autorità chiamate a prendere decisioni per fronteggiare rischi sanitari ed ambientali talvolta si trovano di fronte a situazioni nelle quali i dati scientifici disponibili sono contraddittori oppure quantitativamente scarsi: può essere opportuna allora una valutazione ispirata dal “principio di precauzione”, che non comporta una regola da applicare, bensì un orientamento volto a gestire situazioni di incertezza. Esso manifesta l’esigenza di una decisione provvisoria e modificabile in base a nuove conoscenze che vengano eventualmente raggiunte. La decisione deve essere proporzionata rispetto a provvedimenti già in atto per altri rischi. Le politiche cautelative, basate sul principio di precauzione, richiedono che le decisioni siano basate su un confronto tra rischi e benefici ipotizzabili per ogni possibile scelta alternativa, ivi compresa la decisione di non intervenire. All’approccio precauzionale è connessa l’esigenza di promuovere ogni sforzo per acquisire conoscenze più approfondite, pur nella consapevolezza che la scienza non può raggiungere rapidamente conclusioni circa l’assenza di rischi. Le circostanze di incertezza e provvisorietà rendono particolarmente importante la trasparenza nel processo decisionale» (n. 469).

Non credo a coloro che dicono che l’atteggiamento della Chiesa sarebbe causato dai mancati introiti delle offerte delle messe domenicali, che per molte parrocchie sono la principale entrata economica. Ma allora perché il comunicato della CEI smentisce così platealmente e nettamente il “principio di precauzione”, previsto dalla dottrina sociale della Chiesa? Il comunicato dice che la fede «deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale». E questa è certo un’esigenza legittima. Ma la Chiesa ha altri momenti di preghiera comune – la liturgia delle ore – e soprattutto ha la Parola: “luoghi” importanti di un culto che può svolgersi, anche comunitariamente (per esempio via web), senza smentire le precauzioni anticontagio: già molti cristiani lo fanno, perché non rafforzare questa centralità esistenziale della Parola? E non nutre la fede comunitaria un sacrificio per il bene comune? Un sacrificio, cioè, per non aumentare i pericoli di chi corre più rischi (anziani, malati, personale sanitario)? Un sacrificio che accetta il digiuno del pane eucaristico per condividere con tutti il pane amaro dell’insicurezza? Non è, quella che anche i cattolici stanno vivendo, lavandosi spesso le mani, pure in casa, non è, dicevo, una forma di comunitaria lavanda dei piedi per amore? Veramente i vescovi pensano che tutto questo non sia libertà di culto spirituale?

“Quarantena” richiama momenti di religiosa astinenza: i quarant’anni dell’esodo del Popolo di Dio nel deserto e i quaranta giorni del ritiro di Gesù, anch’egli nel deserto. Di per sé un’emergenza esistenziale così globale potrebbe essere un momento favorevole: un’occasione veramente unica di “risveglio” religioso, personale e comunitario. Sono così sicuri i vescovi che l’orientamento che propongono, con ostentata sicurezza, sia il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato, come nel fariseismo ritualistico e rubricistico?

Infine (altra stranezza) il comunicato CEI richiama a corretti rapporti Stato-Chiesa (proprio nel momento in cui sferra un attacco sproporzionato al Potere civile): «Alla Presidenza del Consiglio e al Comitato tecnico-scientifico si richiama il dovere di distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia». Forse il governo della Repubblica Italiana ha inteso ledere, direttamente o indirettamente, l’autonomia della Chiesa? Veramente si pensa questo?

Siglando, nel 1984, la revisione del Concordato (revisione tuttora in vigore) lo Stato italiano e la Chiesa cattolica si sono impegnati «alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese» e lo hanno fatto «avendo presenti, da parte della Repubblica Italiana, i principi sanciti dalla sua Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II circa la libertà politica e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica». Nella circostanza della pandemia, dunque, il governo si è mosso nell’ambito degli articoli 16 e 32 della Costituzione. E la Chiesa finora si era attenuta a quanto dice la dichiarazione del Concilio sulla libertà religiosa: «Il diritto alla libertà in materia religiosa viene esercitato nella società umana, di conseguenza il suo esercizio è regolato da alcune norme. Nell’esercizio di tutte le libertà si deve osservare il principio morale della responsabilità personale e sociale: nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali in virtù della legge morale sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune» (Dignitatis humanae, n. 7). Ciò significa – mi pare – che se i vescovi decidono di chiedere l’immediata possibilità delle messe, in nome della libertà religiosa, e ottengono tale apertura, se poi anche una sola persona perde la vita (il diritto alla vita è o non è un diritto primario?) a causa di un contagio contratto durante una messa, allora la decisione di chiedere l’immediata apertura delle messe non osservava la legge morale: era immorale. È veramente questo che vogliono e chiedono i vescovi italiani?

Ma infine, considerando insieme le “stranezze” di forma e di contenuto, sembra configurarsi un’ipotesi storica precisa: una fase 2 della pastorale della Chiesa italiana, nel pontificato di Bergoglio.

Probabilmente, interpretando alcune recenti prese di posizione del papa (per esempio la non concessione immediata della possibilità di ordinazione presbiterale per laici di provata fede, viri probati, dopo il Sinodo sull’Amazzonia) come un ripiegamento e una retromarcia pastorale, hanno deciso di passare all’azione e di riprendere quel modello neotemporalistico e clericale del periodo ruiniano, che evidentemente sentivano, con nostalgia, come proprio. L’emergenza pastorale (che già aveva determinato prese di posizione liturgiche dal vago timbro preconciliare) ha dato perciò l’occasione ad una Chiesa italiana, che in vari settori faceva e fa fatica a seguire Bergoglio, per tentare un rovesciamento di prospettive. Mentre si notano accenti diversi e più vicini al papa nei vescovi di Pinerolo, di Modena, di Albano Laziale, vedremo se questo è un tentativo di pochi – sostanzialmente un “colpo di mano” – destinato ad esaurirsi presto o corrisponde ad un indirizzo maggioritario dell’episcopato italiano.

Certamente il comunicato della CEI, nello stile e nei contenuti, esprime un’idea di Chiesa che è l’esatto contrario di quanto un vescovo italiano – ai suoi tempi “in minoranza” – come don Tonino Bello (così “rivalutato” invece da papa Bergoglio) aveva auspicato: «Una Chiesa povera, semplice, mite. Che sperimenta il travaglio umanissimo della perplessità. Che condivide con i comuni mortali la più lancinante delle loro sofferenze: quella della insicurezza. Una Chiesa sicura solo del suo Signore, e, per il resto, debole. Ma non per tattica, bensì per programma, per scelta, per convinzione. Non una Chiesa arrogante, che ricompatta la gente, che vuole rivincite, che attende il turno per le sue rivalse temporali, che fa ostentazioni muscolari col cipiglio dei culturisti. Ma una Chiesa disarmata, che si fa “compagna” del mondo. Che mangia il pane amaro del mondo. Che nella piazza del mondo non chiede spazi propri per potersi collocare. Non chiede aree per la sua visibilità compatta e minacciosa, così come avviene per i tifosi di calcio quando vanno in trasferta, a cui la città ospitante riserva un ampio settore dello stadio. Una Chiesa che, pur cosciente di essere il sale della terra, non pretende una grande saliera per le sue concentrazioni o per l’esibizione delle sue raffinatezze. Ma una Chiesa che condivide la storia del mondo. Che sa convivere con la complessità. Che lava i piedi al mondo senza chiedergli nulla in contraccambio, neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di andare alla messa la domenica».

Fulvio De Giorgi è Professore di Storia della pedagogia all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Tratto da Treccani