Blog / Lettere / Scritti segnalati dal blog | 12 Aprile 2020

La voce e il tempo – Pregare per amare (di Nicolò Terminio)

Nicolo, che scrive sul settimanale La voce e il tempodella diocesi di Torino, desidera condividere con il blog questo articolo

Quando sono stato invitato a scrivere un pezzo su questo giornale mi è stato chiesto di dire qualcosa sull’educazione a una fede adulta. Nel frattempo siamo stati tutti investiti da una pandemia che ha scombussolato tutti i nostri abituali punti di riferimento aggiungendo anche quote di sofferenza e solitudine che hanno confrontato alcuni di noi con un reale senza senso. Ho pensato di intrecciare il tema della fede con il tempo particolare che stiamo attraversando: il mio obiettivo è quello di mettere in luce un passaggio interiore che possiamo compiere grazie all’esperienza della preghiera.

Dal mio punto di vista, che è quello di un clinico che pratica la psicoanalisi, l’ostacolo che non permette di accedere a una fede adulta è costituito da un movimento soggettivo che potremmo identificare con il termine “proiezione”. Quando preghiamo possiamo incorrere nel rischio di sovrapporre a Dio la figura di un Altro idealizzato. Se proiettiamo su Dio la figura di un Altro idealizzato rischiamo di perdere l’occasione di incontrare Dio perché cerchiamo in Lui non l’alterità di un mistero che interroga la nostra esistenza chiamandoci al discernimento e alla realizzazione della nostra vocazione, ma facciamo interpretare a Dio il ruolo di un Altro riparatore. Dio sarebbe così una correzione innanzitutto delle figure genitoriali, ma anche di tutte quelle figure umane che rappresentano dei punti di riferimento ideale, che però essendo umane non riescono mai del tutto a incarnare in modo ideale. Ricercare in Dio la figura di un Altro ideale è dunque il rischio nevrotico che abita in ciascuno di noi, soprattutto nei momenti di smarrimento e di sofferenza. In questi momenti vorremmo sentirci protetti e accuditi, sollevati e rassicurati da un Altro che ci toglie o l’eccesso di dolore o l’eccesso di non-senso che stiamo vivendo.

Nella nevrosi, che è il vero ostacolo per pregare e avere fede, l’Altro non dovrebbe essere intaccato dalla mancanza e allo stesso tempo dovrebbe metterci al riparo dal confronto con le mancanze della vita. Ma se pensiamo per un attimo alla notte del Getsemani comprenderemo subito che l’esperienza della preghiera è il rovescio della nevrosi perché ci confronta con il silenzio di Dio senza essere più afflitti dalla mancanza. Nella preghiera che sa accogliere il silenzio di Dio il soggetto non idealizza più l’Altro e inizia ad amarlo: non si tratta più di pregare per sentirsi protetti e amati, ma di pregare per amare. Nel silenzio della preghiera il “chiedere” si trasforma in un “darsi”. Solo accogliendo la mancanza si può comprendere che l’amore è un dono che si riceve donandolo. La preghiera può trasformare la mancanza (la croce o la vulnerabilità umana) nel perno della propria apertura al mondo e alla relazione con gli altri. Possiamo riscoprirlo soprattutto in questo periodo dove il trauma collettivo della mancanza ci dà la possibilità di sentirci tutti più fratelli nell’esposizione al reale della vita e della morte.