Alessandra Bialetti / Blog | 16 Ottobre 2019

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Guariti, purificati, salvati

2Re 5, 14-17; 2Tim 2,8-13; Lc 17, 11-19

“La parola di Dio non è incatenata”, così ci ricorda la seconda lettura della domenica. Pare uno scherzo anche questa volta. In carcere di non incatenato non c’è niente, tutto è legato, compresso, imprigionato, privo di libertà. Tutto sotto condizione. Quindi? Bisogna scavare, trovare un senso. Nelle vite di chi soggiogato lo è per davvero, nelle nostre vite che, sebbene materialmente libere, soffrono di altre catene.

Nella cappellina siamo pochi, visi noti e meno noti. Non è mai un caso. Se si salta una messa è come se si spezzasse un filo, come se un discorso rimanesse incompiuto. Quando manca il solito cappellano, ciò che viene meno è il legame che si è costruito, l’unione che si è creata attorno alla condivisione di una Parola che si fa carne, che prende consistenza, che chiama a mettersi in gioco. La cappellina come la Samaria visitata da Gesù, terra contrastata, rifugio dei peggiori, di una razza da dimenticare. Eppure percorsa dal Cristo che non si ferma davanti ai muri e alle barriere, davanti ai giudizi. Nel villaggio del brano evangelico si parla di dieci lebbrosi. Strano. In genere sono confinati fuori dal centro abitato, esiliati, dimenticati, da non avvicinare perché impuri. Non ti fermi, giocoliere, ti rendi presente nella nostra Samaria e nella nostra malattia. Passi, sfiori, soffermi lo sguardo e soprattutto non ti spaventi. Il villaggio in genere è il luogo dove il Cristo non viene mai capito, ricorda il cappellano. Dove regnano le regole, dove per essere accettato devi rimanere nella norma, nelle leggi codificate. Invece il tuo regno, Gesù, è la strada, l’itinerario, il cammino dove nessuno è escluso, dove tutti ti possono avvicinare.

Oggi nel villaggio-carcere avviene l’incontro, la possibilità di essere purificati. La domanda è per tutti: “Nella vostra vita c’è stata una guarigione?”. Silenzio. Sembra quasi una battuta ironica. In carcere la guarigione? Poi, S., M., V., R., mano a mano riconoscono i segni di una malattia che è stata sanata. “La droga, 20-30 anni sulla strada, una vita divorata e poi la rinascita, essere puliti dopo tanto tempo ma trovarsi poi a scontare le conseguenze di quel male”. Non basta, il Vangelo inizia a penetrare più in profondità. M.: “Mi sono accorto di ciò che stavo facendo, ho preso consapevolezza, ho riflettuto sulla mia vita e ho capito che la strada era sbagliata. Ora pago ma ho capito il male fatto a me e agli altri”. Ecco. Il Vangelo parla di purificazione e non semplicemente di guarigione. Purificazione come possibilità di una salvezza ancora più profonda che va a sradicare il male nel profondo, che dà la possibilità di pulire e sanare non tanto il fisico quanto la morte morale, spirituale, una morte cementata nei confronti della quale non è mai pronunciata una parola diversa. La purificazione è completa quando ci accorgiamo che qualcosa in noi è cambiato, che un incontro, l’Incontro, ha trasformato la vita, che una parola si è fatta sguardo, possibilità, gratuità. Si può guarire ma non essere purificati, non essere pronti a rileggere la propria esistenza, a cambiare rotta, a lavorare sulle radici delle nostre scelte sbagliate. Si può guarire dalla lebbra fisica ma non tornare indietro a quello sguardo per lodare il miracolo avvenuto in noi. Si può rimanere malati sebbene le piaghe siano state rimarginate. Ma il cuore, la mente, la volontà rimangono ferite. Solo un lebbroso torna indietro. Perché vuole ringraziare per i suoi occhi finalmente aperti, per quel tocco con cui non è mai stato sfiorato, per quelle parole di accoglienza mai sentite pronunciare sulla sua malattia. I detenuti oggi comprendono che la salvezza non è quella fisica, seppur importante, ma accorgersi di un passaggio, di qualcuno che dia senso anche a quella detenzione come occasione di ricominciare, di chiudere i conti con la giustizia, di ricostruire gli affetti, i legami. Così avviene il passaggio dalla guarigione alla purificazione, alla salvezza. Anche se ci sono anni da scontare, anche se il fine pena è lontano, anche se la nostra vita fuori scorre sui binari di una normalità che giustifica e rassicura ma è anch’essa povera della volontà di cambiare, di trasformare le proprie scelte. Guarire è espiare delle colpe, essere salvati è aver compreso, essersi fatti incontrare, stravolgere, mettere in discussione.

Una voce fuori dal coro ma estremamente lucida e autentica. D.: “Non ce la raccontiamo, una volta usciti da qui torneremo a fare le stesse cose perché in fondo ci piacciono, sono comode, altro che guarigione”. La sincerità di D. fa male. Ma come, e allora tutto il lavoro che tentiamo di fare qua dentro? Il recupero, la riabilitazione, un futuro diverso? Lo sconforto: nulla ha senso, perché darsi da fare? Invece no. Ecco la breccia del giocoliere: l’estrema, cruda consapevolezza di D. è la feritoia attraverso la quale può veramente avviarsi un processo di salvezza. Il tenere alta la guardia sulla vita comoda, senza fatica, sui facili reati che danno un’immediata gratificazione è la via per diventare coscienti del pericolo che si corre, di figli a cui non puoi insegnare la delinquenza, di famiglie da recuperare, di paternità da ricostruire. D. rimane stupito dalle parole di stima e rispetto del cappellano: “Hai una bella intelligenza, sei profondo, non te l’ha mai detto nessuno?”. Nessuno. D. è senza parole, lui quel samaritano irregolare, sbagliato, quel lebbroso confinato fuori dal villaggio dei normali, riceve una lode, un complimento, un motivo per mettere in guardia i suoi figli dal pericolo che corrono e dalla strada che da padre ha intrapreso. Questa è apertura alla salvezza. Non ancora conclusa: è in atto il processo di guarigione, lo scendere in profondità, il riflettere sul proprio cammino, sul pericolo di tornare sulla strada. Che coraggio D. a rivelare il tuo pensiero quando tutti noi ci sentiamo buoni e giustificati perché non siamo dietro le sbarre, un’autenticità che mette a nudo i tanti compromessi che pensiamo ci rendano la vita facile ma ci imprigionano senza nemmeno accorgercene. La guarigione “normalizza”. Rimette in regola e ti fa tornare nel villaggio a pieno diritto, nessuno ti scanserà. Ma essere salvati è più che essere sanati, significa non tornare più nel lebbrosario, dare un senso diverso, non cadere nella paura di vivere veramente, di compromettersi nel bene e per il bene. Guarire è semplicemente andare via senza tornare a ringraziare, senza lasciarsi penetrare dalla forza dell’incontro, dalla presenza di qualcuno che ha visto il bene in noi e che dice bene di noi nonostante tutto e che vuole bonificare alla radice un terreno paludoso e stagnante.

L. rincara la dose: “Ma per noi marchiati a fuoco che futuro, che possibilità?”. Il problema non è la possibilità esterna che il mondo può dare, e sulla quale bisogna comunque lavorare, ma la possibilità interiore di non guardare solo il marchio, l’errore, il negativo. Se ci identifichiamo nello sbaglio saremo sbaglio. Quanto quel sigillo di “delinquenza” (tra virgolette perché ognuno ha le sue) in fondo è un vestito comodo a cui non vogliamo rinunciare per non lasciarci sanare alla radice?

Gesù, spogliaci da questa lebbra, profonda, disperante. La peggior malattia è fingere con se stessi.

 

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.