Le Lettere di Alessandra Bialetti – Cristiani rassegnati?
Lucio Dalla e la sua canzone, “La sera dei miracoli”, che recita così: “È la notte dei miracoli fai attenzione qualcuno nei vicoli di Roma ha scritto una canzone”. E’ arrivata la sera di una giornata calda in cui tanti, turisti o meno, si riversano per le strade della Capitale in cerca di un refrigerio che non si trova e di un divertimento, o stordimento, che cacci via le preoccupazioni e le tristezze. Trastevere, nota zona della tradizione romana, si riempie di gente, è un brulicare ovunque, artisti di strada, capannelli di persone che chiacchierano, ragazzi con le fedeli birre in mano, apericene per dischiudere una serata diversa.
Colgo una conversazione che mi rimane in mente tutta la sera, parole che rimbombano quasi fossi in un luogo deserto: tre uomini ancora lontani da un’età avanzata ma nemmeno vicini alla giovinezza sono riuniti sulle scale che portano al lungotevere. Uno di loro, arrabbiato, anzi inquieto, in ossequio alla lingua italiana anche se ora siamo tutti arrabbiati come cani, chiede agli altri in un romanesco che non va per il sottile e che non riporto nella sua schiettezza: “ma dove sono finite le brave persone, che fine hanno fatto, dove sono?”. Mi giro e colgo un viso disilluso. E mi chiedo come sia il mio, il nostro. Quale espressione abiti il nostro volto, quale fatica abiti i nostri passi, quale delusione riempia le nostre giornate che cerchiamo di concludere con una passeggiata in una Roma formicolante, simbolo di tante città in cerca di qualcosa di diverso.
Già, dove sono finite le brave persone? Quelle con il viso pulito, aperto, trasparente, non conniventi con il male, con le promesse di apertura camuffate, quelle che, fin da bambini, sognavano di cambiare il mondo e ora se lo ritrovano tra le mani sfasciato e senza orizzonti? Siamo noi, tanti di noi, forse non tutti, ma ci siamo. E’ che siamo un pò nascosti, ci siamo intristiti, ingrigiti e ne abbiamo anche tutte le ragioni quando ci troviamo davanti alla violazione dei diritti fondamentali o alla solitudine dilagante di tante famiglie ridotte in povertà. Ma non ci possiamo permettere di finire come i camaleonti, camuffati tra il fogliame per non farci vedere, per salvare la pelle, per non uscire allo scoperto. Perché dobbiamo riscoprire dentro quel qualcosa che ci faccia alzare alta la voce, che non ci metta in ginocchio, che non ci faccia rassegnare. Non dico alzare il pugno per non cadere in derive politicizzate ma il senso ci sta tutto.
E faccio risuonare in me la Scrittura nella lettera di Pietro: “siate pronti SEMPRE a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”. Eccoci. Non possiamo essere cristiani rassegnati. Le due parole insieme non possono e non devono coesistere, non possiamo e non dobbiamo rendere vano quel salire sulla croce che ha aperto una strada di speranza per tutti (anche per i meno meritevoli secondo le categorie umane). Allora quella frase, colta per caso sulle scale del lungotevere, assume una forza ancora più dirompente. Dobbiamo essere noi, cristiani forti di un Cristo che ha aperto brecce e non costruito muri, quelle persone di cui si è persa traccia e che fanno “arrabbiare” un cinquantenne che si chiede dove stiamo andando a finire e non trova risposta negli occhi dei suoi amici. Il cristiano arrendevole è un ossimoro che non si può sentire, è una “lucida pazzia”. Può essere scoraggiato, triste, a volte anche ripiegato ma poi deve essere sempre pronto a rispondere della speranza che lo abita, del bene che non si vede ma esiste, della forza di cambiare il mondo con qualcosa che non sia la violenza, di dare spiegazione del perché non possa esistere la connivenza con il male, di denunciare sempre e comunque quando un essere umano non è considerato e trattato come tale, di non poter tacere quella potenza che l’Uomo più disarmato della storia ha messo in campo. Se abbiamo una speranza come esseri umani e ancor più come credenti è ora che la tiriamo fuori. La nostra piccola goccia è necessaria quanto un mare intero perché quell’uomo in una Roma accaldata possa trovare la risposta, tornare a crederci e quindi a spargerla.
Sì, esistono ancora persone diverse: non ingrigite, non in ginocchio, non rinunciatarie, non passive. Non si può essere cristiani all’acqua di rose se abbiamo dentro la speranza e non possiamo dimenticarci di averla. Siamo noi voce di chi non la ha, orecchie che sentono parole di odio e mettono invece in circolo parole di bene, bocche che non pronunciano il male ma parole di conforto. Ma non avverrà magicamente. Avverrà quando la speranza che è in noi verrà “urlata”, verrà donata a chi non la vede più, a chi si chiude in se stesso dichiarando fallimento. Fallimento è non rendere ragione di una fede che ci spinge a credere che tutto sia possibile con armi che non sono quelle “convenzionali” cui ci stanno abituando ma due mani inchiodate al legno dell’infamia più grande che non hanno mai smesso di essere aperte e di accarezzare la sfiducia dell’uomo.
Sta a noi: cristiani rassegnati o cristiani di speranza? Torneremo presto su quelle scale di Roma a proclamare con la nostra piccola vita che il bene c’è e fa rumore più del male? Che noi possiamo essere il vero cambiamento piuttosto che sederci in comode poltrone che diventano prigioni peggiori di Rebibbia?
Io ci credo. Dobbiamo solo riscoprire la ribellione. Spargiamo gesti ribelli, rendiamo ragione della speranza che, nonostante tutto, è radicata in noi. Siamo rivoluzionari. Non c’è più tempo… da perdere.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.