Blog / Renato Pierri | 19 Luglio 2019

Le Lettere di Renato Pierri – “Toglietemi mi madre, ma non toglietemi il cane”

Di complessione minuta, carina, occhi molto belli, chiari, belle gambe messe in evidenza dai pantaloni corti, ti saluta, ti sorride, come fai ad immaginare? Mette per terra un bicchiere di plastica pieno d’acqua per il cane. Beve, il bravo cane, con la lunga lingua rossa, senza far cadere il bicchiere. Glielo dico che è bravo il suo cane a bere senza sfiorare il bicchiere, senza farlo cadere, senza versare una goccia. E lei mi sorride e mi parla del suo cane. «Col senno di poi – mi dice – dovevo chiamarlo Ombra, per di più che è nero. E’ la mia ombra, mi segue dappertutto, non mi lascia un istante. Sono andata al bagno, e lui dietro, tic tic tic, su per le scale è venuto con me». E poi, seduta al tavolo vicino al mio, mi racconta che è sveglia dalla mattina presto, che ha riordinato casa, che ha fatto la spesa, adesso è lì per fare colazione, poi andrà a casa a cucinare. Non so se ho fatto bene a chiederle se viveva sola. Mi ha risposto che viveva sola. Non so se ho fatto bene, ho questo brutto vizio di fare complimenti, forse non avrei dovuto, ma come fai ad immaginare? «Sola, possibile, così carina?». Come fai ad immaginare? Certe cose le leggi sui giornali, ne senti parlare in televisione. Poi te la trovi davanti la donna maltrattata, una delle tante donne maltrattate dagli uomini. Si alza la maglietta e mi mostra una lunga cicatrice lungo il fianco: «Dopo questa, non mi sono più fidanzata». Come facevo ad immaginare? Ho visto la cicatrice, ho visto, ho parlato con una donna maltrattata. Ho visto la lunga cicatrice sulla pelle bianca, delicata. La cicatrice.

E’ stato clemente, in fondo, non ha gettato il cane dalla finestra come minacciava di fare, tenendolo sospeso nel vuoto, e non ha ucciso lei, come minacciava di fare. Dopo averla tormentata per sette anni, le ha inferto una coltellata. «Ad ogni battito del cuore, usciva un fiotto di sangue, mi ha tagliato il fegato, ho rischiato di morire, prima di entrare in sala operatoria ho detto ai medici salutatemi mi padre e mi madre. E’ finito in carcere. Beveva, si drogava». «Lo ha più visto?» Non lo ha più visto. Ha visto le scritte sui muri sotto casa, indirizzate a lei. «Non è un ragazzino, è più grande di me, ha quarant’anni… ». In quel momento, mentre mi parlava, ha ricevuto una telefonata da un amico. E non ha ripreso a parlare del suo caro cane con l’amico? «Toglietemi mi madre, che tanto già non ce sta più con la testa, ma non toglietemi il cane». Mi ha salutato e se n’è andata, il cellulare all’orecchio, ha attraversato la via Tiburtina, sotto il sole alto nel cielo, col suo cane nero al guinzaglio. Con la sua ombra.

Renato Pierri