Le Lettere di Alessandra Bialetti – La verità di “un pazzo”
Pro 8,22-31; Rm 5,1-5; Gv 16,12-15
“Repetita iuvant”: le cose ripetute aiutano. Viviamo nell’era del nuovo a tutti i costi, di ciò che dura un attimo ed è già vecchio, del sensazionale, del miracolistico. Ci colpisce solo ciò che non si ripete, che non è uguale a se stesso. Anche il vangelo potrebbe essere “vecchio”. Lo leggiamo tutto l’anno, ormai lo conosciamo quasi nei minimi particolari, le parole non ci scomodano più di tanto. Quindi perché continuare a scrivere ogni domenica? Perché c’è un versetto dell’Apocalisse che recita “Ecco io faccio nuove tutte le cose”. Mi risuona questa frase, non può non riecheggiarmi in un luogo in cui c’è bisogno di quella novità, di una speranza che rilanci la vita contro ogni rassegnazione. C’è un Cristo che è venuto a fare nuove le cose vecchie, a portare a compimento la legge scritta sulla pietra sostituendola con quella impressa sul cuore, sulle relazioni, sulla riconciliazione, sulle ossa inaridite che vedono nascere una nuova vita, un Cristo che riveste di un nuovo significato ogni esistenza. Il vangelo oggi è fatto di pochissime parole: viene uno Spirito che conduce alla verità tutta intera. Non una parte, non un parlare ambiguo ma un vento che sovverte vecchi schemi, che annuncia nuovi tempi, che fa luce sulle nostre miserie non per atterrare definitivamente ma per scrivere su di noi e con noi una nuova storia. Uno Spirito che ci conduce a compiere un cammino sempre più profondo, a non nasconderci dietro maschere, compromessi, immagini, finzioni. Uno Spirito che annuncia una verità che può anche far male perché penetra come una lancia e rompe gli schemi del buonismo, del perbenismo, delle apparenze, della vita comoda, come si suol dire “spiaggiata”. Mi viene in mente un altro versetto dell’Apocalisse in cui viene rigettato il tiepido perché né caldo né freddo, colui che non prende posizione, che cambia idea e valori al mutare del vento, che non si fa scomodare nemmeno dall’avvento di un personaggio così controverso come il Cristo. La verità che oggi risuona all’interno del carcere è, come dice G., qualcosa che ci scuote dentro, che rende liberi ma solo se la si accoglie, che cambia solo se si accetta di essere stravolti, una verità che riguarda sia il singolo che la collettività. È bello, G., questo rimando a una comunità di persone che è chiamata a cambiare insieme, a farsi sovvertire come popolo in cammino, una comunità in cui ognuno è responsabile di condurre l’altro alla verità perché nessuno si perda, perché a nessuno manchi la possibilità di fare esperienza di un Cristo che trasforma.
Sulla verità le posizioni in carcere si dividono. Per R. la libertà è soggettiva, ognuno ha la sua, il suo punto di vista che non entra in dialogo, che non si confronta, che non cerca una mediazione con l’altro. Una sorta di percezione personale. Questa visione ci richiama fortemente il modo di vivere le relazioni sia dentro che fuori dal carcere: relazioni impastate di individualismo, di certezze personali incrollabili, di progetti in solitaria, di ragioni urlate per paura di essere schiacciati. Don Antonello è molto fermo su questo punto: la verità non può essere soggettiva ma un terreno comune su cui ognuno possa incontrarsi e trovare un accordo, è qualcosa da costruire insieme. Non perché ognuno debba avere le stesse opinioni, pensieri, sensazioni ed emozioni ma perché ciascuno di noi si possa imbattere in Qualcuno. Ecco: la verità è l’incontro con il giocoliere che dà a tutti la stessa possibilità di riscattare la propria vita, di fare nuove tutte le cose anche le più fallimentari e disperate, di dare un senso nuovo a una vita condannata nei tribunali ma che vale la pena affrancare e liberare. Una verità così non è soggettiva, non è annunciata a pochi eletti ma spesa, spezzata, divisa per tutti e fra tutti. Anche se, per ricordare il seminatore, il terreno è duro, sabbioso, arido, addirittura fatto di asfalto e cemento.
Una verità che penetra e rende leggeri. Leggeri? Ce lo dice A. quando parla del suo passato in cui anche fare pochi metri era fatica, in cui tutti gli sbagli commessi avevano appesantito il passo anche più semplice, in cui, credendo di “svoltare” la giornata in realtà si tuffava in una pozza di cemento che bloccava ogni movimento. La verità di cui parla A. è leggerezza anche se la via che il Cristo indica non è affatto comoda e pianeggiante. Ma oggi il suo passo è più spedito perché sta cambiando ottica, perché un giorno in carcere è possibilità di leggersi dentro, di scavare in se stesso, di chiedersi di continuo dove e con chi voglia camminare. La verità sembra mettere le ali ad A. che si sente più vicino al “suo” Dio. Il suo, quello che aveva perso o che forse non aveva mai conosciuto ma che sta diventando compagno di viaggio proprio nel luogo più dimenticato dal mondo.
Don Antonello rilancia partendo dalla prima lettura: “la verità su noi stessi è che siamo creature generate e amate prima di ogni cosa”. La lettura parla in realtà della Sapienza ma lui la paragona alla nostra vita pensata, voluta, desiderata prima di tutto, prima di ogni sbaglio, di ogni errore, di ogni scivolone, di ogni rifiuto di quell’amore incondizionato che ci chiama continuamente alla vita. Le nostre contraddizioni, i nostri dinieghi, le nostre fughe, le nostre scelte comode non sono nulla davanti all’incontro con il Cristo che ci ha pensati ancor prima e al di fuori di tutti i disastri che poi avremmo compiuto, persino prima e al di fuori del rifiuto di accogliere un amore che accetta anche la sconfitta perché non può fare a meno di continuare a donarsi, di bussare alla porta, di seminare ogni giorno anche sull’asfalto.
Siamo ancora troppo poveri di una verità così: l’amore incondizionato, il nostro essere amabili nonostante i tanti errori, una proposta che continuamente si rinnova, ancora non ci scuote fin nella fondamenta. Siamo ancora troppo ricchi di amori condizionati, di amori che si donano solo se siamo bravi, se ci comportiamo bene, se rimaniamo nelle regole, di amori che non sappiamo regalare all’altro se non ci conviene, che durano pochi istanti perché la fedeltà è faticosa e pesante. L’amore condizionato al nostro essere buoni ci ha rovinato la vita e continua a penalizzarla. L’amore senza riserve di Cristo che non guarda alle colpe ma alla volontà di riprendersi, che non valuta in base al risultato ma al semplice desiderio di rispondere alla sua chiamata, che non usa il bilancino per misurare ma riversa abbondantemente grazie su grazie, che alleggerisce il passo di A., che aiuta M. a credere in un Dio che non rientra nei canoni umani che lo vorrebbero dentro un carcere a marcire, ebbene questo amore è verità. L’unica. Stravolgente. Incomprensibile. Una follia. Una pazzia che solo il giocoliere sa commettere. Come un funambolo che accetta di salire sul filo senza alcuna certezza che sotto ci sarà una rete a salvaguardarlo.
Repetita iuvant. Sì, fa bene ripetere che esiste un pazzo che ancora va a cercare in giro la sua creatura e non si dà pace fino a quando non l’ha trovata.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.