
Le Lettere di Alessandra Bialetti – Polli o aquile
Ascensione. Giornate importanti per una fede scandita all’interno di un carcere, laddove non si penserebbe mai di trovare spunti e riflessioni. Ascendere è salire in alto. E già cominciamo male. Parlare di altezze a chi in realtà è caduto così in basso da vedere tutto attraverso le sbarre di una cella? C’è un “alto” per un cellante? Di nuovo i neologismi, dopo liberante oggi cellante. Sì, cellante. Rende l’idea, potrebbe suonare come un participio presente, usato come aggettivo o come sostantivo. Ma non mi piace. In entrambi i casi cataloga, rinchiude in uno steccato, etichetta, rimanda a una realtà fissa e immutabile. Eppure ha un suo senso. Il cellante è colui che vive in cella nel gergo del carcere. E’ il compagno appena arrivato con le sue quattro cose dentro una busta nera della spazzatura, è la persona con cui passerai giorni e notti in buona o cattiva compagnia e che forse finirà per conoscerti meglio di te stesso, sicuramente meglio di tanti fuori. Sto imparando tutta una serie di vocaboli che esprimono una realtà di vita, dolorosa, sofferente ma che comunque parlano. Il cellante guarda per terra, se alza lo sguardo intravede la realtà fuori a riquadri, a “scacchettoni” come si dice. Quando esce dalla cella l’orizzonte è sempre limitato, la vista non spazia. Finisce per guardarsi i piedi, per abbassare la testa. Meglio non vedere e non sentire. Quindi, giocoliere che ti innalzi sopra le nubi e ascendi al cielo, qui ti si perde di vista quando sembri andartene.
Il vangelo chiama a guardare in alto. E mi viene in mente la storiella del pollo e dell’aquila. Di un uovo di aquila messo in un pollaio. Si schiude e l’aquilotto impara a fare le stesse cose dei polli tanto da dimenticarsi completamente chi sia. Ma un giorno, sollevando lo sguardo, vede in cielo un uccello planare con una apertura alare immensa. E’ un’aquila, gli viene detto. Ma lui vivrà e morirà da pollo pensando di essere tale. È solo una favoletta ma certe volte nelle piccole cose si nascondono grandi verità. In carcere i cellanti, fuori dal carcere i liberi. In realtà spesso tutti prigionieri, incapaci di alzare lo sguardo dalle proprie miserie, dalle proprie difficoltà, dalle proprie fragilità. Appagati dei piccoli orizzonti, fiaccati dagli sbagli commessi, atterrati dal proprio e altrui giudizio. Inabili pur essendo pienamente abili. Inadeguati seppur dotati di tutte le risorse per sollevarsi dalla terra del cortile. Il vangelo chiama a guardare in alto, a non rassegnarsi, a non adattarsi alle quattro mura della cella, vera o virtuale, che rende rattrappita l’apertura alare. Di fronte a Cristo abbassiamo lo sguardo perché la sua proposta liberante è in realtà troppo pretenziosa, troppo audace, scomoda. Meglio razzolare come polli e starsene tranquilli a leccarsi le ferite.
Invece Don Antonello incalza: “Guardiamo in alto, alle cose belle della nostra vita?”. Sembra una presa in giro Don. Ma non vedi dove stai predicando? Anche la cappellina è uno scantinato a malapena illuminato. I detenuti si guardano, forse persi o forse anche infastiditi. Qualcuno tenta una risposta, la sua, quindi valida. M.: “Se alzassi lo sguardo verso Gesù gli chiederei di aiutarmi a mediare per non distruggere tutto quello che ho intorno”. Ecco, il giocoliere che diventa mediatore, che getta un ponte tra quella terra di polli e un cielo di aquile. Un intercessore che interviene quando le forze mancano, che alza la voce quando la tentazione di distruggere il bene intorno è a portata di mano. Come al solito dal carcere arrivano provocazioni. Parole di chi, nell’aia dei polli dove è caduto, inizia un percorso verso altezze diverse, per non continuare a razzolare ma a costruire, per cercare risposte ai suoi sbagli, per ipotizzare che, una volta fuori, si possa aprire le ali e provare a volare. Apparentemente tutto molto romantico ma non lo è se si pensa che si sta parlando di chi ha perso la strada e ha compiuto del male per sé e per gli altri, per chi alla potenziale aquila non ha mai pensato appagato del piccolo orizzonte di un cortile pieno di voci suadenti ma ricche di morte. R. aggiunge: “Il primo passo per non morire mai è non aver paura di se stessi”. Hai ragione R., ascendere è lasciarsi alle spalle il disastro della propria vita, le comodità di quelle prigioni che sembravano una gran trovata ma che in realtà hanno distrutto e lacerato. Ascendere è non aver paura di scendere in se stessi, di guardare quelle belle cose di cui ci parla Don Antonello, di mettere in discussione le proprie scelte, tutto della propria vita. Scendere per ascendere, abbassare lo sguardo per innalzarlo quando tu, Gesù, scompari alla vista per far sì che gli occhi ti seguano e si innalzino dalle miserie. Non si ascende se non si scopre quelle ali d’aquila ridotte a niente, a piccole propaggini che faticano a distendersi e spiegarsi. R. lo ha capito, ha capito che deve ripartire da sé, dalle sue paure, dalla terra del cortile in cui le sue scelte lo hanno condotto per potersi librare in alto. Non è una storia a lieto fine né un buonismo a poco prezzo: è la possibilità che abbiamo tutti, nessuno escluso, di prendere in mano la vita e farne qualcosa di degno, di credere che non è l’aia il nostro orizzonte ma qualcosa di molto più ampio. Di sicuro è una scelta, un invito, una proposta. E forse proprio in questo ci perdiamo, in questa libertà di poter dire anche no, di voler rimanere polli a vita.
Per A. ascendere è trovare la serenità perché stanco di vivere nel travaglio. Ma non parla di tutto quel dolore che poi si dimentica quando il bambino viene alla luce. Magari. Parla invece di un travaglio sterile, di un girare a vuoto, di un consacrare la propria vita alla dose di droga che anestetizza una quotidianità difficile, dei disastri che ha compiuto e che ora paga non solo per la giustizia ma per tutti quei rapporti distrutti, per i figli che sono da riconquistare, per un futuro da ripensare e ricostruire. Sentire che le parole di A. possono essere le nostre, anche se non siamo materialmente rinchiusi, forse ci aiuta a sentire la stanchezza dei tanti travagli senza nascite, senza sbocco, senza orizzonti.
Polli o aquile? Aquile, vorremmo rispondere, Ma abbiamo bisogno di tenerci ancorati alle tue ali, Signore, quando spicchi il volo e scompari alla nostra vista.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.