Le Lettere di Alessandra Bialetti – Ti assalto, Signore
At 5,27-32.40-41; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19
Non è mai facile entrare a Rebibbia. Non si va al luna park. Sai dove ti stai dirigendo e perché. Ma ci sono giorni più difficili, giorni da scappare via. Lontano. Mettere distanza. Sono i giorni in cui entri e ti raccontano che un ragazzo si è “tagliato” perché lasciato, senza una parola, dalla fidanzata. Cose che accadono ai vivi si potrebbe dire, cose all’ordine del giorno. Ma in carcere nulla è come fuori. La vita al di là delle sbarre arriva attutita o non arriva per niente, dietro le sbarre le domande non trovano risposta, i dubbi diventano muri e le paure giganti. Così rimani lì senza saper che dire davanti ai polsi tagliati e a un dolore che non sai come avvicinare. Poi lo vedi camminare nel corridoio, piegato sotto la fragilità, l’ombra di se stesso. E puoi solo abbracciare quel baratro e cercare di tendere una mano. Non è facile per lui ma sicuramente anche per chi non ce l’ha fatta ad aspettare fuori, per motivi che non si sanno, quando la solitudine e i dubbi ti assalgono come nemici. Nessun giudizio né dentro né fuori. Ognuno chiuso nel suo dolore.
Nel vangelo Gesù si manifesta: oggi si manifesta nel dolore di un uomo piegato dagli eventi e dall’impossibilità di comunicare, nella compassione dei compagni di detenzione che si stringono accanto a lui. Perché alla fine famiglia è anche laddove si creano legami, magari provvisori, ma comunque forti e la caduta di uno diventa l’inciampo di tutti. Io mi sento famiglia là dentro e parte di quel corpo che soffre se una parte soffre.
Il salmo viene oggi letto da un ragazzo nuovo. Invita a ripetere il versetto: “Ti assalterò, Signore”. Lo correggono ridendo “Ti esalterò, Signore”. Sicuramente un errore ma ha un suo senso. Come tutto d’altronde. Sì, Signore. Ti assalto come una rocca da espugnare per poter entrare dentro. Se parto all’assalto è perché là dentro è custodito qualcosa di prezioso per cui vale la pena perseverare, imbracciare le armi per penetrare all’interno. Perché le porte sono chiuse e nascondono il tesoro. Per noi fuori, le porte sono aperte, pensiamo sia un diritto, non facciamo nessuno sforzo per essere ammessi. Per gli esclusi, gli ultimi, l’ingresso è da guadagnare quindi ha un senso profondo quell’assaltare. E’ non perdere la speranza, dare valore a ciò che ci può essere dentro, è la preziosità dell’incontro con un Cristo che ti cambia la vita. Ma non perché sia un diritto ma una possibilità, una proposta che richiede adesione come sottolinea F., il detenuto ebreo. Dobbiamo uscire dalla logica del tutto dovuto perché abbiamo il patentino sacramentale a posto con tutte le tappe raggiunte. Dobbiamo entrare nella logica della responsabilità di una risposta a quelle tre domande che inchiodano, che invitano ma senza mai costringere. Ecco il paradosso della libertà: una proposta senza imposizione anche se si cammina sul baratro e sarebbe sciocco non approfittarne. Così F. ribadisce che quelle domande aspettano la risposta “io sto con Dio”, mi faccio visitare da Lui, lo lascio entrare e gli permetto di sconvolgermi la vita. Penso a quante volte su facebook, davanti all’ennesima tragedia, scriviamo “io sto con…” e magari finisce tutto in quella figurina condivisa. Qui è tutt’altra storia e lo sa bene Gesù. Sa cosa c’è nel cuore di Pietro, come di D., F., M., A., G. Lo sa ma aspetta che sia lui ad esprimerlo perché prenda atto, mentre risponde, di ciò che veramente sente dentro, di ciò che lo anima, della scelta che vuole fare. “Dove sei, Pietro, rispetto a te stesso?”. E’ importante che Pietro, i detenuti, noi fuori (reclusi anche noi nelle nostre prigioni), sentiamo risuonare la nostra risposta mentre la pronunciamo, la nostra disordinata e confusa adesione a un Cristo che si propone e non impone. Il seguimi oggi, nella cappellina del carcere, risuona come un “non scappare più, non ti cercare altrove, torna nell’incontro, lasciati impattare dalla mia presenza, segui me in te stesso. Non ho bisogno che tu mi venga dietro ma che segua il mio passaggio in te, che tu senta risuonare la mia proposta”. Dentro il “mi ami?” non c’è la ricerca di una risposta compiacente e rassicurante per un Gesù che non ne ha affatto bisogno, ma un invito alla conversione, a prendere i quattro stracci della propria vita e lasciarne tessere un abito nuovo. Il giocoliere oggi diventa il sarto che cuce gli strappi e chiede di entrare.
Don Antonello pone una domanda a bruciapelo, apparentemente senza aggancio con la liturgia: “sei carbone o diamante?”. Quasi tutti rispondono carbone e G. lo spiega: “Il carbone pressato nelle rocce diventa, poco a poco, diamante quando si trasforma. Il diamante è il prodotto finito, è fermo, fisso. Il carbone invece conserva in sé il potenziale di diventare altro, di trasformarsi”. Praticamente un’omelia nell’omelia. La preziosità si nasconde nella parola “seguimi” perché Cristo possa trasformare, render altro, squarciare il carbone con la sua presenza e renderlo lucente come un diamante. Allora il “mi ami” diventa quella lama di luce che vuole rendere chiaro il nero del carbone. Lo vogliamo veramente? Ma veramente, veramente?
“Mi ami o mi vuoi bene” cessa di essere un gioco di parole. Gesù non vuole essere seguito ma accolto, non gli servono le folle osannanti, le chiese soffocate dall’incenso ma povere di incontro, gli serve semplicemente il gesto di un singolo che accetta di farsi mettere in discussione, che si lascia attraversare dal dolore dell’altro da cui vorrebbe fuggire. Non mi ripetere tre volte la famosa domanda perché amarti nella concretezza della sofferenza di chi sta accanto e degli ultimi è pesante, a volte troppo. Questo vorrei rispondere oggi mentre dai detenuti arriva con chiarezza che seguirti è mettersi alla sequela dell’impotenza. Di un Dio che potrebbe schioccare le dita e risolvere la vita di ciascuno di noi ma che non salva nessuno contro la sua volontà. Io vorrei un Dio potente, risolutivo, non un Dio che mi lascia libero. Sarebbe più facile. Invece no: sulla croce è salito il Cristo dell’impotenza, che ha amato senza chiedere nulla in cambio, che si è offerto senza alcun tornaconto. Penso al gran giocoliere di cui parlo spesso. Forse dietro quella parola si potrebbe nascondere la ricerca di un mago potente che spariglia le carte ma crea il capolavoro. Forse volevo questo mago invece che un Dio reso impotente dalla volontà di non farmi salvare. Invece c’è il Cristo scomodo che salva solo se accogli il suo passaggio e la possibilità di trasformazione e che accetta di andarsene sconfitto, senza mai veramente allontanarsi, quando la nostra porta si chiude. Esattamente come quando vorremmo dare una mano a chi amiamo ma ci dobbiamo arrendere davanti al rifiuto, alla libertà di non accettare.
Andando via dalla cappellina risuona la frase di Fabrizio De André: “dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior”. Sembra tagliata apposta per oggi: dal carbone, insignificante, sporco, di nessun valore, dimenticato, inutile può scaturire qualcosa di prezioso, dal nostro “letame” una rinascita.
Oggi giocoliere ti sei superato. Mi hai fatto comprendere quante volte preferirei una magia alla fatica del cambiare. Oggi, come ha letto R., ti voglio assaltare. Voglio quell’incontro che vale una vita. Voglio imparare ad amare anche se l’altro non vorrà farsi “salvare”. Voglio scegliere la sequela dell’impotenza.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.