Le Lettere di Luciano Sesta – Non c’è più uomo né donna (2)| L’aspetto medico-scientifico
Prof. Sesta condivide con il blog il testo di un suo intervento tenuto a Bagheria nel novembre dello scorso anno, in cui erano presenti anche l’avv. Gianfranco Amato e la dottoressa Silvana De Mari. L’intervento verrà pubblicato in tre episodi, abbiamo già pubblicato il primo, ecco il secondo
L’aspetto medico-scientifico
Per uscire dalla falsa alternativa fra destino biologico e convenzione sociale, si può risalire alle origini storiche del concetto di “Gender”, nato fra gli anni cinquanta e sessanta in ambito medico (John Money), piscologico (Robert Stoller) e socio-culturale (dall’antropologa Gayle Rubin).
Storicamente, la condizione che suggerisce una distinzione fra “sesso biologico” e “identità di genere” è una condizione subìta, non deliberatamente scelta. Il concetto di “gender” distinto da “sex” nasce infatti nel contesto del cosiddetto “sex assigned at birth”[1]. In riferimento ai bambini intersessuali (allora chiamati ermafroditi), nati con genitali ambigui, si pone il problema di attribuire un’identità di genere di fronte dell’incertezza del sesso anatomico. E qui si apre una questione interessante: rispettare la natura sessualmente ambigua o definirla artificialmente come maschile o femminile? E, nel caso in cui si scegliesse la seconda ipotesi, quale aspetto del corpo sessuato andrebbe considerato “naturale”? Il sesso gonadico, quello genetico, quello somatico o quello psicologico?
Come si può vedere, l’ambito medico ci aiuta a capire non soltanto che la dissociazione fra identità di genere e sesso biologico può essere subìta piuttosto che scelta a capriccio, ma anche che, proprio a motivo di ciò, ci sono casi in cui la scelta dell’identità di genere a dispetto del sesso biologico – descritta nel nostro dibattito quasi sempre come una perversione morale – può essere non solo lecita, ma persino moralmente doverosa. Nel caso si decida di assegnare un’identità di genere in mancanza di una sessualità anatomica chiaramente definita, bisognerà prestare particolare attenzione all’eventuale emergere, nel corso dello sviluppo, di un’identità sessuale diversa da quella inizialmente assegnata. Un soggetto con sindrome di Morris, per esempio, è geneticamente e gonadicamente maschio, ma fenotipicamente femmina[2]. Talvolta il soggetto potrebbe persino scegliere, raggiunta l’età, di accettare la propria ambiguità sessuale piuttosto che definirla chirurgicamente in una direzione piuttosto che in un’altra. Gli interventi o anche la decisione di non intervenire dovrebbero comunque sempre avere l’obiettivo, secondo un parere del Comitato Nazionale per la Bioetica sul tema, «di armonizzare elementi di disarmonia». Infatti, pur senza sapere “quanto” e “come” essi interagiscono, sappiamo con certezza “che” essi interagiscono.
Come si può vedere, la distinzione fra “sesso” e “genere” non è suggerita da un capriccio soggettivo, ma anche da eventi “naturali” come l’ermafroditismo e la sindrome di Morris. E la stessa questione medica dell’attribuzione del sesso alla nascita, inclusa la scelta del nome, dimostra l’esistenza di casi in cui il criterio che guida il nostro agire è il rispetto della persona al di là della differenza sessuale. Da qui la necessità di un appunto lessicale: maschio e femmina, eterosessuale, omosessuale e transgender, sono tutti aggettivi, non sostantivi. Presuppongono sempre il sostantivo “persona”.
Un’insospettabile affinità con l’antropologia cristiana
La questione medica degli stati intersessuali, solo accennata, suggerisce qualcosa di molto importante per il nostro tema: c’è, negli esseri umani, un aspetto di fronte al quale le differenze sessuali, e la stessa dissociazione fra identità di genere e sesso biologico, passano in secondo piano. Nella stessa Scrittura si dice che, di fronte all’opera salvifica di Gesù, “Non c’è più uomo né donna” (Gal, 3, 28). E quando, in Genesi, si legge che “maschio e femmina Dio lo creò”, il singolare (“lo creò”) fa risaltare, oltre alla loro differenza, l’umanità condivisa del maschio e della femmina. C’è dunque qualcosa rispetto a cui la differenza sessuale è indifferente, ed è la nostra comune umanità, l’essere persone e figli di Dio.[3]
La teoria del Gender, talvolta in modo scomposto e maldestro, in fondo vuole restituirci questa comune umanità. E, in ciò, non andrebbe troppo sbrigativamente condannata come ideologia del neutro, ma andrebbe invece accolta come valorizzazione della nostra umanità condivisa.
Molte delle rivendicazioni riconducibili alle teorie del Gender, in quest’ottica, possono essere viste come una difesa della dignità della persona al di là della differenza di sesso e di orientamento sessuale. Di fronte a una persona, infatti, non ci si domanda soltanto “cosa è”, se maschio o femmina, ma anche e soprattutto “chi è”, ossia cosa pensa, cosa sente, cosa desidera e cosa più le sta a cuore. Ciò che, in nome del Gender, si combatte, insomma, è l’idea che vi sia un destino comune che non rispetta le inclinazioni individuali. Chiedendo che sia riconosciuta e valorizzata ogni singola persona, le teorie gender affermano che ogni essere umano ha una natura individuale, che dunque non si riduce a un’inclinazione di “specie” che gli individui, pena l’accusa di “devianza”, sono chiamati a riprodurre invariata nel loro comportamento. Se così fosse, infatti, gli esemplari della specie umana non sarebbero diversi da esemplari di altre specie. Le persone non sono “qualcosa” di cui esista un pacchetto di istruzioni valido ugualmente per chiunque. L’uomo non si identifica con la propria natura biologica, ma la possiede. Può riconoscerla come propria ma anche non accettarla, come quando aspira alla resurrezione nonostante la “naturale” mortalità del suo corpo. Anche nell’aspirazione del transessuale a essere qualcosa di più o di diverso dal proprio corpo, in tal senso, c’è qualcosa di spirituale, un desiderio di realizzazione che va compreso umanamente prima ancora che giudicato moralmente. L’uomo, infatti, non è un corpo biologico sessuato, ma ha un corpo biologico sessuato.
Il termine “genere”, in fondo, indica proprio un aspetto della sessualità che va al di là del corpo. “Maschio”, per esempio, è un termine descrittivo, che indica ciò che si è nel proprio corpo, a prescindere dal modo in cui ci si comporta socialmente. “Uomo” è invece un termine valutativo, che fa riferimento ad aspetti che non sono soltanto somatici ma anche psichici, sociali e culturali. “Io sono maschio” indica un dato di fatto. È diverso da dire “sii uomo”. Ne deriva che mentre maschi e femmine si nasce, uomini e donne si diventa. I maschi e le femmine diventano cioè uomini e donne gli uni insieme agli altri, in un gioco di relazioni difficili e dagli esiti non scontati. E in cui ciò che siamo senza averlo deciso noi (natura) interagisce con ciò che decidiamo noi (libertà) e con ciò che gli altri fanno con noi, su di noi e per noi (società). Un maschio è chiamato, non destinato, a essere uomo. Noi diciamo: “sii uomo!”, non “sii maschio!”. Le teorie gender si inseriscono in questo spazio di libertà che la natura, anche biologica, concede a ogni essere umano, e finiscono così per esprimere, spesso involontariamente, la spiritualità della persona, che non si riduce mai alle funzioni biologiche del proprio corpo. Ad affermare che nascere maschio non implica dover diventare necessariamente uomo, e che diventare uomo non implica essere necessariamente eterosessuale, può dunque essere tanto un’antropologia dell’indifferentismo sessuale, quanto un’antropologia personalista di ispirazione cristiana.
La teoria del gender, possiamo dunque dire, parte da un’osservazione corretta, che però ha il torto di assolutizzare. Ciò che è vero, infatti, è che l’identità sessuale di una persona si sviluppa nel tempo, secondo un processo in cui natura e cultura giocano entrambe un ruolo decisivo. Il sesso biologico è cioè una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente per esprimere l’identità sessuale di una persona, che si gioca più sul piano delle relazioni sociali che in quello dei suoi cromosomi.
La differenza sessuale, come tutte le cose umane, non è già tutta data a livello biologico, ma è suscettibile di maturazione educativa, affettiva e culturale, essendo dunque faccenda non solo di natura ma anche di storia. Ciò è vero anche nella prospettiva biblica. L’essere umano fu creato “maschio e femmina”, ma è solo nell’incontro storico fra l’uno e l’altra che esso esprime la sua pienezza. Non a caso, Adamo dice la sua prima parola quando ha di fronte Eva. Se il suo essere sessualmente “maschio” è dato a prescindere da Eva, il suo essere “uomo”, dotato di parola e di capacità di relazione, sorge solo di fronte a Eva. L’uomo e la donna sono “immagine di Dio”, ma conquistano una “somiglianza” con Lui solo se, nel loro rapporto, vivono secondo il suo disegno.
Se le cose stanno così, si può ammettere che l’antropologia implicita nelle teorie del Gender è meno lontana di quanto sembri dall’antropologia cristiana. Nel cristianesimo, infatti, non è la natura ad avere l’uomo, ma è l’uomo ad avere una natura. Ciò significa che l’uomo, pur essendo fatto in un certo modo, è al tempo stesso libero di prendere posizione rispetto a se stesso. Anche per le teorie del Gender, la natura umana è al tempo stesso determinata e libera. È “determinata” perché porta impresso un orientamento non scelto dall’individuo, come per esempio essere maschio o femmina, intersessuale o affetto da sindrome di Morris, eterosessuale o omosessuale, psichicamente “uomo” o “donna”. È però anche “libera”, perché è una natura posseduta da qualcuno che può tanto assecondarla quanto contrastarla. Da qui la rivendicazione del diritto di assecondarla o di contrastarla, senza essere costretto a fare l’una o l’altra cosa in base ad aspettative sociali o a stereotipi culturali[4]. Giuste o sbagliate che siano le scelte di una persona, infatti, esiste il diritto di farle, lì dove non ledono direttamente e palesemente i diritti di terze persone, naturalmente, come potrebbe accadere nel caso delle adozioni gay o dell’utero in affitto.
In quest’ottica è falso dire che le teorie del Gender presuppongono un individuo asessuato, che di volta in volta “sceglie” il sesso che fa per lui. L’insistenza sul carattere non naturale, e dunque sociale e culturale, delle differenze fra uomo e donna non nega l’evidenza biologica della differenza fra maschi e femmine, ma solo che tale differenza debba decidere sin dall’inizio come devono comportarsi le singole persone di sesso maschile o di sesso femminile. Analogamente, molti ritengono che a essere uno stereotipo da superare sia non la coppia uomo-donna, e dunque la famiglia “naturale”, ma il suo carattere normativo, ossia la pretesa che essa sia l’unica forma o la forma preferibile di unione e di famiglia. A essere contestata, in altri termini, non è la differenza fra maschio e femmina come dato di fatto, ma come criterio di comportamento. Quale che sia l’idea che si può avere di questa posizione – e la mia è tendenzialmente critica[5] – non ci autorizza a farne una caricatura, magari per poterla meglio attaccare.
https://www.youtube.com/watch?v=35q1mFIPJ3o&feature=youtu.be
https://www.youtube.com/watch?v=zCNNGnSnbkE
[1] Sotto la dicitura “sesso biologico” comprendiamo l’aspetto genetico, gonadico, ormonale e fenotipico.
[2] Nella sindrome di Morris, il soggetto, 46, XY, per una mutazione nel gene AR (recettore per gli androgeni) è insensibile all’azione del testosterone e, pur avendo testicoli andoaddominali, sviluppa un fenotipo femminile, con vagina a fondo cieco, in assenza dell’utero e delle tube.
[3] L’androgino indica un essere bisessuato presente in alcuni miti; l’ermafrodita deriva dal mitico Ermafrodito, figlio di Ermes e di Afrodite, che ottenne dagli dei di poter fondere il suo corpo con quello dell’amata divenendo un essere ibrido, partecipe sia della natura maschile sia di quella femminile. Come questi termini dimostrano, il tema, che qui viene trattato come un problema bioetico in rapporto a determinati disturbi clinici, ha anche una storia antichissima e ampiamente diffusa. Diversi e numerosi miti rappresentano l’androginia come uno “status della realtà che precede la creazione e l’ordinamento del cosmo” (A. Di Nola, Bisessualità e androginia, in Enciclopedia delle religioni, Vallecchi, Firenze 1970, vol. I, col. 1144). La stessa Genesi (1, 27), parlando della creazione del primo essere umano, usa l’espressione “maschio e femmina li creò”, che potrebbe alludere, come sottolinea l’esegesi antica, a un’androginia primordiale.
[4] La rivendicazione di tale diritto è dunque in continuità con quella stessa antropologia cristiana che, spesso, è invocata per respingerlo.
[5] Per chi volesse saperne di più, mi permetto di rimandare a L. Sesta, Per un’etica della lotta civile. Famiglia, Gender e rivendicazioni omosessuali, in C. Vigna (a cura di), Differenza di genere e differenza sessuale. Una questione di etica di frontiera, Orthotes, Napoli 2017.
Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica