Blog / Terry | 26 Maggio 2018

Le Lettere di Terry – San Filippo Neri: “State buoni, se potete”

Quanto mi sta simpatico sto santo!

“State buoni, se potete”

E’ fantastico! Perché in questa sua frase vedo il compiacimento di una persona che nella gioia, nella vivacità, nella spontaneità, nella confusione dei bambini….vede Dio! E quindi, cerca di contenerla, ma neanche troppo…..perchè quando è genuina e scevra dalle scaramucce che comunque anche tra i bambini emergono, appare così bella che non si può far altro che contemplarla e compiacersene.

Forse mi sta simpatico perché quando ero piccola ero incontenibile: Terremoto! Tornado! Così mi chiamavano…. Ridona: questo è un altro aggettivo che mi accompagna! Forse i rimproveri che ricordo con più dispiacere sono quelli degli adulti che nel mio “casino” s’infastidivano: non facevo niente che fosse oggettivamente “male”, eppure loro s’incupivano. Che tristezza!

E quindi, quando ho scoperto che questa era una frase che lui ripeteva sempre ai suoi bambini, gli ho voluto bene, perché avanza una raccomandazione, una richiesta, lecita da parte di un adulto che deve anche gestire altre dinamiche, ma fatta con amore, con accettazione e allora…..viene più voglia di obbedire. E allora, se fossi stata bambina con lui, magari qualche volta in più la brava l’avrei fatta!

Non ho ancora letto nessun libro su di lui (il tempo è tiranno e la pila di libri che vorrei leggere incombe sul comodino!): essere soprannominati il “giullare di Dio“! Ma che bello!

E allora racconto un altro piccolo aneddoto: ieri, per lavoro, sono stata convocata al Castello di Urio, luogo in cui la Prelatura dell’Opus Dei organizza ritiri, vacanze studio etc etc. Erano 30 anni che non ci andavo! A parte il fatto che la giornata, meteorologicamente parlando, era spettacolare e il posto è magnifico, per me è stato un tuffo nel passato, in ricordi –comunque- belli. Il carisma dell’Opera non mi corrisponde pienamente ed è per questo che mi sono allontanata dai suoi centri di formazione; qualche nodo che mi provoca qualche mal di pancia c’è ancora, com’è normale che sia in qualsiasi relazione umana, ma nell’Opera posso dire di essere stata amata.

Nelle convivenze, quando nascondevo i materassi alle tutor, oppure salivo di notte sul tetto della casa di Cavadino a cantare con le mie amiche, quel “State buoni, se potete” forse non avrebbe avuto avuto la giusta forza per ottenere un po’ più di mansuetudine, però ci sono due protagonisti di quel periodo che porto nel cuore.

La tutor: non nomino me stessa e non nomino manco lei. Che donna! La poveretta mi si parò davanti quando, dopo una super litigata con un’altra tutor che si avvicinò a me con un atteggiamento assolutamente opposto a quello di San Filippo Neri, ottenne che a 11 anni dissi a mio padre che io in quel club non ci volevo più andare. Pover’uomo! Pure lui ci rimase male, ma rispettò la mia scelta. Dato però che a ginnastica artistica ero bravina e avevano bisogno di ciò che sapevo fare per la coreografia del saggio di fine anno, riuscirono ad attirarmi nuovamente al centro. Gironzolavo guardinga: io ero lì per far ginnastica e divertirmi, e non dovevamo “rompermi” con meditazioni, circoli e rosari. Si avvicinò la “nuova tutor”: spagnola, 18 anni (o forse meno), con l’entusiasmo fresco dei neofiti mi si avvicina presentandosi con allegria. La fulmino con gli occhi: “Non sarai mica la nuova tutor?”. Il suo sorriso divenne più incerto, ma tenne duro e, in modo intelligente mi rispose: “Se non ti piace la parola tutor, possiamo essere anche solo amiche!” e replicai con un: “Questo si vedrà!” Le raccontai come me ne ero andata, perché ero tornata e quali erano le mie intenzioni. Ero piccolina, ma ero in formato “tempesta”. Lei fu molto intelligente! Lei capì benissimo la situazione e non la forzò. Mi restò vicina e se anche m’invitava ai mezzi di formazione, lo faceva in punta di piedi e senza insistere, ma la cosa bella è che ogni occasione era buona per parlarmi di lei. Mi parlava della sua vocazione, del suo essere numeraria, di ciò che le piaceva, di quello per cui faceva più fatica: ricordo che mi faceva tenerezza, perché si apriva a me e si confidava con me su aspetti della sua vita, per lei importanti, e io mi limitavo solo ad ascoltare. Faticavo a capire come si potesse desiderare di fare la sua vita, ma accoglievo la sua confidenza, accoglievo lei, perché sono fatta così. Aprendosi si rendeva vulnerabile, ma io non ho mai approfittato di quella vulnerabilità. Per anni non l’ho corrisposta, ma con lei ero accogliente. Così facendo nacque un’amicizia: era sbilanciata, perché era lei che si apriva, mentre io restavo a riccio e con tutti gli aculei ben appuntiti. Mi faceva sorridere quando mi telefonava e, attentissima a non urtarmi, mi diceva: “Non sei costretta a venire, ma lascia che t’inviti….” Al di là delle convivenze alle quali andavo perché con le mie amiche mi divertivo, e quindi ne accettavo anche le attività di formazione spirituale, per il resto era difficile acchiapparmi; forse qualche volta ci sarò pure andata, ma i no che le ho rifilato sono stati tanti. Tutto questo in mezzo ad altre attività ludiche in cui la sua vèrve pestifera e spagnola veniva fuori e…..quanti scherzi abbiamo fatto insieme alle amiche! Alcuni erano così malefici che forse avremmo dovuto confessarli, ma questo pizzico di peperoncino che condividevamo, consolidava la nostra amicizia.

Fu a 15 anni che lo Spirito Santo si faceva spazio dentro di me, forse fu dopo quell’aneddoto in cui un amico mi portò in visita dalla sorella in clausura, che sentii il bisogno di raccogliere le idee: chiamai lei e le chiesi quando ci sarebbe stato un ritiro. Non ci credeva! Né lei, né le mie migliori amiche del tempo si capacitavano di come una 15enne potesse desiderare di andare ad un ritiro spirituale in modo spontaneo e senza essere stata circuita! Ci andai. Era nella casa della Darsena di Urio e di quel ritiro ricordo due cose: la cappella sui muri della quale s’infrangono le onde del lago e il bagnasciuga dove spesso mi rifugiavo, e dove forse ho fatto le mie prime vere chiacchierate col Padreterno, almeno le prime che ricordo con cognizione di causa. Su quei sassi per la prima volta confidai me stessa alla tutor, che ovviamente mi accompagnò: le raccontai cosa stavo vivendo nel mio cuore, le domande che mi ponevo, le inquietudini che mi abitavano, le risposte che cercavo. Poi: il silenzio! Pensavo di essere stata abbandonata e invece lei era lì, alle mie spalle, che piangeva di commozione e di gioia: dopo anni ero io che mi aprivo e mi affidavo a lei, e lei mi confidò che aveva pregato anni per quel momento e che lo aspettava da tanto.

Quelle lacrime non le dimenticherò mai: erano lacrime di affetto profondo e sincero, erano lacrime di rispetto intimo e immenso. Quella fantastica donna mantenne la promessa fatta a quella ragazzina riottosa che incontrò per la prima volta nella cucina del club e la fulminò, la promessa per cui “Se non ti piace la parola tutor, possiamo essere anche solo amiche!” Poi la vita ci ha portato lontane, per un certo tempo ci siamo proprio perse: una volta provai a cercarla su facebook e lei mi riconobbe. Vie traverse le avevano fatto fare scelte diverse e ora è felicemente sposata: il mio contatto le restituì l’Italia, e forse da quel piccolo cucù su Messenger, pian piano è riuscita a ritrovare tutte le sue vecchie conoscenze italiane. Andai a trovarla e le feci conoscere mio figlio: “E’ un tuo clone!” mi disse! Sorrido, perché secondo me, sarà dovuto al suo essere maschio, ma l’indice di turbolenza di cui è portatore, secondo me è decisamente più forte!

Sono assolutamente certa che il Padre, San Josemaria, quando parlava di tutoria intendeva proprio la realizzazione dell’amicizia di cui lei è stata capace, e questa è l’Opera che mi piace. Questo è il passato.

Il presente: è un Opera che sta crescendo, in cui vedo tante luci e ombre; è un presente in cui un’amica in pochi mesi è stata capace di vedere la mia anima, tanto da suggerirmi, sapendo che sarei stata a Urio, di farmi accompagnare nella cappelletta dietro l’altare della chiesa del Castello; una stanzetta minuscola, molto raccolta, in cui poter godere di una meravigliosa intimità col Santissimo. Mi conosce da poco, ma mi conosce! Bellissima! Sarebbe la mia “tana”!

Il presente: un blog in cui posso incontrare persone dell’Opera con cui mi sento molto più in sintonia e “in pace” rispetto a tante persone di quel passato, in cui sono stata amata, ma non capita e accettata (a parte quell’amica-tutor).

Il presente: una passeggiata nel retro del Castello, tra le persone dell’Amministrazione che ne curano la gestione, la pulizia, la cucina, l’ordine, l’accoglienza. Non sto a descrivere la percezione che avevo di questo “dietro le quinte” quando ero piccola, dico solo che non mi piaceva e suscitava in me sentimenti ribelli: ciò che mi raggiungeva non mi piaceva. Ieri sono stata accolta da queste persone, molte delle quali svolgono un lavoro umile e nascosto, e sono rimasta colpita dal modo sincero, allegro e genuino con il quale mi salutavano. Non erano saluti “dovuti” o di circostanza: erano persone che accoglievano una persona. Quando mi salutavano, lo facevano in modo diretto, guardandomi negli occhi e avendo un sorriso e uno sguardo, una luce negli occhi che può sgorgare solo da persone che stanno bene con se stesse e con il mondo, che sono felici di ciò che fanno, dove lo fanno, con chi lo fanno e perché lo fanno, e che sono sinceramente felici di accogliere persone nuove. BELLO! Mamma mia quanto mi son piaciute! E poi la cura in ciò che fanno: sono rimasta a pranzo e mi sono trattenuta nei bis solo per decenza e dieta!

Non mi ci vedo ancora in un ritiro dell’Opera, faccio un filino fatica anche ad ascoltare le omelìe dei suoi sacerdoti, ed è strano, perché spesso gli scritti mi piacciono, ma c’è qualcosa che mi spinge indietro. Nonostante questo al di là di un passato in cui ho ricevuto tanto amore dalle persone dell’Opera, alcune ferite ricevute mi fanno ancora male: forse è solo il frutto di un carisma diverso. Boh! Ricordo però quell’Amica come un dono speciale del cielo! Ricordo l’amore ricevuto da tante persone dell’Opera come un dono speciale del cielo. Le ferite ci sono e forse ci saranno sempre e devo imparare a conviverci, anche quando continuano a fare male. C’è però un presente di Opus Dei che si sta arricchendo di Amici belli, sparsi qua e là: numerari, soprannumerari, sacerdoti e anche un’anima speciale in Cielo, mancata improvvisamente un anno fa….lui fu il primo a rinnovare la mia esperienza di Opus Dei, con uno stile di Amicizia speculare a quello dell’amica d’infanzia: anche lui mi diceva qualcosa di simile a “Stai buona, se puoi” e mi voleva bene nel mio essere ribelle, terremoto, spina nel fianco….e non voleva cambiarmi. Questo fu ciò che amai di più di lui! Non voleva cambiarmi! Mi voleva bene per quello che ero, con i miei errori, i miei limiti, vedeva la mia onestà intellettuale, il mio cammino di ricerca genuino e lo rispettava, anche se aveva tempi diversi da quelli che possono essere ritenuti più “giusti”. Lui diceva che dovevo restare quella che ero, continuare a camminare sulla mia strada che lui forse aveva intuito, se non addirittura capito, mi diceva che dovevo avere il coraggio di non tradire me stessa neanche davanti alle persone dell’Opera, dalle quali se è vero che mi sentivo amata, è altrettanto vero che mi sentivo giudicata e con pressing per cambiare, per rispondere ad un modello di cattolica diverso da quello che vestivo, ma che io ho sempre preferito e difeso, nonostante tutto, perché vero e genuino, onesto. Forse un giorno sarò una cattolica migliore, forse ora sono solo Cristiana, ma qualsiasi cosa sono e sarò, sarò sempre vera.

Forse io negli ambienti dell’Opus Dei ci sto bene come si sta a casa di mamma e papà, di cui a volte non si condividono le idee, lo stile, l’approccio, ma che comunque sono “casa”: una casa dove si sono fatte tante sonore litigate, una casa in cui forse è meglio non toccare certi argomenti altrimenti si fa a cazzotti e finisce male, ma una casa in cui ci si vuole bene e almeno ci si prova a “stare buoni, se si può”, salvo poi tornare ognuno alle proprie vite, alle proprie scelte, alle proprie decisioni, in cui si può essere se stessi con più agio.

Per chiudere: secondo me San Filippo Neri aveva un aspetto un pochino più sgualcito, ma il suo sorriso e il suo sguardo non doveva essere troppo diverso da quello che ho incontrato ieri nelle persone conosciute al Castello di Urio.

“State buoni, se potete” – ……e “io speriamo che me la cavo”. Buona festa di San Filippo Neri a tutti! 


Radicata a Milano, ma cittadina del mondo. Prima di tutto sono mamma, purtroppo single da quasi subito. Contrariamente al mio sogno di essere moglie e madre di una famiglia numerosa, la vita mi ha costretta a diventare capo-famiglia single, una professionista e ora pure imprenditrice. Da sempre svolgo lavori di “servizio alla persona” e, al di là dei più diversi ambiti professionali così attraversati, il comun denominatore è che mi appassiono al cuore delle persone che incontro, alla loro storia e al loro vissuto. Per me la scrittura è introspezione e il confronto è crescita. Amo definirmi devota miscredente perché il mio cammino è strano: a gambero, a zig-zag, non scontato, non sempre ligio, in ricerca, nel quale però cerco sempre di avere onestà intellettuale.