Se “mi” racconto mi conosci – Il Sermig, un pezzo del regno di Dio fra noi

Continua la rubrica di Alessandra Bialetti «Se “mi” racconto mi conosci». Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]


Un arsenale militare trasformato in luogo di pace, attività di servizio ai poveri per 800 mila euro al giorno: una storia iniziata da pochi ragazzi torinesi che volevano sfamare il mondo

Gli Alleati lo bombardarono nel 1942 e nel 1945, danneggiandolo seriamente. Poi, il 25 aprile, con i tedeschi in ritirata, lo occuparono i partigiani, trasformandolo in un fortino. Alla fine della guerra, del Regio Arsenale di Torino, nel quartiere popolare di Borgo Dora, non rimaneva granché, e il declino fu inesorabile. Venne abbandonato e dimenticato per lunghi anni.

L’oblio durò fino al 1983, quando un gruppo di ragazzi e ragazze, giovani uomini e donne torinesi ma non solo, con pala e piccone, calce e cazzuola, decisero di dare una seconda vita all’ex fabbrica di armi, e di farla tornare a essere un Arsenale. Ma, questa volta, un Arsenale della Pace.

A guidare la truppa c’era un impiegato di banca, sposato, padre di tre figli, Ernesto Olivero. In città iniziava a essere conosciuto. Ormai erano quasi vent’anni, dal 1964, che il Servizio Missionario Giovanile, a Torino, si prodigava per raccogliere fondi da destinare ai sacerdoti  fidei donum e ai missionari nel Sud del mondo. Ma anche per rimboccarsi le maniche di fronte a una società che stava cambiando pelle.

L’INIZIO «DA ZERO»

«Avevo 23 anni, ero davvero solo un ragazzo, e fisicamente non dimostravo nemmeno gli anni che avevo». Ernesto Olivero parla seduto su una poltrona di vimini, nel suo studio. La Bibbia in mano, un telefonino non proprio all’ultima moda sul tavolino. Giovane, continua a sembrarlo.

Perché ha iniziato? Non risponde subito, sembra sorpreso dalla domanda. «Per commozione. Quando sai che nel mondo migliaia di persone muoiono di fame non puoi stare a guardare. Un cristiano non può restare indifferente, vuole portare sempre un po’ più di pace di quella che c’è».

Torino nel 1964 era una città in piena bulimia demografica. La Fiat richiamava centinaia di migliaia di persone dal Nord-Est e dal Sud. Con tutto ciò che ne conseguiva. «Mi ero sposato da poco; con mia moglie Maria e qualche amico iniziammo a vederci a casa mia e a darci da fare per aiutare chi aveva bisogno. Eravamo un piccolo gruppo, ma determinati, come se debellare la fame nel mondo dipendesse davvero da noi».

La Chiesa torinese pareva sorda alle sollecitazioni del neonato Sermig. «Come cristiani ci sentivamo nella Chiesa, ma la diffidenza che respiravamo ci faceva male. Qualcuno spingeva per affrontare la Curia a muso duro, ma io non avevo alcuna intenzione di polemizzare con la Chiesa», ricorda Ernesto. «Decidemmo invece, di fare un mese di silenzio. Di stare fermi, di pregare e di ascoltare Dio».

Non era ancora il Sessantotto, ma l’aria che si respirava era già piena di presagi del caos in arrivo, ed Ernesto decise di andare dal cardinale Michele Pellegrino, da poco alla guida della diocesi di Torino: «È stato uno dei tre incontri più importanti della mia vita. Gli raccontai di noi, gli chiesi cosa ne pensasse del fatto che stessimo costituendo un nuovo gruppo, ma mi dimenticai di dirgli come ci chiamavamo. Non pareva entusiasta: “Un altro gruppo? Sentite”, aggiunse, “perché non vi unite a una realtà nuova, nata da poco qui in città, ne ho sentito parlare molto bene. Si chiama Sermig”. Mi pietrificai. Come spiegare al cardinale che il Sermig eravamo noi? Ci fu un po’ d’imbarazzo da entrambe le parti, ma dopo qualche giorno il cardinale mi cercò e ci fece un dono immenso, affidandoci la chiesa dell’arcivescovado come sede».

Fu l’inizio di una grande amicizia. Senza quell’incontro, forse, oggi racconteremmo un’altra storia. «È vero. Oggi, quando mi guardo attorno e vedo questo posto e penso a cos’era nel 1983, stento a crederci. Quando abbiamo iniziato a ricostruire l’Arsenale, sa quanti soldi avevamo? Zero, nemmeno una lira. Qualche giorno fa, a un architetto famoso, abituato a progettare grandi opere, passato di qui, ho chiesto di calcolare quanto mi sarebbe servito, ai costi di oggi, per trasformare questi fabbricati in ciò che sono diventati. Ha preso carta e penna e mi ha detto: “Avresti dovuto avere, allora, 400 miliardi di lire”».

SEMPRE DENTRO LA CHIESA

Negli Anni Settanta la politica cercava di “arruolare” il Sermig. «Non credevamo nella rivoluzione delle masse, noi preferivamo essere fermento per la massa. Soprattutto, volevamo restare nella Chiesa, rimanendo semplicemente cristiani». E ha funzionato. «Sì, e lo devo anche all’amicizia di altri due grandi maestri di vita: Giorgio La Pira e monsignor Luciano Mendes de Almeida. Devo molto anche a Madre Teresa. Andavo a portarle dubbi e a chiederle consigli». Si alza e dice: «Devo farle vedere una cosa. Arriva dal Paradiso». Mi mostra una lettera, è scritta in inglese. È firmata da Madre Teresa, sono parole di amicizia e d’incoraggiamento: «L’ho ritrovata nel nostro archivio alcuni mesi dopo la sua morte. Contiene la risposta a una domanda che mi stavo facendo insistentemente in quei giorni, riguardo al modo di aiutare i giovani in questo tempo così difficile per loro».

UN’ATTIVITÀ IMPRESSIONANTE

Ma come definirebbe il Sermig il suo fondatore? «Un pezzo di Regno di Dio in mezzo a noi». Può suonare audace, ma ha senso, eccome. I numeri del Servizio missionario giovani sono da holding della carità: «Portare avanti una struttura che è attiva in Italia, in Brasile, in Giordania e che si apre a tutte le povertà che bussano alla porta costa 800 mila euro al giorno». Può ripetere? «Ha capito bene. Il primo patrimonio del Sermig sono le 2-3 mila ore giornaliere di volontariato che mettiamo sul piatto. L’altro patrimonio sono i nostri amici, che ci sostengono. Ogni euro che ci viene donato finisce dentro un progetto, a noi non deve rimanere – e non rimane – nulla. La trasparenza deve essere assoluta, il patto di fiducia non può essere rotto. Noi siamo gli stessi del 1964. Ingenui come allora. E poi ce lo dice il Vangelo di Giovanni: nel nome di Dio posso fare ciò che il Padre fa, nulla mi è precluso».

In occasione della prossima Giornata della Pace, papa Francesco pone l’accento sul dramma dei migranti. «E fa bene. In 35 anni abbiamo accolto, solo nell’Arsenale, 60 mila persone, prevalentemente straniere. A loro abbiamo garantito accoglienza, ma anche un percorso di studio, lavoro, inserimento sociale, ricongiungimento familiare. Invece oggi assistiamo a inaccettabili tragedie quotidiane nel tratto di mare tra Africa e Europa. Quei barconi non devono partire, non devono per nessuna ragione lasciare le coste libiche in modo indiscriminato mettendo le persone in pericolo di vita. L’immigrazione è un diritto e bisogna sempre tenere aperti corridoi umanitari, ma quando si parla di un esodo, allora bisogna avere uno sguardo largo. Forse siamo noi che dobbiamo “partire” e fare in modo che i Paesi d’origine non costringano alla fuga intere generazioni. Tutti dobbiamo mobilitarci. E per me cristiano è un’esigenza partecipare: entrare nel Vangelo. E viverlo».

L’ultima domanda: Ernesto Olivero ha scritto molto, qual è la sua lettura preferita? «Questa». E indica la Bibbia. «Sono arrivato all’Apocalisse, capitolo quinto».

Tratto da Credere