Le Lettere di Alessandra Bialetti – Liberi o reclusi?
Domenica mattina. Si aprono le porte del carcere e con la mia chitarra mi dirigo verso la cappella. Passo davanti ad una porta blindata fino all’inverosimile. Non trapela nemmeno un filo di luce. Solo un muro di ferro inespugnabile con un grosso lucchetto a sancire la distanza tra i detenuti “semplici” e la massima sorveglianza. Lì non entra quasi nessuno e non ci si può nemmeno avvicinare per guardare dentro. Mi chiedo che vita si svolga in quel buio, quali siano i visi, gli occhi, le speranze, le disperazioni. Proseguo e mi trovo in cappella: oggi tocca a me animare la messa. Arrivano i detenuti, composti e in silenzio. Giovani e anziani. Nei loro occhi le loro storie. Prendono posto nei banchi e si preparano alla celebrazione. La parola viene proclamata da tre di loro. Non hanno fatto corsi per lettore, leggono come sanno, come possono ma mettono la loro voce a servizio della comunità. Con serietà e impegno. La prima lettura parla di un Dio che accoglie chi pratica la giustizia. Mi fermo su questa parola. Un Dio fantasioso oggi. Come la solito al limite del credibile. Un Dio che parla di giustizia in un luogo abitato da chi forse qualche problema con questo concetto lo ha sulla pelle. In un luogo dove si dovrebbe fare giustizia e rimettere ordine. Mi chiedo che senso possa avere questa proclamazione per i tanti visi attenti e anche un po’ tristi che mi stanno accanto. Sembra quasi una presa in giro. Ma prima della proclamazione della parola giustizia c’è un’altra frase: “Dio non fa preferenze di persone”. Quindi l’annuncio è per tutti, la chiamata è per me che abito il mondo esterno e la chiamata è per loro che misurano la loro vita all’interno di una cella. Ma è possibile? In fondo io non ho fatto niente, in fondo con la giustizia non ho avuto a che fare, in fondo… Eppure queste persone sono lì tra quei banchi esattamente come me. Sono state chiamate a ricevere l’annuncio di una giustizia che parla un’altra lingua, sono prediletti anche loro. E l’annuncio, la promessa che vale per me e loro, è “Rimanete nel mio amore”. E’ questo il luogo in cui ogni prigionia si dissolve, in cui ogni colpa è riscattata. Non ha importanza che vita dissestata abbiamo messo in atto, pagheremo ognuno i conti con la giustizia umana se lo dovremo fare. Ma c’è una giustizia divina che passa ogni confine, che non guarda alle apparenze, alle minoranze, alle esclusioni, ai prediletti o meno. Abbraccia tutti e cambia nome. Diventa amore. L’amore che si fa carne nella carne piagata di ogni singola persona, che si dona a tutti senza chiederne la fedina penale. L’amore che apre la porta blindata della cella di massima sicurezza che in fondo è il nostro cuore serrato dalle paure e dai sensi di colpa. L’amore che rilancia sulla fiducia che la nostra vita possa veramente cambiare. Perché è stato Lui a scegliere noi non viceversa e lo fa ogni giorno anche quando preferiamo le sbarre di una cella alla libertà dell’amore che non chiede ragioni a nessuno. Perché la prigione dell’egoismo in cui spesso ci chiudiamo ci fa più comodo del “pericolo” della libertà che ci spinge a cambiare, a rinnovare il nostro si alla vita. E mentre continua a risuonare dall’ambone la parola giustizia penso a me. A quante volte sulla mia bocca sorge la frase “non è giusto”, a quante volte il mio mondo è solo bianco e nero povero di colori e sfumature di chi non entra negli schemi e rimane fuori. A quante volte il mio concetto di giustizia sia legalista, sia con l’occhio puntato sullo sbaglio da pagare, sia giudizio e pregiudizio per chi non sta nelle regole. A quante volte mi arrogo il diritto di un giudizio sommario quasi fossi chiamata io ad amministrare la giustizia. Meno male che non è così. Chissà che disastri farei. Chiaramente non parlo della giustizia che deve fare il suo corso in presenza di reati ma parlo di una giustizia che cambia il suo volto in amore. E può accadere solo quando non nasce il giudizio, quando non catalogo, quando non etichetto, quando non mi considero dalla parte giusta del mondo, quando lascio la porta aperta ad un’accoglienza ed un ascolto che a volte diventa faticoso, insistente, pesante e chiede di caricarsi il dolore e la sofferenza dell’altro mentre io vorrei invece solo riposare. Quando riesco a dire anche a me stessa che sono un disastro ma c’è una chiamata alla salvezza che mi trascende, che va al di là della mia miseria e fragilità. E davanti al metro d’amore senza limiti con cui sono stata ”misurata”, non posso essere io a blindare nessuno dietro una porta di massima sicurezza. Cosa differenzia me da un detenuto? Sicuramente il fatto che io, dopo qualche ora “dentro”, esco. Ma se torno nel mondo con un cuore chiuso non sono anche io una reclusa?
Non è facile partecipare alla messa controllati a vista dalle guardie carcerarie. Che ti spogliano all’ingresso di ogni effetto personale e ti buttano dentro un mondo che non conosci. Ma te lo dimentichi quando accanto a te c’è lo sguardo di una persona che, nonostante tutto ti sorride, sta lì come te ad ascoltare una parola di vita che possa cambiare il concetto di giustizia in amore, che possa cambiare gesti di morte in gesti di rinascita. Ti dimentichi tutto quando allo scambio della pace senti solo il calore dell’abbraccio. E quando alla fine risuona un grazie solo perché hai strimpellato due accordi di chitarra e ti rendi conto che hai ricevuto molto di più.
E allora mentre ripercorro il corridoio verso l’uscita e ripasso davanti alla porta blindata della massima sicurezza capisco tutto ciò che mi serve. Non sono io che ho scelto di entrare in carcere stamattina, ma Qualcuno mi ha scelto e mi ha chiamato perché facessi esperienza io per prima di un amore che supera ogni concetto di giustizia, di un amore che non emargina ma vive di fiducia, di una mano che si protende sempre nonostante tutti i miei sbagli. Era per me la chiamata a rimanere nel Suo amore e a condividerlo con altri che nel cammino sono caduti ma, se sono lì in quella cappella, composti, attenti e fiduciosi, è perché desiderano quanto me aprire il cuore all’annuncio della resurrezione.
Tornerò tra quelle mura, e presto incontrerò le loro storie. Che mi parleranno sicuramente di tanti errori, cadute, egoismi, sofferenza ma anche della possibilità di un Amore più grande che chiede solo di travalicare ogni porta sbarrata e blindata.
Stamattina ero io la carcerata che il Signore ha visitato e alla quale ha proclamato “non faccio preferenze ma ti offro un amore in cui rimanere”. E soprattutto “quando cambierai il tuo concetto di giustizia?”
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.