Blog / Terry | 07 Maggio 2018

Le Lettere di Terry – Il distacco: clausura nel mondo

Avevo 15 anni. La vita mi andava alla grande. Salute da vendere. Vita sociale a mille: con due mie amiche “gestivamo” l’organizzazione dei sabati sera. A scuola ero nella rosa delle “brave”. Trascorrevo le settimane tra scuola, amici e weekend in montagna: con mio papà “scappavamo” in montagna ogni due settimane: senza la mamma mangiavamo tutte le golosità sulle quali lei ci teneva a stecchetto e sciavamo come se non ci fosse un domani. Stavo bene. Accidenti se stavo bene! Eppure ogni domenica sera-lunedì mattina sentivo dentro di me scavarsi un buco nero: non ci prestavo attenzione, la mia “bella vita” mi rendeva facile stenderci un velo e dimenticarmene, ma come una carie che si trascura, il pozzo si scavava ogni settimana di più, e io mi ostinavo a velarlo, a nasconderlo, a negarlo. Lo facevo non solo perché la sua presenza mi metteva a disagio, ma soprattutto perché non ne capivo, né intuivo l’origine. E tira, tira, tira….un giorno crollo: inizio a piangere e non mi fermo più. Il mio migliore amico del tempo, col quale vi era un’intesa quasi perfetta, quella per cui le parole a volte non servono, mi telefona: io piango, ma non so dirgli il perché. Con la sua moto attraversa la città e si fionda a casa mia: suona alla porta, io non lo aspettavo. Mi raccatta e insieme andiamo in camera: condivido pure con lui il mio inspiegabile disorientamento con i fatti di cui sopra e lui, come un laser: “Sei come mia sorella?” Eh sì, perché lei – un prodigio di vitalità, vivacità e ribellione, di quelle che dan filo da torcere ai genitori, pochi anni prima aveva freddato tutti, fidanzato compreso, dicendo che voleva entrare in clausura, in meno di 10 giorni ha lasciato tutto e tutti, e ancora oggi – quasi 30 anni dopo – è felicissima, convinta della sua vocazione, sviluppata poi in un eremitaggio, benedetto dal vescovo. Il mio amico non è mai stato di molte parole, ma ci leggevamo l’anima, ed è andato subito al punto. La sua domanda aveva fatto centro, lo sapevo, lo sentivo, ma non conoscevo la risposta. Il giorno dopo mi ha portata nel convento di clausura di sua sorella per incontrarla e provare a capire. Dopo l’entrata dal civico, si proseguiva in un androne enorme: qualche quadro e non ricordo mobili. Ricordo solo che avevo davanti un portone gigantesco, che copriva tutta la parete davanti a me e sopra, scritto a caratteri cubitali: “DIO MI BASTA”. Come scordarlo?

Il colloquio fu intenso, non particolarmente lungo e simpatico. Lei era, è, una splendida donna, di quelle che fan girare la testa agli uomini: pelle chiara, qualche lentiggine, capelli rossi e occhi azzurri. Ovviamente la versione claustrale aveva la sobrietà dell’abito e del velo, ma quegli occhi e quel sorriso non li dimenticherò mai. A dispetto di chi mi può prendere per pazza, in quegli occhi ho visto un frammento di paradiso: il suo sorriso era pieno e incantevole, la sua voce frizzante e allegra e parlava del suo amore, Cristo, e della gioia che ogni giorno provava pur chiusa in quella mura, lontano da tutto e da tutti. Non mi ha nascosto le fatiche, ma mi ha svelato anche parte di quegli aneddoti simpatici che “fuori” non si conoscono. E’ stata una bella chiacchierata e con molta serenità sentii che quella non era la mia strada, ma capii anche che Dio non era un personaggio secondario della mia vita, compresi che per essere felice dovevo dargli un posto da protagonista.

In realtà, quasi 30 anni dopo capisco che vuole essere  IL protagonista, l’unico.

Nei primi 10 anni qualche tentativo in quella direzione l’ho fatto, ma molto confuso e raffazzonato, come poteva essere quello di una giovane vita, non ancora adulta. Poi nei 10 anni successivi è iniziata la parte dura: dovetti capire molto alla svelta che la via del distacco da ciò cui ero attaccata (tutto!) era l’unica strada per non perdere la salute. Lo capii vis-à-vis della sfida dettata dal mio fallimento matrimoniale e dall’incubo che ne è seguito per la crescita, la protezione e l’educazione di mio figlio. Ci ho messo 10 anni per capirlo e sto ancora combattendo per riuscire a concretizzare questa intuizione. La prima fase è stato il distacco dalla creatura: ci stavo veramente perdendo la salute, l’equilibrio mentale: o mi staccavo dalle mie speranze e aspettative sul futuro di mio figlio, o avrei fatto i conti con psicofarmaci ed esaurimenti nervosi. Credo che in questa faccenda del distacco non si arrivi mai alla piena capacità, al 100%, figuriamoci quando si parla di figli in generale, e per di più dell’unico figlio che ho io: però credo di poter dire di aver fatto discreti passi avanti, che mi hanno consentito di spedirlo negli US per un anno, restando qui sola. La sfida in questo campo è comunque sempre aperta. Poi vi era l’aspetto sentimentale: stare sola, con tutte le sfide del caso, non è stato facile. Una o due storie importanti le ho vissute, buttandoci tutta me stessa e tutte le mie comprensibili aspettative, speranze di felicità e di ricostruirmi quella famiglia numerosa tanto desiderata, ma il fatto che non siano andate avanti, i lutti interiori che ne sono derivati, ha aggiunto peso ad una croce che già aveva un peso considerevole. Poi una storia meravigliosa è iniziata e se oggi, ancora dopo 6 anni, procede (fortunatamente a gonfie vele) è perché ho imparato a vivere, anche quella, col distacco di chi non ripone tutte le sue speranze nell’amato, ma mantiene il baricentro in cielo.

La capacità di distacco, di abbandono nelle mani di Dio e nella Sua Provvidenza, nel tempo, erano anch’esse migliorate. Devo dire che tutto sommato mi sentivo abbastanza soddisfatta di me: inserirmi in questo blog ha rivelato, anche ultimamente, delle sacche di resistenza all’abbandono e alla fede in Dio, che mi erano rimaste nascoste. Deo gratias che le ho scoperte, però uffa…..

Rimane l’aspetto lavorativo: ho già sviluppato nelle mie lettere precedenti la stanchezza atavica che sto vivendo, la paura per il futuro, l’angoscia spinta dal senso di precarietà costante, nonostante tutti i miei sforzi e relativi successi lavorativi. La disperazione, la rabbia, il non farcela più…. Alla fine, chiedo solo “la giusta paga” di cui parla il Vangelo, non cerco l’opulenza dei grandi imprenditori, ma solo un po’ di serenità.

Dopo un aprile da incubo, in cui la messa in pratica del “Ciò che Tu vuoi, Quando Tu vuoi, Come tu vuoi” di cui parlavo recentemente, mi ha salvata ancora dall’esaurimento e in maggio ho avuto qualche momento di vera serenità. Sorrido, perché stavo talmente tanto male ultimamente, che il fatto di avere degli spazi di serenità mi ha fatto commuovere davanti al tabernacolo, e mi ha fatto sentire così grata da non riuscire neanche ad esprimerlo in parole e non riuscire a contenerlo, se non in un silenzio di contemplazione.

Momenti. Piccoli. Fugaci. Intensi. Rapidi. Momenti.

Oggi è domenica e alle 6.00 del mattino mi arriva una comunicazione che, nuovamente, mi prostra: ancora una volta non si tratta di una mia imperizia, ma di una cosa che, elegantemente, chiamo sfortuna cieca. Non ho pianto. Una mia amica dice che forse non ho neanche più le lacrime per piangere. Lavoro dalle 7.00 alle 9.00, doccia, SMessa e fra poco mi ci devo rimettere, dopo aver pranzato. Non piango. Non mi dispero. E’ vero: non ho più le forze neanche per fare quello.

L’angoscia è lì al banchetto della mia anima, nella quale si satolla, mentre io lavoro per affrontare l’ennesimo imprevisto, l’ennesima difficoltà: non ho la più pallida idea di come potrò risolverla e si avvicina anche un agosto che, come il drago cattivo delle fiabe, si avvicina con il suo odore sulfureo e le fiamme che cercano di spaventarmi. Ma non ho energie. E’ vero, ma è anche vero che ormai respiro e mastico le giaculatorie di affidamento e di abbandono, e non come sterile ripetizione come qualcuno in passato ha insinuato che fosse la mia preghiera, ma come un’invocazione che fondamentalmente rispecchia il “Signore vieni a salvarmi: corri presto in mio aiuto“, quindi no…..il mio cuore rifiuta la ripetizione sterile, ansima,  annaspa e ripete, ma con sincerità.

“Corri presto in mio aiuto”, ma cos’è? Il soddisfacimento dei propri desideri temporali? No…col sorriso, ma con infinita stanchezza dico no. Spesso arriva anche quello, ma con modalità e tempi diversi dai nostri, che ci trascendono……tanto per cambiare!

Oggi, la lotta interiore con l’angoscia fagocitante, mi ha ricordato le prime battaglie, quelle dei primi anni, quelle per maturare quel distacco da mio figlio (che ovviamente non ne pregiudica la mia totale dedizione, un distacco interiore da speranze e aspettative, fisiologiche per un genitore, ma che lo aiutano a lasciar libero il figlio): oggi sentivo, sento, la stessa tensione interiore che, metaforicamente parlando, può essere assimilabile a quello sforzo fisico necessario per tenersi in vita, quando stai nuotando in mare aperto o sei attaccato ad una parete in montagna, quella tensione in cui non puoi permetterti di mollare, nonostante la fatica ti attacchi e ti fiacchi lo spirito, oltre che il corpo. E quindi un’altra volta mi compare davanti il concetto di “distacco”: ma mannaggia, anche dalle giuste aspettative di chi lavora sodo e onestamente mi devo staccare? Ma anche da quel minimo di serenità economica necessaria per campare mi devo staccare? E poi? Eccchecavolo! Che palle! Tutto devo mollare, tutto!

DIO MI BASTA! Tante volte in questi anni mi si è affacciata all’anima l’idea di avere una paradossale vocazione di “clausura nel mondo”. Tutto questo dannatissimo “distacco” alla fine cos’è, se non un vivere in funzione di “Dio mi basta”? Mica facile…. E devo dire che mi son ribellata parecchio a quest’idea, perché non mi sembrava giusta. Non poteva ficcarmi in clausura allora? Eh no….perchè doveva nascere quel mostriciattolo di piccolo-grande-uomo che, chissà che farà nella sua vita! Eh no….perchè la mia strada doveva essere nel mondo: lo so! Ne sono certa! Perché mai sono ritornata dubbiosa su quella decisione di quella giornata di 30 anni fa. E’ qui che devo stare. Ma neanche un normalissimo attaccamento al frutto del mio lavoro? Risposta: no!

A questo punto mi è evidente: la mia è una strada di “clausura nel mondo”. Dio vuole che io trovi la mia pace solo in Lui: anche questo è il frutto delle mie sciagurate preghiere “Che io possa vivere in Te, per Te e con Te” e come al solito mi prende alla lettera. Che palle? Sì, un pochino….ma so che se assecondo poi sarò felice.

L’angoscia comincia a vedersi sparire i manicaretti, ma se ne sta ancora ben salda alla poltrona della mia anima e non mi vuole mollare. L’intuizione di dovermi staccare da tutto e, veramente, vivere e riposare in Dio, con un abbandono totale, totalissimo è lì che mi guarda e festeggia: sa che sta per prendere il posto dell’angoscia e gongola. Io faccio ancora finta di non farci troppo attenzione. Ricordo Don Fabio Bartoli di cui recentemente leggevo le parole: “Dobbiamo essere capaci di portare il peso di una “doppia cittadinanza”, esperienza che può essere, e non di rado è, lacerante. Già l’antica lettera a Diogneto ritrae i primi cristiani come esseri anfibi che vivono nelle città del mondo come a casa propria, e a casa come esuli della patria celeste; persone che non si distinguono dai loro vicini in molti aspetti della vita…..Oggi più che mai è urgente ed esigente esibire questo “doppio passaporto”, avere cioè la forza di essere “normali” e “strani”, o come diceva qualcun altro di vivere con i piedi a terra e la testa in cielo.

Vado a Messa: quel coadiutore mi sta diventando simpatico quasi come il parroco. Vive bene il ruolo e le sue omelie ultimamente sono belle e ricche di spunti. E quell’accidente di prete cosa fa? Apre bocca e nomina il distacco! E che palle! No! Ma è una congiura! Uffa! Eppure il vangelo parlava del Consolatore! Anche delle persecuzioni in seno ad un ambiente che dovrebbe essere famigliare. Le letture citavano le avventure e disavventure di San Paolo: perché, o prete, inizi a parlarmi usando proprio il termine “distacco”? E perché, o prete, mi rifili la storia del seme che è microscopico, insignificante, destinato a marcire sotto terra e morire a se stesso, per poter diventare pianta? Perché, o prete? Perché le chiese son luoghi pericolosi. Ecco perché! Uffa! Passatemi quest’ultima affermazione.

Io lo so che poi sarò felice e, perdinci, se questo non mi renderà ancora più forte, non so cos’altro potrebbe! Lo so, lo so….ma uffa! Sta storia di marcire e morire a se stessi, di non fare opposizione alla Croce che si ha, è un po’ pesantuccia! Va bene, ok….si farà, però mentre andavo a prendere la comunione non ero felice, ma credo che sia normale. Alla fine morire a se stessi richiede un tempo di lutto interiore, che va accettato, accolto e vissuto.

Cosa devo fare? Rendermi disponibile e poi ci penserà Lui. Come quando ho chiesto la Grazia di perdonare quella persona che avrei volentieri distrutto per cui faticavo a tenermi a cuccia, e poi un giorno, di quella rabbia cieca, non vi era più traccia. Quella persona non mi stava simpatica, ma non provavo più odio nei suoi confronti, ma solo generosa compassione dei suoi limiti. Una Grazia! Solo una Grazia! Era evidente che si trattava di un dono ricevuto gratuitamente, perché – da sola – i miei istinti erano ben diversi. Alla fine è solo questo che vuole Dio: che molliamo la presa e lasciamo fare a Lui: “Trovate in me la vostra dimora. Allora troverete il posto che io vi preparo”. Tempi? Non pervenuti! Mah…diciamo che spero nella Madonna: siamo nel suo mese e di solito è di buonumore e distribuisce grazie! Eh sì, perché anche in questo caso, mica ci credo che posso arrivarci con il mio impegno e la mia buona volontà. Non ci casco più! Questo è “affar di Spirito Santo”, mica mio! Io posso romperGli le scatole e continuare a tampinarlo perché elabori la mia pratica, sperare che la Madonna interceda e per il resto sperare in tempi ragionevoli. E poi? E chi lo sa? Bisogna chiederlo a Lui!

Panorama attuale della mia anima: problemi lavorativi a banchetto, gaudenti e satolli; angoscia ancora seduta comoda, ma imbronciata e con lo stomaco chiuso; l’intuizione della necessità del distacco è in attesa di trasformarsi in concretezza. Che immagine posso legare al distacco? Ad una farfalla, bella, colorata, elegante, che svolazza per la mia anima rendendola un luogo gradevole e con una dolce brezza, ma delicatissima e soggetta a morire rapidamente a causa delle correnti d’aria, dei colpi di freddo imposti dai miei limiti e dalle mie debolezze. Ma ci sono sempre nuove farfalle che possono rinascere, l’importante è tenere l’anima piena di luce e di fiori, ai quali la farfalla-distacco possa nutrirsi. La luce, vabeh….quello è facile, è lo Spirito Santo che sarebbe bene fosse di casa in modo abbastanza stabile, e i fiori sono un po’ tutte quelle cose che piacciono al buon Dio e ve ne è un’infinità varietà. Vi faccio sorridere: sapete qual è l’organo attraverso il quale si nutre la farfalla? La “spiritromba”! L’ho scoperto ora, l’avevo studiato e dimenticato. Ci sta come strumento di nutrimento del distacco, vero? Beh….comunque prima di arrivare a nutrirsi, la mia capacità di distacco deve ancora evolversi dallo status di “bruco” in cui si trova. Altro che spiritromba!

Francamente non so cosa aspettarmi dal futuro e non ho la più pallida idea di come la Provvidenza si manifesterà per il mio lavoro, ma faccio ciò che posso, elaboro il mio lutto interiore di morte a me stessa, tampino lo Spirito Santo perché si spicci a darmi una mano, per il resto mi esercito a mollare la presa e starò a vedere. Come diceva recentemente una cara amica: resto concentrata su “hinc et nunc”.


Radicata a Milano, ma cittadina del mondo. Prima di tutto sono mamma, purtroppo single da quasi subito. Contrariamente al mio sogno di essere moglie e madre di una famiglia numerosa, la vita mi ha costretta a diventare capo-famiglia single, una professionista e ora pure imprenditrice. Da sempre svolgo lavori di “servizio alla persona” e, al di là dei più diversi ambiti professionali così attraversati, il comun denominatore è che mi appassiono al cuore delle persone che incontro, alla loro storia e al loro vissuto. Per me la scrittura è introspezione e il confronto è crescita. Amo definirmi devota miscredente perché il mio cammino è strano: a gambero, a zig-zag, non scontato, non sempre ligio, in ricerca, nel quale però cerco sempre di avere onestà intellettuale.