Se “mi” racconto mi conosci – Due donne unite dal dolore e dalla forza del perdono
Continua la rubrica di Alessandra Bialetti «Se “mi” racconto mi conosci». Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]
Sembrano due normali amiche. Passeggiano, sorridono, un occhio alle vetrine dei negozi, un altro ai cellulari che ogni tanto squillano. La giornata è bella, il cielo terso. Ma nessuno, in questa strada di Grosseto, immagina che – incarnato nelle due signore a braccetto – sta transitando un miracolo: il prodigio dell’amore, del perdono, della riconciliazione. Claudia Francardi, 45 anni, e Irene Sisi, 39 anni, sono due donne divise da una tragedia. L’una è la vedova del carabiniere ucciso vicino al rave party di Sorano il 25 aprile 2011, l’appuntato scelto Antonio Santarelli. L’altra è la mamma del ragazzo che l’ha ucciso, Matteo Gorelli, 22 anni, condannato a venti anni per l’omicidio.
Dovrebbero, o potrebbero, odiarsi e invece sono diventate amiche. E sapere il motivo per cui sono tante volte insieme non può che straziare e aprire il cuore nello stesso istante. Ad unirle non è stata una scelta inconsapevole, legata alla depressione che le ha colte nella tragedia. Il loro è, come lo chiamano le due protagoniste, «un percorso di riconciliazione», il dolore che supera l’odio e la rassegnazione. E che diventa, grazie anche alla fede che le accomuna, una fonte di nuova luce. Quale? Quella del recupero di Matteo che nella comunità di don Antonio Mazzi a Milano si è iscritto all’università. Ma anche quella di aiuto a tante altre persone vittime di violenza, sia dalla parte di chi la subisce e di chi, invece, l’ha messa in pratica.
Abbandonare l’inganno dell’ira, la voglia di far stare male quello che ha distrutto la tua famiglia, lasciare la fortificazione costruita per paura di essere giudicata perché «mamma di un assassino», cancellare la vergogna, tutto questo non è stato facile. Ci sono voluti mesi e mesi per convertire il dolore e «riuscire a dare un senso alla morte di mio marito», dice Claudia Francardi. E, parallelamente, trovare la forza di riconoscere i propri errori di madre e partecipare alla messa commemorativa per l’uomo ucciso da suo figlio con tutti i colleghi dell’Arma presenti. Come ha fatto Irene Sisi. Questi risultati non sono arrivati da soli, entrambe hanno lavorato in maniera profonda con il loro intimo. Claudia non ascoltando le sirene della vendetta. Irene rielaborando un passato di violenze che ha vissuto in famiglia e in cui sono stati coinvolti anche i figli.
Dopo il dramma, si sono ritrovate a ripartire insieme da un ideale anno zero. Tutto è iniziato da una lettera scritta da Irene e dal padre di Matteo, Francois, alla vedova del carabiniere. «Decisi di farlo – parte Irene Sisi mentre i sorrisi di entrambe si liquefanno – perché mi sentivo responsabile anche io di quello che aveva fatto mio figlio, volevo andare da lei anche se, allo stesso tempo, temevo di essere invadente. Per cui decisi di scrivere ma non per avere sconti di pena come è stato detto». A Claudia fece piacere quella lettera «perché mi chiedevano perdono e ci lessi un gesto di grande umiltà – racconta la vedova – da qui maturò la voglia di conoscersi, all’inizio un po’ frenata dagli avvocati perché c’era ancora rabbia». «L’incontro avvenne a ottobre 2011 – raccontano entrambe con le lacrime – nei primi momenti c’era imbarazzo ma alla fine ci abbracciammo.
E ci fu anche un pianto liberatorio». «Avevo paura – continua Irene – ed ero distrutta perché mezz’ora prima Matteo, disperato e nel corridoio del carcere, aveva urlato ai nostri avvocati: “Scusatemi con mia madre”». Poi ancora più commossa continua: «Claudia stava molto male ma mi disse che era anche lei una madre e che non mi voleva giudicare». Il passo successivo avvenne tre mesi dopo la visita nella clinica di Montecatone (Imola) dove era ricoverato Antonio Santarelli (per oltre un anno in coma irreversibile). «Nonostante il fatto che ogni giorno veniva posturizzato (ndr lo mettevano su una carrozzina) – ricorda la vedova – era un pupazzo senza fili, i suoi bellissimi occhi azzurri erano persi così come il 90% delle sue funzioni celebrali. Non odorava più di Antonio, addosso gli sentivo solo i farmaci. Stavo sempre male quando andavo a vederlo e anche alcuni miei amici non avevano il coraggio di venirci. Spesso gli sussurravo nell’orecchio che doveva volare in cielo e non si doveva più sacrificare per noi. Quando morì , l’11 maggio 2012, fu una liberazione».Irene lo vide nella fase in cui il fisico lo stava abbandonando del tutto.
«Fu devastante e a un certo punto volevo fuggire -racconta – in cuor mio avevo sempre sperato che si risvegliasse ma quel giorno mi trovai di fronte alla responsabilità di mio figlio. Fu difficile guardarlo e tenerlo per mano». «Gli chiesi perdono», continua con un filo di voce. E Claudia, interrompendola, aggiunge: «Sono convinta che ti sentì». «Sono stata giorni e giorni con il suo viso davanti a me – riprende Irene – poi raccontai tutto a Matteo. E gli dissi anche: “E meglio che Antonio non si risvegli mai più”». A questo punto il loro dolore si era fuso: Irene e Claudia avevano deciso di non lasciarlo vuoto e di riempirlo con un prospettiva «diversa da quella dei processi, per praticare la comprensione e vivere nella luce». Claudia, ora più tranquilla, riparte: «L’incontro con Irene e Matteo ha dato un significato a quello che era accaduto ad Antonio». E torna con la memoria a qualche tempo prima di quel 25 aprile: «Mio marito mi raccontava di aver avuto una sensazione profonda di morire da giovane e per questo aveva detto a nostro figlio Nicolò che doveva essere pronto a qualsiasi evento. Aveva poi la fissazione dei ragazzi e, quando per lavoro li fermava ai rave party, era inflessibile. Non riusciva a togliersi dalla mente un ragazzino che era stato ucciso da un ubriaco. Ecco perché Antonio con il suo sacrificio ha salvato la vita di Matteo».
Dopo i segni della vita eterica, Claudia argomenta con lucidità il suo passo: «Da parte mia non si è trattato di un perdono (questo compete a Dio) ma di una riconciliazione, ho deciso di stare accanto a questo ragazzo e non essere sopra di lui. Quando gli dettero l’ergastolo, in aula mi sentii male, mi prese il freddo. E lui invece aveva il sorriso perché, come mi spiegò dopo, riteneva giusta questa pena. Qui ho sentito che stava accadendo qualcosa grande». Così Claudia prega per lui e quando lo ha incontrato a Milano in comunità, gli ha regalato il rosario che aveva preso poco prima della tragedia a Medjugorje. «Tanti non hanno capito questa via insolita – continua – il mio non è buonismo, Matteo deve scontare la pena ma in un posto giusto. E deve farlo per Matteo non per Antonio». «Il male di vivere di mio figlio sarebbe esploso comunque, sono stati tanti i segni che io ho sottovalutato – conclude Irene – ora per me Claudia è diventata fondamentale, è una persona della mia famiglia e ho fiducia in lei. Così anche Matteo dovrà essere presente nella vita di questa donna e in quella di suo figlio.
Tratto da IlTirreno