Blog / Luciano Sesta | 22 Marzo 2018

Le Lettere di Luciano Sesta – Quando la lettera uccide. Le dimissioni di Viganò, la verità e la cultura delle fake news

Ora che monsignor Viganò si è dimesso, ecco esultare tutti coloro che, sospettando dietro il “taglia e cuci” dell’ormai famosa lettera di Benedetto XVI una maliziosa strategia di accreditamento di papa Francesco ai danni del “vero” pensiero del papa emerito, sembrano finalmente in possesso della dimostrazione di aver visto giusto. Eppure, basterebbe leggere senza pregiudizi il testo delle dimissioni e, soprattutto, la risposta di papa Francesco – che dichiara di accettare “con fatica” la decisione di Viganò – per ridimensionare l’ipotesi complottistica che piace ai più, e per rendersi conto che, per quanto la vicenda non sia stata esemplare quanto a capacità comunicative, si deve escludere che ci sia stata manipolazione, inganno o menzogna.

Il contesto dell’intera vicenda, a ben vedere, era quello di una lettera riservata, di cui sono state rese note, presumibilmente con il consenso dell’autore, solo le parti di pubblica utilità, come quelle in cui il papa emerito sottolineava la continuità fra il proprio pontificato e quello di papa Francesco, omettendo quelle che, pur esprimendo il pensiero di Benedetto XVI sull’iniziativa editoriale di cui si parla, non si è ritenuto prudente divulgare del tutto. E il motivo, vista anche la reazione di molti nostalgici di Benedetto XVI sugli sviluppi della vicenda, era intuitivo e certamente condivisibile: evitare di alimentare dannose polemiche sul presunto tradimento che il pontificato di Bergoglio starebbe operando a spese di quello di Ratzinger. Polemiche che avrebbero messo in ombra, fino a smentirla, l’affermazione contraria dello stesso Benedetto XVI. Con un effetto comunicativo globale che, questa volta sì, sarebbe stato menzognero, a dispetto della parziale verità, ma pur sempre “verità”, divulgata sin dall’inizio dall’Ufficio Comunicazioni vaticano.

A questo riguardo bisognerebbe allargare lo sguardo, senza lasciarsi ricattare dalla logica della comunicazione mediatica che il web ci sta imponendo, costringendoci a considerare una grave e maliziosa manipolazione della verità quella che, in base al buon senso e al di fuori di un clima polemico che induce a perdere il senso della misura, non lo è affatto. Aver pubblicato solo le affermazioni positive omettendo quelle negative non ha fatto cambiare alcun significato alla lettera, come hanno erroneamente ritenuto in tanti. Le affermazioni positive, infatti, riguardavano il rapporto fra i due papi e la loro presunta contrapposizione, quelle negative, invece, la personale disponibilità di Ratzinger a partecipare, avallandola, a un’opera di celebrazione della teologia di papa Francesco. Rivelare la seconda parte della lettera, dunque, non ha fatto cambiare il significato della prima parte, che è rimasto vero, come lo sarebbe stato anche qualora la seconda parte non fosse mai stata rivelata. L’effetto di insieme, certamente, non è stato dei migliori, ma nella sostanza non si può parlare di inganno, di menzogna o di manipolazione.

Chi invece continua a parlare di falsificazione è vittima inconsapevole della cultura delle fake news, da cui si sta lasciando condizionare nel modo più insidioso, perché meno riconoscibile. È per un’acritica reazione a questa cultura, infatti, che ora chiede “tutta la verità e nient’altro che la verità”. Come se la diffusione del falso potesse essere combattuta con la più selvaggia e spudorata rivelazione del vero, anche quando ciò potrebbe ferire, dividere, creare incomprensioni e mancanza di carità reciproca. Eppure, proprio i cattolici, dovrebbero sapere che la “verità” non è un idolo a cui sacrificare tutto il resto, ma che esiste un preciso compito di viverla “nella carità” (Ef 4, 15).

Sotto la pressione della battaglia contro le fake, peraltro, si dimentica un altro piccolo ma decisivo dettaglio, e cioè che “non dire la verità” non sempre equivale a “mentire”. Dipende dal contesto. Ci sono verità “dovute”, e verità “non dovute”. Omettere le seconde non significa “mentire”, che, come dice Sant’Agostino, è invece “dire il falso con l’intenzione di ingannare”. E qui sembra che nessuno lo abbia fatto.

Un’ultima osservazione a proposito della “rivelazione” del terzo paragrafo della lettera, in cui il papa emerito lamenta che alla redazione dell’opera di commento teologico sul pontificato di papa Francesco sia stato invitato Hünermann, un teologo che, durante i pontificati precedenti, in particolare quello di Wojtyla e dello stesso Ratzinger, è stato un deciso oppositore del Magistero papale. Anche qui si è levata l’esultanza di chi ha ritenuto di aver visto giusto sin dall’inizio: ecco che, per la celebrazione della teologia di papa Francesco, si recluta un teologo da sempre critico dell’autorità del pontefice, un nemico della Chiesa dunque. Una conferma, subdola, che nell’era Bergoglio si sta facendo di tutto per distruggere i pontificati precedenti. Non ci si è accorti, evidentemente, dell’effetto boomerang di questa trionfale conclusione.

La domanda, in effetti, è la seguente: se chi ieri criticava Wojtyla o Ratzinger è oggi considerato critico del Magistero, come può chi oggi critica Bergoglio esserne considerato un fedele seguace? Inoltre: se si può criticare un documento pontificio come Amoris Laetitia senza però criticare il papa, come avrebbero fatto i quattro cardinali dei famosi “Dubia”, perché non potrebbe valere lo stesso per chi critica un altro documento pontificio come Veritatis Splendor? Il ragionamento è fazioso: mentre si può criticare Amoris Laetitia (papa Francesco) rispettando il magistero pontificio (i quattro cardinali), non si può criticare Veritatis Splendor (Wojtyla) senza essere considerati “un avversario del magistero papale” (Hünermann).

Insomma, non si può far credere che quando a criticare il Magistero è Tizio si può fare, mentre quando è Caio no. Se, poi, possiamo criticare un papa e il suo magistero contrapponendogli il “magistero di sempre”, come si sente spesso ripetere dai “conservatori”, stiamo non solo rendendo uniforme un magistero che, storicamente, si è spesso modificato pur senza cambiare la sostanza, ma stiamo anche lasciando credere che al “magistero di sempre” non appartenga il magistero del papa in carica. E se lo pensiamo, dovremmo dirlo apertamente, ponendoci così sullo stesso piano di Hünermann quando critica Benedetto XVI. Insomma, un vero disastro.

Credo che sia sempre utile, per tutti noi – e a cominciare da me, naturalmente – ricordare 1 Cor 11-13, che sembra riprodurre questo dibattito, in cui a un papa, a un vescovo, a un filosofo o a un teologo, ne è contrapposto un altro, con relative tifoserie: “Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «E io di Cefa», «E io di Cristo!». Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?”.

 

Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica