Blog / Davide Vairani | 10 Gennaio 2018

Le Lettere di Davide Vairani – Maria

Sono consapevolmente recidivo. Non riesco nemmeno a contare tutte le volte che perdo la strada e mi smarrisco. Vedo bene il selciato, so riconoscere le insidie improvvise di una stradina di campagna, intravedo la destinazione aldilà degli arbusti che si ergono alti come per distrarne la visibilità. Ci vedo bene, eppure sbaglio, mi perdo, faccio una fatica indescrivibile per ritrovare la via. A volte passano settimane, altre solo qualche ora, altre ancora mesi. Sono recidivo. E’ come se in ogni gesto che compio mi mancasse sempre qualcosa, quell’ingrediente segreto che con un solo pizzico può rendere splendido un mediocre piatto da portata. Siamo impastati di infinito anche quando non ne siamo coscienti. Per questo ci cade addosso quella strana nostalgia di Qualcosa che ci è stato promesso fin dall’inizio ma che non tocchiamo e non odoriamo. E mandiamo anche a quel paese. Almeno a me succede così. Mi manca sempre qualcosa, pur sapendo benissimo di che pasta è fatto quel pizzico di lievito.

In questi primi giorni del nuovo anno ho pensato spesso a Maria (il bambino che si perde, che cosa fa, se non cercare la mamma con le lacrime agli occhi?).“Da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19; 2,51b). Luca riporta questa frase ben due volte nel suo vangelo e deve per forza essere importante. Francamente non mi è mai sembrata particolarmente significativa, anzi. Mi ha sempre rimandato l’idea che la Mamma di Gesù fosse come rassegnata al destino di suo Figlio, destinata a non capire mai che cosa le stesse accadendo per rifugiarsi in un silenzio triste e muto. Non parla quasi mai Maria nei Vangeli. Una sorta di affidamento cieco, a metà tra il fideismo e la rassegnazione malcelata ad un destino imprevedibile al quale non puoi dare del tu. Ho scoperto – al contrario – che in quella frase ci sta scritto il segreto per usare quell’ingrediente segreto capace di dare gusto ad un piatto misero. Due verbi e un nome cuciti insieme: custodire, meditare e cuore. In entrambi i passi del Vangelo di Luca, la frase di Maria viene scritta dopo che sono accaduti due fatti stra-ordinari, che nella narrazione hanno in comune il verbo “stupore”. Prima scena: i pastori accorrono alla grotta di Betlemme. Seconda: Maria e Giuseppe smarriscono Gesù al tempio e se ne accorgono dopo tre giorni. Tutti quelli che ascoltano i pastori e il piccolo Gesù spiegare le scritture nel tempio rimangono “stupiti”. Il dettaglio è lo stupore. Traumatizzati. Il verbo greco usato da Luca è  “thaumàzein”. Traumatizzati. Al contrario dell’uso comune che ne facciamo oggi (“essere traumatizzati”, cioè presi da uno schok, buttati a terra), il verbo in greco indica la meraviglia di chi, improvvisamente, viene a trovarsi di fronte a qualcosa di inatteso e di inaudito. E subito corre via, entusiasta, per gridare a tutti che cosa ha visto, tanto si resta colpiti da una cosa stra-ordinaria, mai vista prima. Anche Maria è stupita. Ma quello che mi colpisce è il modo con cui reagisce a questo stupore. “Custodiva tutte queste cose”: la sua reazione non è di movimento, non corre da nessuna parte, anzi si ferma. Perché si ferma? Luca nel testo greco usa il verbo “custodire” all’imperfetto. Ciò che è iniziato nel passato continua a realizzarsi nel tempo che prosegue. Maria “conservava” (“synterein”), che potremmo tradurre con “conservare insieme”, “trattenere tutto con cura, senza perdere nulla”. Maria sa come non farsi prendere dall’emozione, dal sentimento. Maria sa che ciò che ha visto con i suoi occhi è talmente grande che deve entrare in ogni cellula, in ogni parte del suo corpo, della sua mente, della sua anima per fare effetto. Maria sa che una cosa grande, una talmente stra-ordinaria, deve essere lasciata entrare nel “cuore” perché possa essere compresa e generare una vita nuova. E come fa a saperlo? “Meditandole nel suo cuore”: symballein”. “Synterein” (conservava) e “symballein” (“confrontare,  mettere insieme”, “trovare il senso”) stanno insieme: Maria nel silenzio del suo cuore conserva una memoria che rinnova continuamente gli eventi che via via le accadono, mediante un’operazione di ripensamento intellettuale e di rinnovamento esperienziale che avviene nel suo intimo, dove si stringe la relazione tra l’uomo e Dio. Nel suo cuore “integro e buono”, Maria accoglie e “custodisce” ciò che ha incontrato e visto e che può crescere e portare frutto: la sua conoscenza e la sua fede crescono e progrediscono piano piano. Maria va oltre il sentimento, va oltre le sensazioni: impegna tutta se stessa nel mettersi in discussione. Sposta i condizionamenti, sposta i rumori, sposta il pensiero comune: lo mette da parte. Ora che ha visto con gli occhi vuole guardarci a fondo. Vuole confrontare il desiderio infinito di felicità che porta dentro di sé con ciò che ha visto: vuole capire che cosa c’entri quel fatto con se stessa, con il senso delle cose. Fede e ragione, anima e corpo, sono come improvvisamente scosse. Intuisce che davanti a sé ha davvero ciò che l’Angelo le ha detto, ha davanti a sé il frutto del suo grembo, ha davanti a sé Quello che l’Angelo le ha detto essere il Figlio di Dio (che roba grande!), ma ha bisogno di tempo. Ha bisogno di fare esperienza di Dio, cioè di capire come possa davvero riaccadere in ogni momento della sua vita quella gioia incredibile che ha provato e vissuto, come guardare a Suo Figlio con occhi sempre più veri. Il “ritornello” che Luca ripete per ben due volte dice ciò che per prima Maria  fa’ e ciò che la Chiesa continua a fare: memoria di quell’Incontro, memoria di Cristo.

Io cerco sempre parole, rivelazioni, messaggi, miracoli che mi scuotano, che mi dicano ogni momento cose straordinarie e invece occorre silenzio: silenzio e memoria. Mi accorgo che troppo spesso prendo il sentimento invece che il cuore come motore ultimo, come ragione ultima del mio agire. Cosa vuol dire? La mia responsabilità è resa vana proprio dal cedere all’uso del sentimento come prevalente sul cuore, riducendo così il concetto di cuore a quello di sentimento. Invece, il cuore rappresenta e agisce come il fattore fondamentale dell’umana personalità; il sentimento no, perché preso da solo il sentimento agisce come reattività, in fondo è animalesco. “Non ho ancora compreso – scriveva Pavese – quale sia il tragico dell’esistenza […]. Eppure è chiaro: bisogna vincere l’abbandono voluttuoso e smettere di considerare gli stati d’animo quali scopo a se stessi”.Lo stato d’animo ha ben altro scopo per essere dignitoso: ha lo scopo di una condizione messa da Dio, dal Creatore, attraverso la quale si è purificati. Mentre il cuore indica l’unità di sentimento e ragione. “Esso implica una concezione di ragione non bloccata, una ragione secondo tutta l’ampiezza della sua possibilità: la ragione non può agire senza quella che si chiama affezione. E’ il cuore – come ragione e affettività – la condizione dell’attuarsi sano della ragione. La condizione perché la ragione sia ragione è che l’affettività la investa e così muova tutto l’uomo. Ragione e sentimento, ragione e affezione: questo è il cuore dell’uomo”, Luigi Giussani, in “L’uomo e il suo destino. In cammino” –  Marietti, 1999.

Che il Signore abbia pietà di me.

Sono nato il 16 magg­io del 1971 a Soresi­na, un paesino della bassa cremonese. Peccatore da sempre, cattolico per Graz­ia. Laureato per accide­nti in filosofia all­’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da vent’anni lavoro nel sociale. Se sono cattolico, apostolico, romano lo devo ad un incontro fondamentale con d­on Luigi Giussani che mi ha educato a vi­vere. Ho collaborato con “La Croce”, quotidiano di­gitale diretto da Ma­rio Adinolfi. Vi invito a seguirmi su Facebook e su web al mio Blog “Direzioneversoest”