Blog / Davide Vairani | 19 Dicembre 2017

Le Lettere di Davide Vairani – Caro Gesù bambino

Ringrazio Dio ogni mattina per la Grazia di un altro giorno da vivere. Ancora un giorno per desiderare la Tua Tenerezza. Ancora un giorno perché possa accadere l’imprevedibile: che io diventi santo, me, indegno. Il Natale è il mistero della tenerezza, della tenerezza di Dio a me.“Tenerezza non è compiacimento nel sentimento che proviamo, ma l’abbandonarsi, il sentirsi presi dall’amore che ci ha presi, da Colui che ci ha presi, il sentirsi presi da questa Presenza, il sentirsi presi da ciò che ci è accaduto, la presenza di ciò che è accaduto”, Don Luigi Giussani, 1974.

Non ti ho ancora scritto la letterina, caro Gesù Bambino. Vorrei farlo adesso, a una settimana dalla Tua Nascita. Ho una sola richiesta da farTi, anche se ti sembrerà bizzarra (ma Tu ci sei abituato con me, quindi so che non Ti scandalizzerai). Vorrei chiederTi  per una volta, una sola volta, di non pensare come se fossi Dio, l’Eterno ed l’Infinito, al quale nulla è sconosciuto e i cui disegni sono misteriosi per noi mortali. Non so come e quando mi chiamerai a Te, so solo che adesso o domani, o tra qualche decina di anni arriverà il mio turno. Non oso chiederTi che mi vengano risparmiati i Tuoi giusti castighi, non oso chiederTi di andare dritto dritto in Paradiso con Te. Ti chiedo solo di poter morire prima che qualcosa nel mio corpo e nella mia mente comincino a dare segnali di cedimento, prima insomma che diventi non autosufficiente. Non ho paura della morte, lo sai, ho paura del dolore che ti sfianca e scarnifica al punto da non poterne più. Al punto da non vedere più nulla, se non farla finita ad ogni costo. Fino a qualche settimana fa’ Ti avrei chiesto di farmi morire risparmiandomi questo dolore. Perché mi conosco e so bene quanto sono fragile. Oggi Te lo chiedo, intanto che sono ancora cosciente e stabile, perché sono sempre stato libero e voglio esserlo fino alla fine della mia vita terrena, fino a quando non sarai Tu a chiamarmi a Te.

Oggi ho una paura ancora più grande del dolore: dipendere da altre persone. Ti affido così le mie “disposizioni anticipate di trattamento”. L’Italia, lo sai bene, è uno strano Paese. Dimentica presto, non ha memoria della propria storia e tradizione. I nostri legislatori ci hanno confezionato un bel regalo di natale: tre paginette, otto articoli brevi, dal titolo “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Nel primo articolo, ai commi 5 e 6 si legge: “Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”.

In nome del diritto di ciascuno all’auto-determinazione si è certificato nero su bianco che la vita è solo in mano mia e niente e nessuno deve arrogarsi il diritto di scegliere per me. Mai. La vita non è più un “bene indisponibile”, nemmeno sul piano giuridico. Idratazione e nutrizione artificiali si trasformano sempre e comunque in trattamenti sanitari che – in quanto tali – possono essere liberamente rifiutati. Hanno messo defnitivamente in un cassetto anche Ippocrate. Il famoso “Giuramento d’Ippocrate” – che da più di duemila anni ogni laureando in medicina giura di osservare – non serve più. “Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, mi asterrò dal recar danno e offesa – scriveva Ippocrate -. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo. Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte. Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di questa attività. In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi. Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell’esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili. E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell’arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro”. Il medico  è chiamato ad agire attivamente e a sospendere ogni cura (compresi nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale) anche nei casi in cui essi non siano configurabili come accanimento terapeutico. In pratica, il medico è obbligato a sospendere il trattamento e dunque a portare a morte il paziente, se questa è la scelta di quest’ultimo (o del tutore o fiduciario): e infatti la norma specifica che il medico, facendo questo, è “esente da ogni responsabilità civile o penale”, e il riferimento implicito sul lato penalistico è a quegli articoli del Codice penale che puniscono l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio. Volete sapere cosa significa sospendere nutrizione e idratazione? Si muore così, di fame e di sete. Degli ultimi giorni di agonia di Terry Schiavo (furono 14 senza cibo né acqua) è rimasto un registro clinico, in cui i medici del Woodside Hospice della Florida hanno elencato i medicinali e gli interventi necessari all’assistenza. A partire dal Naproxen, un antinfiammatorio da somministrare per via rettale ogni otto ore alla paziente o “a seconda – citava letteralmente la cartella clinica – dei sintomi di dolore e disagio manifestati”. Altro sintomo che i medici dovettero immediatamente contrastare, la disidratazione della pelle, che nel caso di Terry presto iniziò ad ulcerarsi, cominciando dalle labbra: al Woodside venne immediatamente consultato uno specialista nel campo della rimarginazione delle ferite, ma nonostante le medicazioni alla paziente la situazione si aggravò. La produzione della saliva si era bloccata e venne sostituita con un preparato che evitasse “il peggioramento delle lacerazioni e l’emissione del caratteristico fiato acido” (sempre come recita il protocollo).  E poi i polmoni nel caso di Terry cominciarono a emettere un rantolo continuo che si cercò di smorzare prima con la scopolamina (“da somministrare – recita il protocollo americano – nelle orecchie ogni tre giorni”), poi con un aerosol alla morfina. Si bloccò anche la produzione di urina: lo scompenso elettrolitico, dovuto alla disidratazione, provocava alla Schiavo spasmi muscolari incontrollabili, che si cercò di sedare “con 5-10 mg di Diazepam ogni quattro ore”. Infine la “combustione” delle cellule neuronali del cervello, dovute all’assenza di sudorazione che innalza la temperatura corporea: il Diazepam venne portato “a 15 mg”, senza poter evitare l’ictus che pose fine al calvario della donna”.

Ecco, caro Gesù Bambino, perché nella letterina che ti sto mandando ti chiedo solo di poter morire prima che io diventi non autosufficiente. Perché voglio essere libero. Come scrive il mio amico Renato Farina, “c‘è una libertà più grande, ed è quella di poter vivere con gratitudine o anche, se uno non è proprio portato, come attesa che Qualcosa si riveli, e dia senso a tutto. Non è più ragionevole vivere così, che trattare l’esistenza intera come una specie di accanimento terapeutico estenuante, che finché si sta bene è accettabile, noioso ma veniale, ma poi se si comincia a star male, allora è meglio andarsene? Una legge che inserisce dentro di sé questa filosofia negativa, diffonde una luce di tenebre, insinua il dubbio in chi sta male di essere di troppo.Una legge così sporca gli sguardi. Mentre si vorrebbe solo una carezza che carica di nostalgia il passato, il presente e anche il morire”.

Se non esiste “un diritto a non nascere” perché mai dovrebbe esistere “il diritto a morire”?

Sono nato il 16 magg­io del 1971 a Soresi­na, un paesino della bassa cremonese. Peccatore da sempre, cattolico per Graz­ia. Laureato per accide­nti in filosofia all­’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da vent’anni lavoro nel sociale. Se sono cattolico, apostolico, romano lo devo ad un incontro fondamentale con d­on Luigi Giussani che mi ha educato a vi­vere. Ho collaborato con “La Croce”, quotidiano di­gitale diretto da Ma­rio Adinolfi. Vi invito a seguirmi su Facebook e su web al mio Blog “Direzioneversoest”