Blog / Le Lettere dal carcere | 20 Settembre 2017

Le Lettere dal carcere – 31 dicembre 9999

L’ergastolano diventa una razza differente da tutti gli altri esseri umani perché è una creatura nuova costruita per legge, vive respirando un’aria diversa, fa parte di un altro pianeta, probabilmente di un altro universo.

(Dalla tesi di laurea in Giurisprudenza, “Vivere l’ergastolo”, di Carmelo Musumeci, un ergastolano, ora in semilibertà. Abbiamo trascorso una giornata con lui, per farci raccontare come si vive scontando una pena che non ha fine, se non con la morte).

Dal diario di Carmelo Musumeci, 18 giugno 2017

Durante il giorno, nei momenti di pausa, mi piace moltissimo sedermi sul terrazzo della struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII dove lavoro, ad ammirare i cipressi e il verde tutto intorno. Gli alberi in carcere mi sono mancati tantissimo, forse più delle persone.

PREMESSA

 Se qualcuno scoprisse un metodo, una formula per vivere in eterno – o perlomeno, chessò, per quindicimila anni – ci sveglieremmo la mattina del primo gennaio 10000 e tutti gli ergastolani d’Italia sarebbero in libertà. Sul certificato di detenzione di un condannato all’ergastolo, infatti, la scadenza della pena è fissata al 31 dicembre 9999. Anni fa si scriveva: mai. Ora il sistema è informatizzato.

“Forse il computer è più umano degli umani” mi ha detto Carmelo Musumeci, mostrandomi il suo certificato.

In Italia esistono due tipi di ergastolo. Quello normale prevede la possibilità di benefici e dell’eventuale liberazione condizionale dopo 26 anni. Poi esiste l’ergastolo ostativo: nessun beneficio, nessun permesso, nessuna possibilità di misure alternative. All’ergastolano ostativo può essere applicato l’articolo 41bis che prevede: isolamento in cella; ora d’aria limitata; massimo due colloqui al mese con i familiari in presenza di un vetro divisorio; una telefonata al mese.

Carmelo Musumeci è stato condannato all’ergastolo ostativo per rapina, estorsione, omicidio, associazione a delinquere di stampo mafioso ed altri reati minori. Nel 1992, quando era già detenuto, gli hanno applicato il 41bis. È stato trasferito nel carcere dell’Asinara. Qui ha preso la licenza media, poi il diploma. Si è laureato in Scienze giuridiche, quindi la specialistica in Giurisprudenza, all’anno scorso risale la laurea in Filosofia. In carcere ha scritto diversi libri. La sua petizione per l’abolizione dell’ergastolo ha tra i primi firmatari Margherita Hack, Umberto Veronesi, Agnese Moro (figlia di Aldo Moro), Lorella Cuccarini, Rocco Buttiglione, Fausto Bertinotti, Vittorio Sgarbi. I firmatari al momento sono 30882.

Sul certificato di detenzione di un condannato all’ergastolo la scadenza della pena è fissata al 31 dicembre 9999. Anni fa si scriveva: mai. Ora il sistema è informatizzato. “Forse il computer è più umano degli umani”.

Il detenuto con l’ergastolo ostativo può cambiare la sua condizione solo diventando collaboratore di giustizia. Carmelo ha sempre rifiutato questa opzione. L’anno scorso ha ottenuto la “collaborazione impossibile”: i reati per cui è stato arrestato, infatti, erano finiti in prescrizione. Fare i nomi non sarebbe più servito. Così, dopo 26 anni di reclusione, ora si trova in semilibertà. Passa le notti nel carcere di Perugia, da cui esce tutte le mattine. Deve girare sempre accompagnato da una persona designata dal Tribunale di Sorveglianza, o da qualcuno che da questa viene delegato (nel caso di questo reportage, io). E solo tra i confini dei comuni di Perugia, Assisi, Foligno, Bastia Umbra e Bevagna, dove presta servizio come volontario nella Comunità Giovanni XXIII.

Sono andato a prendere Carmelo ai cancelli del carcere e abbiamo passato insieme la sua giornata di semilibertà. Mi ha raccontato della sua infanzia, della vita da criminale, della vita nel carcere e di quella da semi-libero. Mi ha spiegato i motivi per cui ha deciso di non collaborare con la giustizia. Mi ha parlato delle sue lotte e delle sue letture.

Non trovo un senso per l’ergastolo ostativo; questo è il mio parere. Scorgo un contrasto con l’articolo 27 della Costituzione Italiana: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; vedo il rischio di una legge che frana nella vendetta. Ma le cose non sono semplici, i dilemmi sono molti e, soprattutto, il mio parere personale qui non conta. Anche se – come tutti – non posso fuggire dalla parzialità del mio punto di vista, non m’interessa ingabbiarci dentro nessun altro (compreso il me-futuro).

Nelle pagine che seguono trovate il racconto di quella giornata, scandito in tre momenti.

Dal diario di Carmelo Musumeci, 26 luglio 2012 “Domani sarà il mio compleanno, il giorno più triste dell’anno perché l’uomo ombra è senza età come lo sono i morti.”

 

I. POCO PRIMA DEL TRAMONTO

“Hai le lenzuola, i lacci delle scarpe se te li lasciano, i calzini, quelli che arrivano al ginocchio se non sono troppo consumati, la cintola dell’accappatoio; l’ultimo che ho visto ha usato una busta di plastica, te la stringi intorno al collo e apri il gas della bomboletta.
A me la cosa che ha sempre fregato è l’idea di fare tutta quella cazzo di procedura, la gestualità, arrotolare le lenzuola, legarle alle sbarre, fare il nodo, preparare uno sgabello, salirci, infilare la testa nel cappio, poi ti mancherà l’aria, poi pensi al tuo cadavere che magari non esce subito e lo riconsegnano alla famiglia dopo tre o quattro giorni. Alla mia compagna. Pensare a mia figlia e a mio figlio”.

Mancano un paio di ore al tramonto. Le cicale friniscono.

Passeggiamo tra le tombe. Le cappelle private formano una fila di bungalow di marmo, ognuna con il suo cancello che si chiude a chiave, i loculi semplici – sull’altro lato – creano un’enorme cassettiera di cemento armato. Il cimitero di Bevagna è l’unico luogo dove Carmelo può muoversi da solo, senza l’accompagnatore delegato dal Tribunale di Sorveglianza, perché è adiacente alla comunità dove presta servizio. Ogni tanto viene qui a fare due passi, a fare andare un po’ i pensieri.

Il cimitero di Bevagna è l’unico luogo dove Carmelo può muoversi da solo.

L’anno scorso si è registrato in media un suicidio a settimana nelle carceri italiane. Quest’anno (aggiornamento a metà luglio) stessa media.

“Hai visto quanto marmo e cemento? Chiusi, serrati dentro, pure dopo la morte!”

Nell’accento di Carmelo c’è qualcosa della Sicilia, dove è nato, della Liguria, dove si è trasferito a 15 anni, il ritmo a picchi è quello tipico dei sardi, in Sardegna ci ha passato 10 anni, 5 nel carcere dell’Asinara e 5 in quello di Nuoro, le guardie erano tutte sarde. Incontriamo un signore anziano che si ferma di fronte alla lapide di una donna; gli rivolgiamo un cenno di saluto con la testa.

Il frinio delle cicale è prodotto da due ossicini che sfregano su una membrana, tra lo sterno e l’addome. È un richiamo amoroso, lo producono i maschi, serve a comunicare la propria posizione alla femmina. Se non avviene l’accoppiamento, la cicala continua a cantare, fino a frantumarsi la membrana, gli organi interni si spappolano, fuoriescono e rimane solo l’involucro della cicala morta a seccarsi ai piedi degli alberi.

“Una notte ho tagliato un lenzuolo, l’ho legato alle sbarre della finestra, ho posizionato lo sgabello, ci sono salito, ho infilato la testa nel cappio. Poi ho deciso che volevo andarmene all’altro mondo a stomaco pieno. Ho sfilato la testa, sono sceso dallo sgabello, ho acceso il gas del fornelletto. Mi sono fatto un piatto di spaghetti, aglio, olio, peperoncino, ho bevuto un bicchiere di vino. Ho cambiato idea e mi sono addormentato”.

Era il 2006, carcere di Nuoro. La mattina dopo Carmelo si è alzato. Nell’ora del passeggio, come al solito, si è messo a correre. Poi si è fatto una doccia. Ha preso carta e penna e ha scritto una lettera.

Lettera degli ergastolani al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Io sottoscritto [nome e cognome] dal carcere di [località] dichiaro che sono stanco di morire un pochino tutti i giorni ed ho deciso di morire una volta sola, quindi chiedo che la mia pena dell’ergastolo sia tramutata in pena di morte.

Carmelo fa girare la lettera in tutte le carceri d’Italia e nei mesi successivi viene sottoscritta da 310 ergastolani. È la fine dell’estate del 2006. Non si muove quasi nulla; pochi titoli su alcuni giornali. Passa quasi un anno. Carmelo viene trasferito nel carcere di Spoleto. Il 9 giugno 2007 annota sul suo diario personale:

Ho comunicato in via ufficiale lo sciopero della fame: a tutti gli ergastolani d’Italia, dal primo dicembre, chi se la sente di rischiare la sua non-vita decida di fare uno sciopero della fame ad oltranza e lasciamoci morire con la speranza che il sacrificio di pochi possa servire all’abolizione dell’ergastolo.

17 luglio 2007:

Al Dio del mare.

A proposito:

– dell’appello al Presidente della Repubblica di 310 ergastolani di tramutare la loro condanna a vita in pena di morte;

– dell’iniziativa dello sciopero della fame di tutti gli ergastolani d’Italia, a partire dal primo dicembre di quest’anno, per chiedere l’abolizione dell’ergastolo.

Ci è venuta l’idea di mettere la nostra poesia “Sogni da ergastolano” dentro una bottiglia e tramite il passaparola di amici, conoscenti e parenti, gettarla tra le onde per chiedere a Nettuno, dio del mare, di concederci la speranza di un fine pena. A chi raccoglierà le bottiglie con la poesia, dopo averla letta, chiediamo di indicare il luogo di avvistamento utilizzando il sito www.informacarcere.it e subito dopo di gettarla di nuovo tra le onde, verso il mare della speranza.

1 dicembre 2007, primo giorno di sciopero della fame.

Visita medica, peso 81,800 kg., morale alle stelle, quando lotto mi sento bene, mi sento vivo, mi sento libero. Quasi tutto il carcere sta aderendo allo sciopero della fame per l’abolizione dell’ergastolo.

Usciamo dal camposanto, il canto delle cicale si fa più forte.

Chiedo a Carmelo com’è finito quello sciopero della fame collettivo. Non bene, solo qualche articolo su il Manifestola Repubblica, in televisione praticamente nulla.

Dal diario di Carmelo Musumeci, 21 giugno 2016 Intorno alla struttura dove lavoro ci sono diversi campi di girasoli e quando al mattino arrivo mi sembrano dei visi umani che mi sorridono e sia io che il mio cuore li abbracciamo con lo sguardo.

Il primo sciopero della fame l’ha fatto da solo, nell’estate del 1993, quando era ancora all’Asinara.

“Ho comunicato la mia intenzione alla direzione del carcere il giorno prima. Loro ti mettono in una cella d’isolamento e non vedi nessuno. Avevo sentito dire che tanti per sostenersi si bevevano acqua e zucchero; allora mi tengo da parte una cassa d’acqua nella mia cella, metto lo zucchero in tutte le bottiglie così – mi dico – quando mi isolano mi porto la cassa. Non me l’hanno fatta portare. I primi tempi mi bevevo l’urina, che è piena di sostanze nutritive. Dopo qualche giorno staccavo un po’ di muffa dalle pareti, col dito, e mi mangiavo quella. Poi ti formicola tutto, non riesci a dormire per i dolori, non hai più voglia di pensare, alla fine non ti interessa più un cazzo, vuoi morire e basta. Al ventottesimo giorno mi hanno ricoverato. E ho vinto: il presidente della corte d’Assise di Massa mi ha tolto il 41bis. Dopo 10 giorni il Ministero di Grazia e Giustizia me l’ha ripristinato. A quel punto non avevo più le forze per fare un altro sciopero della fame. Ti fumi un’altra sigaretta? Oggi, va così, ho superato il mezzo pacchetto. Devo ridurle un po’, coi polmoni che mi ritrovo”.

Ci fermiamo all’ombra dei cipressi. Tira un vento impietoso.

“Pensa che avevo smesso per 10 anni. Poi sono uscito e ho ricominciato. Perché non sono più abituato alle emozioni. Dentro mi ero appiattito. La felicità invece è più difficile da gestire, mi crea ansia, forse è una cosa che capita a tutti. Allora mi fumo una sigaretta e rallento. Quando sono entrato in carcere non c’erano ancora i cellulari; la mattina, sul treno da Perugia a Foligno, sono l’unico che guarda fuori dal finestrino. Non ho visto camminare un bambino per 26 anni. O un cane. Non ero più abituato ai colori. In carcere sono sempre gli stessi: ferro, acciaio, cemento armato. Una cosa indescrivibile è la prima volta che ho visto uno specchio; in cella abbiamo solo uno specchietto piccolo, per farci la barba, si vede solo una parte del viso. Mi ero dimenticato com’era fatto il mio corpo. Esco il primo giorno, vedo ’sto specchio e mi sembrava di vedere un estraneo. Mi sono accorto di com’ero invecchiato. E ho visto mia figlia camminare per la prima volta, a poco più di trent’anni… Uno spettacolo! L’ho sempre vista seduta, ai colloqui, dietro il vetro. Ritornare al mondo è difficile. Mi sono abituato così tanto alla sofferenza, che in certi momenti, incredibilmente, mi manca”.

“Non ho visto camminare un bambino per 26 anni. O un cane. Non ero più abituato ai colori. In carcere sono sempre gli stessi.”

Suonano le campane. Sette rintocchi, più quello della mezza. Fra due ore esatte Carmelo deve essere dentro, mi accompagna al parcheggio. Deve rispondere a un paio di mail, prendere un cambio di vestiti. Poi Nadia, la responsabile della comunità, lo accompagnerà fino ai cancelli del carcere. Lui si metterà in coda con gli altri detenuti in semilibertà, e uno alla volta faranno le procedure per l’ingresso. Io spalanco le portiere dell’auto per fare uscire il calore. Prima di salutarci gli chiedo quali sono i suoi scrittori preferiti. Traballa, ci pensa un po’.

“Stendhal; Il rosso e il nero mi ha colpito molto. Herman Hesse è un grande anche se un po’ troppo distaccato. Zola. Verga è un po’ il mio modello quando scrivo, col suo verismo. Dostoevskij. Dostoevskij è micidiale. Delitto e castigo: io tifavo per Raskol’nikov, gli dicevo no, non te la cantare, passaci sopra a ’sto delitto… Invece tutta quella elaborazione interiore. La prima vittima di un delitto è chi l’ha commesso. Ha ragione. Micidiale. Poi ho trovato moltissime cose nei Promessi sposi. Per me il personaggio da rivalutare è Don Abbondio che dice, Oh, se non c’ho i coglioni non è colpa mia… E c’ha ragione! Don Abbondio ti può stare antipatico, quello che ti pare a te, però è umano”.

II. POCO DOPO L’ALBA

Sono le 6.29 del mattino, il cielo è grigiastro, il carcere è alla periferia di Perugia, frazione Capanne.

Nel 1971 il professor Philip Zimbardo dell’Università di Stanford allestì un esperimento. Nel seminterrato della facoltà di Psicologia riprodusse l’ambiente di un carcere, selezionò 24 volontari maschi tra i suoi studenti, li suddivise in due categorie: 12 detenuti e 12 guardie con occhiali da sole che impedivano la vista degli occhi. Il primo giorno non accadde nulla. Il secondo giorno un prigioniero si barricò nella sua stanza, i compagni lo imitarono. Al terzo giorno le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare e pisciare in secchi, li sottoposero a torture psicologiche. I prigionieri tentarono una fuga di massa. Il tentativo venne stroncato. Al quinto giorno i prigionieri si fecero docili e remissivi: apparvero i primi sintomi di disturbi emotivi e del comportamento. I segni di sadismo nelle guardie si fecero sempre più evidenti. Al sesto giorno il professor Zimbardo interruppe l’esperimento che stava finendo fuori controllo.

Carmelo Musumeci attraversa i cancelli del carcere pochi minuti dopo le 6.30. Mi accoglie con un sorriso larghissimo, ci presentiamo. Su un avambraccio ha tatuati i nomi della moglie e dei due figli. Sull’altro quello dei nipoti. Sul tricipite un’aquila, “che ormai è diventata un piccione”.

Il suo primo giorno di semilibertà è stato il 16 novembre 2016.

Il giorno precedente annotava sul suo diario:
Spero che domani sia il giorno giusto che esco.
Penso che tutti noi moriamo, ma prima è meglio vivere.
Ed io adesso inizierò a vivere.

Il giorno dopo, 17 novembre 2016:

Sto imparando di nuovo a vivere.
Sono riuscito a entrare in un bar, a ordinare un caffè e a pagare, tutto da solo.
Dentro il locale mi sembrava di avere tutti gli occhi addosso, specialmente quando giravo il cucchiaino nella tazzina, forse perché l’ho girato troppo a lungo, ma mi piaceva il rumore che faceva.

Dal diario di Carmelo Musumeci 3 luglio 2017
“Per molto tempo ho pensato che nella mia vita ho fatto quello che non sono riuscito ad evitare, ma a sessantadue anni e con un fine pena mai mi sto invece redendo conto che forse non ho fatto abbastanza per non trovarmi in queste condizioni.”

Di fronte al carcere, sul lato opposto della strada, c’è un bar. Non so se è lo stesso che Carmelo descrive nel suo diario. Ordiniamo due caffè. La ragazza dietro il banco ci chiede se vogliamo anche due cornetti. Carmelo mi chiede se sono incensurato, non può essere accompagnato da pregiudicati. Poi usciamo, la prima sigaretta della giornata. “Avevo smesso con le sigarette, ora devo andarci piano, stare sotto il mezzo pacchetto, che ho i polmoni pieni di schegge di pallottole, quelle non me le tolgono più”.

Sto imparando di nuovo a vivere. Sono riuscito a entrare in un bar, a ordinare un caffè e a pagare, tutto da solo.

12 febbraio 1990, Marina di Pietrasanta: un agguato teso da elementi di un clan rivale. Carmelo Musumeci viene ridotto in fin di vita da sei colpi di arma da fuoco riuscendo miracolosamente a scappare dopo che i killer, ritenutolo morto, si erano allontanati alla ricerca di un liquido infiammabile per bruciarne il corpo. Da qui le schegge nei polmoni. Poi tre mesi in rianimazione. Si rimette in piedi. Organizza la sua vendetta e la porta a compimento. Viene arrestato il 21 ottobre del 1991. La Repubblica titola: “Attacco alla piovra nel cuore della Toscana. Preso il boss della Versilia”. Carmelo viene tradotto nel carcere di Pisa. Poi Cuneo. Il processo. La sentenza di ergastolo. Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone perde la vita in un attentato. Il 19 luglio la strage di via d’Amelio, muore Paolo Borsellino. Lo stato reagisce, viene introdotto il 41bis, viene riaperto il carcere sull’Isola dell’Asinara.

Saliamo in auto. Per arrivare a Bevagna sono tre quarti d’ora di strada.

“Il 26 agosto del 1992 mi caricano su un Hercules dell’esercito italiano: è stato il primo aereo che ho preso in vita mia. Atterriamo a Sassari. Poi in elicottero fino all’Asinara. Dove sono stato sepolto vivo”.

Squilla il suo cellulare; è la moglie. “Pronto amore, ciao! Scusami, sono in macchina, sto facendo un’intervista. Ti chiamo dopo!”. Lei vive a un paio d’ore da qui, ha una piccola lavanderia a gettoni. Sono andati a convivere quando entrambi avevano 25 anni; dopo 7 anni è arrivato l’ergastolo.

“L’Asinara la chiamavano l’Isola del diavolo. Fare il 41bis in terraferma è una cosa, farlo su un’isola dove anche le guardie sono recluse… Erano tutti ragazzi di 23/24 anni, si ubriacavano la sera perché non sapevano che cazzo fare. Alla fine ho capito che anche le guardie sono vittime dei meccanismi del carcere. Nei miei libri li chiamo i Senz’anima, non perché non ce l’abbiano, ma perché l’hanno persa”.

Le testimonianze di molti detenuti parlano di piscio nel rancio, pezzi di vetro, mozziconi, pestaggi sistematici, medici che coprivano le responsabilità delle guardie. A gennaio di quest’anno l’onorevole Calderoli ha proposto di riaprire il carcere dell’Asinara per i jihadisti. Nel 2012 la proposta della riapertura era arrivata dal ministro Severino (governo Monti). Nel 2009 la stessa idea era venuta al ministro Maroni (governo Berlusconi). Silvia Z, alla fine di questa primavera, ha recensito il parco naturale dell’Asinara su Tripadvisor: Che dire? È una fortuna che la presenza del carcere abbia permesso di mantenere intatto questo angolo di Paradiso in terra. Se fate il bagno a Cala Sabina potrete nuotare tra enormi pesci di tutti i colori a pochissimi metri dalla riva.

“Io non abbassavo la testa neanche in carcere. Dopo qualche mese mi applicano l’isolamento diurno. Mi portano nell’ultima cella in fondo alla sezione. Per un anno e sei mesi non ho potuto scambiare una parola con un essere umano. Avevo una guerra spietata coi topi. L’acqua dal lavandino scendeva marrone. I topi entravano dalla bocca del cesso alla turca, io ci infilavo una bottiglia di plastica. Avevo un colloquio al mese, ma ho rinunciato a farli: mia figlia piangeva perché non poteva abbracciarmi con il vetro in mezzo e io mi sentivo una nullità.

Dal diario di Carmelo Musumeci 3 dicembre 2016 “Oggi, mentre osservavo il verde degli alberi e l’azzurro del cielo, pensavo che è stata dura in tutti questi anni rimanere vivi con una pena che non finisce mai. Eppure ce l’ho fatta.”

Ho iniziato a studiare in quel periodo, per non impazzire. Solo che non potevano entrare i libri. Mi ha salvato Giuliano Capecchi, un insegnante in pensione dell’associazione Liberarsi; mi mandava per lettera le pagine strappate dai libri. Ho preso le medie e le superiori. Poi ho proseguito con l’università”.

La strada dal carcere alla comunità passa per Bagnaia, Pila, San Martino in Colle, San Martino in Campo, Torgiano, Passaggio, Cantalupo; non possiamo fare sosta in nessuno di questi paesi, saremmo fuori dalla legge; ci sono campi di girasoli ovunque. Chiedo a Carmelo perché non ha mai voluto collaborare con la giustizia.

“In Versilia, da criminale, avevo i miei uomini, la mia batteria. A quel tempo eravamo amici: siamo cresciuti insieme, rischiavamo la vita insieme. Come facevo a tradirli? Se devo pagare, pago io. Non è omertà. Un giorno, ero all’Asinara, mi chiamano a comparire davanti al giudice che mi dice: Musumeci, questa sera lei può essere in Francia, con documenti falsi, sua moglie, i figli e un tot di stipendio. Basta che faccia i nomi. Non è facile resistere. Ma non ho mai voluto barattare la mia libertà per quella di un altro. L’omertà è un’altra cosa: lo so, perché all’Asinara ho visto questi grandi boss. Ho visto il re nudo. Anch’io avevo in mente tutti ’sti film sulla mafia, quelle immagini lì… Poi me li trovo in carcere e vedo questi vigliacchi, infidi. Alcuni erano anziani e pretendevano da me, perché ero più giovane. Non me ne frega un cazzo se sei vecchio: il rispetto te lo devi guadagnare. Per le pulizie in cella: bene, facciamo un giorno per uno, che un po’ di movimento ti fa bene. La mafia è diversa da altri fenomeni criminali, è legata alla politica. Da bambino, quand’ero in Sicilia, sai quanta roba arrivava in casa sotto elezioni? Pacchi di caffè, pasta, spaghetti. Dentro mi sono sempre trovato tra questi due fuochi: lo Stato e la mafia. I periodi migliori in carcere li ho passati coi brigatisti: avevano cultura e umanità. Loro il carcere dell’Asinara l’avevano distrutto, nel 1978, perché sapevano unirsi e lottare. Molti mafiosi, invece, erano abituati con il maggiordomo e l’autista. In un anno sono usciti 42 pentiti. Tante cose la gente non le sa”.

Squilla di nuovo il telefono. “Ciao Nadia, sì stiamo arrivando.” Quando parla al telefono la voce di Carmelo si assottiglia e si addolcisce. “Se non ci perdiamo, in venti minuti siamo lì!”. Carmelo chiama Nadia il suo diavolo custode. Ne ha una stima sconfinata.

Il 4 dicembre del 2016, un paio di settimane dopo l’inizio della semilibertà, Carmelo scriveva sul suo diario:

Il mio “Diavolo Custode” mi rimprovera spesso che quando sono a casa faccio continuamente tre passi avanti e tre indietro. E mi urla che non sono più chiuso nella mia cella. Ha ragione, ma non è facile dimenticare le vecchie abitudini.

III. LA SEMILIBERTA’

“Sono nato ad Aci Sant’Antonio, un paesino sulle falde dell’Etna. La seconda guerra mondiale era finita da dieci anni.”

Dopo pranzo prendiamo due sedie dalla sala e le portiamo sul balcone. Stamattina io e Carmelo ci siamo fatti due passi nel centro di Bevagna; poi nient’altro. Siamo rimasti chiusi qui dentro, che le storie sono troppe. Il cielo si è aperto.

“Mia madre ha partorito a 18 anni, ero il terzogenito. La nostra casa era in una viuzza a fondo chiuso; eravamo poverissimi: spesso io e i miei fratelli andavamo a letto mangiando solo un po’ di pane bagnato nello zucchero. Mia nonna mi ha insegnato a rubare: lei andava al mercato; io la accompagnavo e il mio compito era fregare qualcosa qua e là. Una volta mi scoprirono e mia nonna mi diede uno schiaffone davanti a tutti: Quante volte ti ho detto che non devi rubare! Poi a casa mi diede il resto perché mi ero fatto scoprire. A 6 anni iniziai la scuola. Mi bocciarono in prima elementare, perché non ci andavo mai. A 9 anni iniziai a lavorare con mio zio, in un cantiere edile; quell’anno i miei si separarono e io andai al nord con mia madre, a La Spezia. Mi rinchiusero in un collegio. Odiavo l’istituto, odiavo gli altri bambini che parlavano l’italiano e io solo il dialetto. Non avevo nessuna educazione, non facevo il segno della croce prima di mangiare e non sapevo usare le posate. Una sera sono scappato. Vagai per due giorni nella campagna, poi mi trovarono dei contadini la mattina e mi portarono dal prete che dirigeva il collegio. Quello mi chiuse in uno sgabuzzino al buio, senz’acqua e senza mangiare. Era una montagna, vestito di nero, aveva ’sto bastone in mano. Bastardo volevi scappare? Poi giù una bastonata in testa, io caddi, lui mi riempì di calci. Fu la prima volta che mi ruppi il naso. Non urlai per non dargli la soddisfazione. Poi svenni. Ritornò il giorno dopo: altre botte. Un mese dopo presi una spranga di ferro e gliela sbattei in testa. Mi cacciarono.

A 15 anni mi sono fatto il primo carcere: il minorile di Marassi per una rapina in un ufficio postale. Noi stavamo al piano terra, i maggiorenni al primo piano. Puoi capire che uscii peggio di prima. A 16 anni rapinai una bisca clandestina con due amici. Poi ne sono diventato socio. E da lì è iniziata la mia carriera criminale; contrabbando di sigarette, gioco d’azzardo, rapine…”.

Un botto. Sobbalziamo. Il vento ha fatto sbattere una finestra della sala. Entriamo a chiuderla. Di fronte c’è una Madonna, in una riproduzione di un quadro di Raffaello. Dondola leggermente appesa al chiodo.

“Tanti ci considerano mostri. E probabilmente abbiamo fatto cose da mostri. Ma da criminale vivi completamente immerso in quel tuo mondo. Io mi sentivo in guerra. Non avevo rimorsi. Viaggiavo armato. Se avevo un conflitto a fuoco con i miei uomini e vincevamo, si andava a festeggiare. Perché eravamo ancora vivi. Quello voleva ammazzare me, e io volevo ammazzare lui. È come in quella canzone di De André, sembra incredibile ma è così. Adesso mi vergognerei”.

Un altro botto. Un’altra finestra, questa volta in corridoio.

“Una volta dovevo fare un’udienza al tribunale di La Spezia. Partenza la mattina all’alba dall’Asinara, mi traducono nel carcere di Cuneo. Chiedo di telefonare a mia moglie. Non si può. Così dico al mio avvocato di avvisarla che ero a Cuneo, di venire il giorno dopo e di portarmi anche i bambini. Da lì partiamo sul blindato per La Spezia. Faccio l’udienza e ’sto comandante voleva farmi ripartire per l’Asinara il giorno stesso. Gli dico: Mi faccia solo una gentilezza; so che non posso chiamare mia moglie, però, davanti a me, prenda lei il telefono e le dica di non venire, perché se lei parte domattina in pieno inverno con la macchina e coi bambini… ecco io questo non lo accetto. E lui: Musumeci, lo sa, non posso farlo, e di qui di là. Allora gli dico: O ci pensa lei o ci penso io. Io non parto, glielo assicuro. Lui ride. Belìn, ero preoccupato, questa poverina sarebbe arrivata fino a Cuneo coi bambini e non mi avrebbe trovato. Guardi comandante, tanto per iniziare faccio reazione passiva. E il comandante: Non si preoccupi, la prendiamo e la portiamo noi di peso. Faccio reazione passiva, mi caricano con la sedia sul blindato. Va bene. Io mi portavo sempre dietro una lametta, la infilavo nei jeans, dove ci sono i bottoni, così se suonava al metal detector pensavano che fossero i bottoni, appunto. Partiamo da La Spezia e arriviamo al porto di Genova per prendere la nave. C’è una cella sotto la stiva, con un oblò che dà all’interno. Mi chiudono. Io prendo la lametta. La mostro bene alla guardia dall’oblò e me la ingoio. Faccio finta di ingoiarla, ovviamente la metto sotto la lingua. Succede il finimondo. Telefonano, chiamano, brigano. Mi fanno uscire dalla cella, mi caricano di nuovo sul blindato, mi portano di corsa all’ospedale. Intanto la nave parte. Li avevo fregati. Mi fanno le lastre e non trovano niente, a parte le schegge delle pallottole. Mi riportano al carcere di Cuneo, dov’eravamo partiti la mattina, mi mettono in isolamento, botte da orbi. In poche parole riesco a fare il colloquio il giorno dopo. Ho guardato mia moglie dal vetro e le ho detto: Amore, sapessi che cazzo di fatica ho fatto per fare ’sto colloquio! Sono contento di vederti”.

Carmelo chiude la finestra.

Tratto da CtrlMagazine