Le Lettere di Davide Vairani – Una carezza
Ogni genitore vorrebbe essere perfetto e sa di non esserlo. La felicità sta nascosta nell’equilibrio che riesce a trovare in se stesso tra il diavoletto col forcone che le sussurra all’orecchio “sei una pessimo genitore” e l’angioletto con l’aureola che sull’altra spalla ti invita a guardare al nocciolo dell’amore che palpita nel tuo cuore. Ogni genitore si sente di dover fare di più e i figli, istintivamente e subdolamente, succhiano ogni energia facendo leva sul suo senso di colpa. “Ma tu non stai mai con me”, ma “gli altri papà fanno così”, ma “davvero mi vuoi bene”. A tutti è capitato di sentirsi inadeguato al proprio ruolo in qualche occasione e di aver messo in dubbio l’esistenza effettiva di un “quinto senso e mezzo” capace di cavarci d’impiccio.
Ci sono genitori, però, che patiscono più di altri, in un modo spesso silenzioso e sottovalutato: sono i papà e le mamme che soffrono di una malattia mentale. Le malattie mentali sono più diffuse di quanto si pensi e sono le più disparate: disturbo ossessivo compulsivo, disturbo bipolare, panico e agorafobia, depressione, distimia, fobia sociale, disturbi della personalità, tanto per citarne alcune. Colpiscono uomini e donne con democratica uguaglianza di incidenza, ma sono devastanti quando a soffrirne sono in particolare i genitori che hanno bambini piccoli: le loro conseguenze si allungano sulla psiche dei figli in modi purtroppo prevedibili. Avviene un corto circuito e l’energia familiare è come se si disperdesse o – peggio – si rivoltasse contro come una furia devastante. Quando la malattia mentale si affaccia nella vita di un genitore è come un démone che si infila subdolo dentro e ti interroga, ti porta a domandarti “perché”. Scattano diabolici vortici mentali alla ricerca di una causa, ma spesso questa (la causa) è introvabile dentro la matassa intricata delle proprie storie. Fa talmente male che non riesci a riconoscere te stesso mentre agisci, parli, pensi, ti muovi. Ti ostini a trovare una causa, ma è in fondo la costruzione di un alibi per sopravvivere, un meccanismo inconscio di autodifesa, lo stesso che si riscontra nei famigliari della persona malata che non vedono o non vogliono vedere la malattia. Lo stato di negazione è uno dei maggiori ostacoli alla guarigione e al recupero. E’ un enorme trauma dover fare i conti con il fatto che la propria mente non funziona più come prima e credo sia un dolore paragonabile a un lutto. E’ la perdita di una parte di sé, del controllo sulla propria vita, sulle proprie emozioni. E il partner (sia esso la moglie o il marito) si sente spesso impotente e indifeso, incapace di andare incontro ad una persona che fatica riconoscere. Lentamente ci si distacca. Ti senti sempre fuori posto, fuori luogo, fuori tempo. Solo. Passano altalenanti sentimenti di repulsione e avversione, verso se stessi e i propri famigliari, a sentimenti di inadeguatezza profondi e a volte invalidanti: come poter sostenere il peso di un figlio, la responsabilità educativa nei suoi confronti, quando non ci si sente in grado di reggersi sulle proprie gambe? E’ qui che spesso si arriva come ad un crinale e ti balena sempre più insistente la soluzione: farla finita. Giovanni Paolo II durante tutto il suo pontificato ha dedicato una continua e confortante attenzione alle persone che soffrono di patologie della mente, con costanti riferimenti alla loro delicata condizione umana: l’essere fatti a immagine e somiglianza divina è pilastro dell’antropologia cristiana. Anche i malati di mente sono creati a immagine e somiglianza divina. E se la tradizione filosofico-teologica individua nelle facoltà intellettuali dell’uomo, quali volontà e ragione, le caratteristiche che maggiormente sottolineano l’affinità della persona umana con il Creatore, Giovanni Paolo II precisa che “l’uomo intero, non quindi soltanto la sua anima spirituale con l’intelligenza e la volontà libera, ma anche col suo corpo partecipa alla dignità di ‘immagine di Dio’ “.Una terapia strettamente psichiatrica e farmacologica non costituisce una risposta sufficiente: nella mente umana esiste il mistero di una dimensione spirituale che trascende la fisiologia cerebrale, qualcosa che sembra guidare tutte le nostre attività in quanto esseri liberi e autonomi, capaci di responsabilità e amore, e caratterizzati dalla dignità di esseri umani. La sofferenza che attanaglia il cuore dei malati mentali, quando attraversano i momenti più cupi, si avvicina alla sera dell’agonia del Venerdì Santo: solitudine, difficoltà di comunicare e paura di non ricevere dagli altri la comprensione e l’amore cui aspirano, insieme a costrizioni di ogni genere che sono imposte dall’infermità e dalle condizioni di vita, ricordano da vicino l’isolamento di Gesù che suda sangue e non trova il conforto della vicinanza di nessuno. “In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l’idea di farla finita o di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza”. Enzo Jannacci – sì, proprio il cantautore meneghino di “el purtava i scarp del tennis”- sorprese i più con queste parole in una intervista del 2009 ad “Avvenire”, pochi mesi prima di morire. La carezza del Nazareno. “Anche nella mia ricerca religiosa – continuava – vedo il dolore del Nazareno, la tremenda sofferenza e la sua fatica prima della crocifissione, sotto quella croce enorme che viene messa addosso a uno scheletro, perché quando va verso il Golgota è ridotto così, il Nazareno. Mi sembra quasi che la crocifissione divenga una liberazione dal male, da tutti i mali”. E al giornalista che gli chiedeva: cosa fa paura oggi al medico, all’artista, insomma all’uomo Jannacci, lui rispondeva così:“Questa gloriosa indifferenza che ci circonda e che mio padre aborriva. Una gloriosa indifferenza che è così comoda, un egoismo ricco, per il quale va tutto bene”. Le malattie mentali sono ancora oggi estremamente umilianti per chi ne soffre: il giudizio altrui piomba addosso con crudeltà e colpisce proprio dove si è più sensibili. Eppure l’omertà è il motivo più frequente per il quale le cure tardano ad essere intraprese e la sofferenza si allunga e si amplifica. Non voltiamo lo sguardo, facciamoci segno concreto della carezza del Nazareno.
“Anche se stai male rimani tranquillo, e questo è il senso di una vita ben spesa: qualcuno che ti ama anche quando stai male. Qualcuno che sopporta il tuo odore. Solo chi ama il tuo odore ti ama davvero. Ti dà forza, ti dà serenità. E mi sembra un bel modo di mettere una diga ai dolori che capitano nella vita”. (Alessandro Davenia, “Bianca come il latte, rossa come il sangue”).
Sono nato il 16 maggio del 1971 a Soresina, un paesino della bassa cremonese. Peccatore da sempre, cattolico per Grazia. Laureato per accidenti in filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, da vent’anni lavoro nel sociale. Se sono cattolico, apostolico, romano lo devo ad un incontro fondamentale con don Luigi Giussani che mi ha educato a vivere. Collaboro con “La Croce”, quotidiano digitale diretto da Mario Adinolfi