Blog / Lettere | 13 Settembre 2017

Lettera di Giovanni Marcotullio – Risposta a don Leonardi e al blog Come Gesù

Poche ore fa Giovanni Marcotullio, il caporedattore de La Croce, è entrato in dialogo con il blog e con me a proposito di una replica a un suo articolo in cui parlava di Caffarra, di Socci e di me. Per facilitare la conversazione, facciamo un post a sé stante. E grazie a lui per l’attenzione che ci dedica e mi dedica

Don Mauro,
chiedo scusa per il ritardo ma sono impegnato in un trasloco.
Prima di ogni altra cosa e a scanso di equivoci, per non essere ulteriormente etichettato come “antibergogliano” (io? figuriamoci…), vorrei dire che condivido in toto il giudizio del padrone di questa pagina: a) i Cardinali avevano il diritto/dovere di esporre al Santo Padre i proprî Dubia; b) ritengo che non fosse affatto opportuno pubblicare quel testo; perché in definitiva c) il Santo Padre non è mai “tenuto”, in senso stretto, a rispondere a chicchessia. I cristiani hanno diritto ai mezzi di salvezza, i quali sono abbondantemente contenuti nel Vangelo: un rescritto del Santo Padre è certamente «utile ad ammonire ed esortare», ma non è necessario alla salvezza.
Don Mauro dice che la sua lettura non è stata data da alcuno: sta bene, non ho i mezzi per verificare, né l’interesse a farlo. A me sembra una lettura banale, e anzi sprezzante, perché se quella “cosa” sulla logica rigorosa di Caffarra a fronte di un elenco caotico di situazioni esistentive doveva essere una spiegazione… non vedo da quali basi dovrebbero partire i teologi per elaborare la “nuova teologia” che qui s’invoca. Rileggano tutti, invece, le ultime parole pubbliche di Caffarra (Cfr il testamento spirituale di Caffarra), che in nulla risulta algido con la debolezza umana, ma anzi la rischiara e la conforta. Come fa ogni vero uomo di Chiesa.
Non so se qui possa interessare, ma la mia personale lettura (che mi pare inedita quanto a don Mauro pare la sua) è che il Santo Padre intenda provocare la Chiesa a fare davanti a lui la sua parte nella ricezione di Amoris lætitia: proprio perché «non tutto dev’essere risolto per via di magistero» (e ciò non significa, come qualcuno insensatamente ha detto e scritto, che AL non costituirebbe magistero – figuriamoci!), Francesco ha studiatamente lasciato i punti più difficili della materia trattata con delle indicazioni volutamente aperte a differenti possibili sviluppi. «A che scopo?», chiederà forse qualcuno: «Pizzicare i furbetti?». No, questo sarebbe pusillanime, troppo per un amante del “santo rischio” come Papa Francesco. Francesco sa che l’infallibilità pontificia si esercita a ben determinate condizioni, ma che l’infallibilità della Chiesa tutta – non solo nel Concilio Ecumenico riunito con lui e sotto di lui, ma anche nella semplice massa dei fedeli cristiani – è tra i primi tratti emersi nell’autocoscienza ecclesiale cristiana. La Chiesa non sbaglia, per via del suo «istinto soprannaturale della fede»: la Chiesa sa dove andare, e se il Papa vede un punto particolarmente insidioso anche per sé – quasi tutti i Papi hanno dovuto affrontare simili insidie dottrinali – egli lascia aperte delle possibilità, anche virtualmente pericolose, e vede dove si dirige la Chiesa.
Questo è rischioso, senza dubbio, ma il rischio è componente ineliminabile della fede, e il Santo Padre ha spesso ricordato di preferire una Chiesa incidentata a una Chiesa malata perché chiusa. Un simile discorso non sanno accoglierlo tanto i partigiani del Papa (che spesso lo osannano come si osannava Paolo VI nei primi anni ’60… «e tornò in pianto») quanto i suoi detrattori più infaticabili. In tale ottica, quindi, i Dubia sono un fatto ecclesiale di una legittimità indiscutibile: probabilmente sono più legittimi delle letture eversive date da alcune conferenze episcopali, perché nella storia del dogma è anzitutto chi cambia (e solo a seguire chi mantiene) a dover portare le prove della conservata ortodossia.
Ma il discorso sarebbe lungo e verrebbe forse in uggia: l’ho accennato giusto per non farmi catalogare nella polarizzazione di “amici-nemici”, oltre che per ricordare a don Mauro come gli argomenti non siano mai stati più problematici delle parole, per me. Quando parlo, di solito è perché ho gli uni e le altre.
Alle volte invece è opportuno tacere, oppure soprassedere su una polemica inopportuna come quella alimentata dai campioni anti-bergogliani (ecco perché ho messo insieme Socci e Leonardi, contrarî ma uguali nell’inopportunità): e sì che un ex alunno avrebbe avuto certamente qualche aneddoto inedito, qualche parola edificante da tirar fuori sulla soglia della camera ardente. Almeno fin quando il cadavere fosse stato caldo e sopra terra. Dopo, ci mancherebbe, riprenda tutto come prima: ma è una questione di opportunità, oltre che di generi letterarî – l’Antonio shakespeariano fece una vistosa deroga al genere, e difatti mise le mani avanti con l’uditorio – e anzi tramite il genere letterario si mostra il senso dell’opportunità. Ciò che ugualmente, benché in modo contrario, Leonardi e Socci hanno sconfessato.
E a proposito di genere letterario, cerco di rispondere anche all’“altro desiderio” di don Leonardi, la “mera cortesia”: proprio perché ho i suoi contatti personali e ho pienamente contezza del genere letterario dell’insulto – eminentemente privato – vorrei che credesse di cuore che mai ho inteso insultarlo (l’avrei fatto per vie privatissime, se avessi voluto farlo). Sarà per le letture patristiche, sarà per qualche trascorso nella controversistica, sta di fatto che il luogo comune della vituperatio mi ha sempre colpito, nella letteratura ecclesiastica, per il suo non essere mai preso sul personale. Certo sarà difficile crederlo leggendo il solo Adversus Marcionem, ne convengo, ma tutti i concilî antichi conoscono la fraseologia “la follia di Apollinare” in luogo di “apollinarismo”, “la pazzia di Ario”, in vece di “arianesimo” e via dicendo – mai nessuno di quanti scrivevano, leggevano o commentavano quelle pagine ne inferivano che qualcuno ritenesse folle Apollinare o pazzo Ario. Comprendo che la cosa possa risultare sgradevole, e in tal senso me ne rincresce, però mai l’ho insultato. Io ritengo, questo sì (ma come si sa non sono affatto l’unico), che don Leonardi faccia molto male alla Chiesa e alla fede, sbracciandosi di continuo su innumerevoli media per occupare la nicchia del “prete in uscita” (ancora più cool perché veste sempre in clergyman nero – è uno serio!), facendo ampie perifrasi per dire nulla, scandalizzando insieme i semplici e i progrediti con una vanità imbarazzante (non è un insulto: sono su mauroleonardi.it e proprio qui accanto c’è un widget, installato da don Mauro Leonardi, il cui titolo è “I fan di Facebook” e il cui contenuto suona “Le frasi più belle di Mauro Leonardi”…).
Ma non è solo tanta immodestia a invocare diffidenza in molti. Cerco di dirlo con Abelis (un bel romanzo, che apprezzai e consigliai, e che – non mi se ne va quest’idea – serve a capire don Leonardi): è vero che bisogna togliersi le corazze, per vivere autenticamente; quello che è altrettanto vero (e che lì non si trova scritto) è che possiamo sempre sostituirle con “corazze di gommapiuma”, le quali ci privano non solo del tatto, ma anche della consapevolezza di non avere più l’uso vero e autentico di quello.
Grazie a don Leonardi per l’ospitalità sulla pagina. Pace a tutti.