Amoris Laetitia / Blog | 28 Luglio 2017

L’Espresso – Livio Melina: “Le sfide di ‘Amoris Laetitia’ per un teologo della morale”

(Incontro dei teologi moralisti polacchi, Nysa, 12 giugno 2017)

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Per il teologo moralista, l’esortazione apostolica “Amoris Laetitia” rappresenta una sfida senza molti precedenti nella storia recente della Chiesa, e questo a vari livelli. Forse solo dopo l’uscita dell’enciclica “Humanae vitae” nell’estate del 1968 ci fu un dibattito così vivace; ma lo scenario ora è in un certo senso opposto e con punti di conflitto più cruciali: allora vi era un insegnamento di dottrina morale molto ben definito da parte del Magistero e un fronte di contestazione in nome dell’aggiornamento dell’etica coniugale; oggi vi è un invito all’apertura pastorale del Papa, che ha dato origine ad un conflitto di interpretazioni sia sul piano pratico che teorico, con una richiesta formale al Papa da parte di alcuni cardinali di “fare chiarezza”.

Occorre innanzitutto cogliere la preoccupazione di fondo che ha guidato Papa Francesco a convocare i due Sinodi dei Vescovi e poi a scrivere questo documento: rinnovare la pastorale familiare della Chiesa, in maniera da raggiungere tutte le famiglie e soprattutto quelle ferite, per accoglierle, accompagnarle, e integrarle nella vita della Chiesa. Essa si ricollega a quella conversione pastorale e a quel “dinamismo di uscita missionaria”, sollecitato dall’altra esortazione “Evangelii gaudium” (n. 20).

Per la teologia morale l’indicazione del Papa è quella di non presentare l’insegnamento etico fuori dal suo contesto di senso, di non legarsi ad aspetti secondari, bensì di mettere al centro il cuore del messaggio di Gesù, l’annuncio della misericordia, che sarebbe la più grande di tutte le virtù (EG 34). Francesco confessa di preferire “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita in tutte le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze” (EG 49).

Se guardiamo al panorama del dibattito seguito all’esortazione “Amoris Laetitia”, difficilmente si può negare che la situazione tanto della pastorale che della teologia morale non sia ora “accidentata, ferita e sporca”: singoli vescovi e conferenze episcopali, che si pronunciano in maniera contrapposta, teologi e laici che dibattono con asprezza di toni mediante appelli pubblici, mentre non è così certo che tutto questo abbia portato o porterà ad un rinnovamento della sollecitudine pastorale.

1. Il conflitto delle interpretazioni e l’esigenza di chiarezza

Benché il Papa stesso e gran parte dei commentatori si siano affrettati a sottolineare che non ci si dovrebbe concentrare unilateralmente sulle questioni di casistica e in particolare sulla vexata quaestio dell’ammissione dei divorziati “risposati” ( o in una nuova unione) ai sacramenti, è difficile negare che proprio qui si sia concentrata l’attenzione di tutti. Al di là delle ipocrisie, questo punto concreto è infatti la pietra di paragone e di verifica di quel mutamento di atteggiamento, che  da alcuni viene auspicato come una rivoluzione epocale nel Magistero, per colmare finalmente 200 anni di ritardo sulla modernità, e da altri temuto come una frattura esiziale con la tradizione costante della Chiesa. È a partire da questo punto concreto del capitolo VIII, che vorrei condurre la mia riflessione, allargandola poi alle sfide di carattere più fondamentale per il teologo moralista.

Di fronte al panorama delle interpretazioni divergenti e conflittuali è difficile negare che “Amoris Laetitia” non sia un testo profondamente ambivalente su questo punto decisivo (1). La disciplina vigente della Chiesa, che esclude dalla riconciliazione sacramentale e dall’Eucaristia chi essendo legato da un vincolo sacramentale valido e indissolubile di matrimonio e vivendo in una seconda unione, non si impegna a comportarsi “come fratello e sorella” in astinenza dai rapporti sessuali, è fondata su solide ragioni di ordine scritturistico, tradizionale e magisteriale. È stata chiaramente insegnata da San Giovanni Paolo II in “Familiaris consortio”, n. 84 e da Papa Benedetto in “Sacramentum caritatis”, n. 29. Invece in nessuna parte dell’esortazione post-sinodale di Francesco viene esplicitamente affermato che ora sia possibile introdurre una prassi contraria. Una dichiarazione esplicita e senza ambiguità e di rango dottrinale inequivocabile sarebbe di per sé necessaria per poter autorizzare un mutamento tanto rilevante per la vita della Chiesa.

È vero però che in “Amoris Laetitia” neppure si riafferma l’insegnamento precedente. Anzi vi sono due note, in particolare la nota 336 e la nota 351, che sembrano accreditare un cambiamento di disciplina. Sono proprio esse infatti che i sostenitori dell’interpretazione innovativa citano a sostegno della loro tesi. La prima nota, a proposito delle “conseguenze o effetti di una norma che non necessariamente devono essere sempre gli stessi” (AL 300), richiama la possibilità che il discernimento necessario nell’ambito della disciplina sacramentale possa riconoscere che in una situazione particolare non ci sia colpa grave. La seconda nota, la 351, parla dell’aiuto dei Sacramenti, che andrebbe offerto anche a chi si trova in una situazione oggettiva di peccato, e che potrebbe vivere in grazia di Dio, non essendo soggettivamente colpevole.

Per quanto riguarda la nota 336 va osservato in primo luogo che quanto stabilito da “Familiaris consortio” 84 e “Sacramentum caritatis” 29 non dipende dalla valutazione della colpevolezza soggettiva, ma da una contraddizione oggettiva a livello di coerenza sacramentale. Per questo quanto detto nella nota può essere riferito solo a norme ecclesiastiche di disciplina, quali le disposizioni sui padrini, sui lettori, ecc., ma non a norme di diritto divino come quelle sulla natura dei sacramenti. Ad esempio il principio generale qui evocato si può applicare alla norma ecclesiastica circa la possibilità di accostarsi alla comunione eucaristica senza premettere la confessione sacramentale, in caso di impossibilità fisica o morale di realizzarla; ma non si può applicarlo alla norma divina, per cui il Battesimo è necessario per accedere all’Eucaristia.

La nota 351 parla della possibilità di offrire «anche l’aiuto dei sacramenti» a chi vive entro una situazione oggettiva di peccato, ma essendo soggettivamente in grazia di Dio. Il principio, anche in questo caso, è di carattere generale, ma ancora una volta esso non può essere applicato alla questione dei divorziati risposati perché con essi non c’è solo il problema della situazione individuale di stato di grazia, ma una manifesta contraddizione nella dimensione pubblica e sacramentale della vita rispetto all’Eucaristia, come chiaramente afferma il CIC 915 (2). Del resto si potrebbe anche dire che “l’aiuto dei sacramenti” viene già offerto fin dall’inizio del cammino dell’accompagnamento, perché la riconciliazione sacramentale è un processo che inizia fin dal primo dialogo col sacerdote, anche se può concludersi con l’assoluzione solo in presenza di un pentimento e di un proposito di cambiamento di vita, che ponga il penitente in armonia con la verità dell’amore, secondo il vincolo indissolubile che lo lega al coniuge.

La pluralità delle interpretazioni tra loro incompatibili è fonte di confusione prima di tutto tra vescovi e presbiteri. Infatti se essa può stimolare interessanti discussioni e approfondimenti teologici, porta sconcerto e danno alla pastorale concreta. Ciò che è permesso a Malta o in Germania, non lo è a Philadelphia o in Polonia. Gli ormai famosi “dubia” proposti al Santo Padre da alcuni Cardinali e poi ripresi da vescovi e teologi hanno messo in evidenza secondo una forma tradizionale e rispettosa perplessità legittime circa la compatibilità di talune interpretazioni di “Amoris Laetitia” con il Magistero della Chiesa e in particolare con l’enciclica di San Giovanni Paolo II “Veritatis splendor” che purtroppo non viene mai citata nella stessa esortazione post-sinodale. Si tratta di questioni ineludibili sulla coerenza di queste interpretazioni con principi essenziali di morale e di dottrina sacramentaria.

La risposta data dal card. Walter Kasper che “Amoris Laetitia” non cambia la dottrina, ma piuttosto il paradigma (“Ein Paradigmwechsel ändert nicht die bisherige Lehre”) (3) e che lo farebbe da un lato riscoprendo la morale delle virtù di Tommaso d’Aquino e dall’altro sviluppando l’insegnamento di San Giovanni Paolo II, mentre resta del tutto da verificare nella sua plausibilità generale, sul piano specifico della discussione sembra un mero éscamotage, che lascia del tutto irrisolta la questione della contraddittorietà tra una prassi di disciplina sacramentale prima esclusa, proprio dal Magistero del grande Papa polacco anche sulla base del pensiero tomista, ed ora invece ammessa.

Si profila così un primo compito del teologo moralista che, proprio in servizio della pastorale, è chiamato a fare chiarezza sui principi interpretativi del documento, offrendo di esso un’ermeneutica coerente almeno a tre livelli. Innanzitutto di coerenza interna dei punti di ambivalenza con i principi fondanti di “Amoris Laetitia” stessa, che chiede di sviluppare una “pastorale del vincolo” matrimoniale indissolubile (AL 211) e invita a far perno sulla verità dell’amore, di cui parla San Paolo in 1 Cor 13 (4). Contrariamente a quanto chiesto da taluni teologi nel periodo intersinodale, come presupposto per un mutamento disciplinare (5), l’esortazione ha ribadito l’unità tra contratto e sacramento nel matrimonio (cfr. AL 75, che cita la dottrina tridentina secondo il CIC)  e l’indissolubilità del vincolo (cfr. AL 62). In secondo luogo va rispettato il principio di coerenza con il cammino sinodale, il quale non ha modificato la disciplina eucaristica della Chiesa: potremmo anzi dire, sulla base dell’andamento della discussione pubblica in Aula e delle conclusioni dei circoli, che i Padri sinodali hanno rifiutato talune proposte in tal senso, presenti in documenti preparatori, e si sono astenuti dall’auspicare un tale mutamento, al punto che la Relatio finalis della seconda assemblea ordinaria del 2015 neppure menziona l’Eucaristia quando parla delle situazioni difficili. Infine e soprattutto il testo si deve leggere in coerenza con il Magistero della Chiesa, antico e recente. Il card. Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in una dichiarazione del 1 dicembre 2016 ad un’agenzia cattolica austriaca, ha affermato che pur rispettando la decisione del Papa Francesco di non rispondere ai Dubia, in ogni caso «questo documento [“Amoris Laetitia”, ndr] non deve essere interpretato in modo tale da indicare che le precedenti dichiarazioni dei papi e della Congregazione della Dottrina della fede non sono più validi».

2. Le questioni di fondo in gioco

A partire dal tema pastorale concreto dell’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati si possono identificare alcune grandi questioni di fondo, che sono in gioco nel conflitto di interpretazioni del capitolo VIII dell’esortazione post-sinodale. Si tratta a mio avviso di punti dottrinali di rilevanza decisiva per la Chiesa, che erano già presenti nella discussione non solo recente, ma che sono riemerse ora con grande virulenza. Un teologo della morale dovrebbe certamente metterle a fuoco in tutte le loro implicazioni, perché la natura “cattolica” della teologia suppone il carattere organico della verità, nella quale “tout se tient”. Accenno solo rapidamente a tre aspetti.

a)    Innanzitutto mi sembra decisivo il tema del nesso tra dottrina, liturgia e vita. Molti interpreti che sostengono la linea della discontinuità disciplinare si affrettano a rassicurare che si tratterebbe di un cambiamento che investe solo la pastorale, ma che non tocca in alcun modo la dottrina. La dottrina viene così relegata nel museo dei tesori preziosi, ma inincidenti rispetto alla vita. Mentre la prassi pastorale sarebbe libera di modularsi sulle esigenze cangianti del tempo e degli uomini, senza essere legata da vincoli troppo rigidi. Ma è questa l’idea cattolica di “dottrina”? La fede della Chiesa ha sempre affermato che c’è un nesso intimo tra dottrina e vita mediato dalla liturgia: “lex credendi, lex orandi, lex agendi” (6). La dottrina della Chiesa infatti non dev’essere intesa secondo una riduzione razionalistica a delle formule: è invece la confessione e la celebrazione di un evento, che per sua natura chiede di esprimersi nella vita concreta della comunità e di ciascun fedele. Sradicata dalla dottrina rivelata e dalla liturgia, la pastorale diventa una questione di strategie umane di persuasione finalizzate al raggiungimento di obiettivi pratici. Ultimamente si riduce ad una questione di potere. Forse non andrebbe trascurato l’ammonimento del card. Robert Sarah che vede in questa separazione tra dottrina e pastorale la forma odierna di un’eresia devastante.

b)    Un secondo tema da considerare attentamente riguarda la sacramentalità in relazione con la coscienza. Alcuni interventi di conferenze episcopali (in maniera esplicita quello dei vescovi di Malta e, più implicitamente anche quello del comitato dei vescovi tedeschi), hanno affermato che l’accesso al sacramento dell’Eucaristia dovrebbe essere lasciato al giudizio della coscienza di ciascuno. Non si tratta qui ovviamente dell’interiore verifica della propria situazione di fronte a Dio, su cui “ciascuno deve esaminare se stesso” (I Cor 11, 28). Non è in questione infatti la valutazione della colpevolezza soggettiva rispetto a peccati del passato. Piuttosto è in gioco il giudizio o sulla sussistenza del vincolo coniugale sacramentale pubblico o sul fatto che relazioni sessuali non coniugali, che si configurano come adulterio o almeno come fornicazione, da cui non si intende recedere, siano compatibili o meno con la vita cristiana. Una simile visione introduce una ferita all’economia sacramentale della Chiesa e una soggettivizzazione radicale, cosicché una verità che la Chiesa insegna come fondata sulla rivelazione divina dovrebbe essere ultimamente sottoposta al giudizio della coscienza. La Chiesa mai ha confuso il foro sacramentale con il foro della coscienza; se così fosse, non avrebbero senso le parole del sacerdote che a nome della Chiesa dice: «Io ti assolvo». Egli dovrebbe piuttosto dire: «Prendo atto che la tua coscienza ti assolve» e così il sacramento della confessione perderebbe ogni significato ecclesiale obiettivo, come è tra i luterani.

c)    Entra anche in gioco la questione del rapporto tra la misericordia e le virtù morali. Secondo l’insegnamento della sana dottrina, riconfermata da “Veritatis splendor”, il valore morale di un atto “dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata” (n. 78), in accordo con la visione di san Tommaso d’Aquino. La regola e misura dell’agire è dunque di natura razionale, in rapporto ai fini delle singole virtù morali. La carità, che orienta gli atti umani al fine ultimo dell’amore di Dio, suppone questa misura razionale ma non definisce essa stessa la natura di un atto, sostituendosi alla norma delle virtù morali. In altre parole non spetta alla carità dirmi se un atto di uccisione di un malato terminale sia eutanasia o atto di pietà, non spetta alla carità dirmi che un atto sessuale con una persona diversa dal coniuge con cui sono legato da vincolo sacramentale indissolubile non è “ormai più” da considerarsi adulterio, ma atto di affetto giustificato. La misericordia, che è virtù in quanto movimento affettivo regolato dalla ragione (7), è subordinata alla carità e nel soccorrere alla miseria del prossimo deve lasciarsi regolare dalla norma delle virtù morali.

3. Cambio di “paradigma”?

Vorrei dedicare una riflessione un po’ più estesa ad un punto già accennato all’inizio: la questione del cambio di “paradigma” per la teologia morale, che l’esortazione post-sinodale “Amoris Laetitia” solleciterebbe (8). Il tema del mutamento di “paradigma” (Paradigmenwechsel) nella conoscenza è stato ampiamente trattato dall’epistemologo Thomas S. Kuhn (9), che definisce quest’ultimo come un codice di credenze condivise da una comunità, che regola il linguaggio e determina normativamente il contesto semantico delle affermazioni.

È chiaro per tutti che la dottrina nella Chiesa non è un sistema rigido e immutabile di formule, ma è un organismo vivente, che si sviluppa come un corpo. Essa tuttavia intende onorare fino in fondo l’insegnamento di Gesù, per cui «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24, 35). La riflessione dottrinale e teologica della Chiesa, nel corso dei secoli ha maturato una criteriologia per verificare la coerenza vitale della tradizione con le sue origini, senza aggiunte spurie e senza perdite di elementi essenziali: “eodem sensu, eademque sententia”. In particolare il beato John Henry Newman proprio a partire dalla sua stessa esperienza personale, ha offerto un saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana (10), mostrando come essa definisca uno spazio e scandisca il ritmo di un tempo. In altre parole: non si tratta dell’adattarsi ai ritmi del tempo lasciandosi cambiare dalle mode per farsi accettare, ma piuttosto di determinare essa stessa il ritmo della storia. Lo sviluppo della dottrina, senza rinnegare nulla di ciò che fu rivelato, ne mostra la perenne fecondità, evidenziandone aspetti nuovi e inediti nell’incontro con il mondo. Essa diventa così matrice di storia nuova, come è dimostrato proprio dalla vicenda singolare dell’introduzione nel costume pubblico e nella legislazione dell’indissolubilità del matrimonio nella società tardo antica, in cui il divorzio era praticato (11).

Per stringere il confronto tra la proposta di Kasper e il pensiero di Newman, va osservato che il Beato indica come “note” di continuità della dottrina sia la “preservation of the type” (prima nota), sia la “continuity of principles” (seconda nota). Il type sarebbe ciò che Kasper chiama “paradigma”, distinto dai principi. Ma dobbiamo osservare bene che per Newman, sia “type” che “principles” devono essere preservati, anzi il “type” è più decisivo dei principi stessi, perché contiene la forma basica dell’Idea cristiana lungo il tempo. Il mutamento di paradigma sarebbe, nel caso suggerito da Kasper, non un’eresia su un punto specifico di dottrina, ma addirittura una meta-eresia, che sconvolge la sostanza stessa della fede e della vita cristiana.

Allora possiamo comprendere che l’idea di un legittimo cambiamento di paradigma può essere accettata solo in un significato molto circoscritto e a patto che non si metta in discussione la forma basica della dottrina morale della Chiesa. Facciamo un esempio. Se ci troviamo in un contesto linguistico anglofono, il termine “gift” ha un significato molto positivo e gradevole: significa “dono”. Ma se cambiamo paradigma linguistico e andiamo in Germania, allora le stesse lettere significano “veleno”. Possiamo dire di aver cambiato solo il paradigma e non la realtà stessa se applichiamo ad un farmaco, prodotto in Germania come pericoloso, l’etichetta “dono”? Se nel discorso della montagna Gesù parla di “adulterio” e lo indica come un peccato, possiamo dire che siamo fedeli alla stessa dottrina se lo definiamo come una imperfezione in un cammino graduale verso l’ideale, la cui moralità va lasciata al giudizio di ogni singola coscienza? E se poi, per giustificarci arriviamo ad affermare che “all’epoca di Gesù non c’erano registratori” che possano garantirci ciò che Egli abbia davvero detto, oppure che oggi probabilmente anch’Egli avrebbe consentito al divorzio in forza del principio di misericordia (12), allora noi stiamo distruggendo le basi stesse della fede cattolica, al punto che l’obbedienza al successore di Pietro, pur fortemente invocata dagli innovatori, resterebbe essa stessa senza più alcun fondamento teologico e veritativo.

Il n. 300 di “Amoris Laetitia” parla di necessità di discernimento di ogni situazione “caso per caso”. In che senso questo ci invita ad un cambiamento di paradigma nella teologia morale, che non tradisca la tradizione della Chiesa e non renda vana la rivelazione contenuta nella parola di Gesù? Il periodo della casuistica moderna, insieme con le ricchezze di un approccio induttivo raffinato, ha anche manifestato talune aporie deleterie per la morale cristiana (13). Nonostante il tono polemico eccessivo, Pascal nelle sue “Provinciales” ha acutamente messo in luce il pericolo fatale di quella mentalità legalistica, che mediante l’abilità del sottile ragionamento umano vanifica il comandamento di Dio (cfr. Mc 7, 8): “Ecce Patres qui tollunt peccata mundi!” (14).

L’enciclica di san Giovanni Paolo II “Veritatis splendor” rimane un punto magisteriale irrinunciabile per il superamento dei rischi di una casistica arbitraria e di un’etica di situazione soggettivistica.  Essa ha  autorevolmente insegnato il criterio limite di verifica della conformità con la “sana dottrina”: «la riaffermazione dell’universalità e dell’immutabilità dei comandamenti morali, e in particolare di quelli che proibiscono sempre e senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi» (n. 115). Ha anche rifiutato la tesi di un «duplice statuto della verità morale», per cui «tenendo conto delle circostanze e della situazione, (si) potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale» (n. 56). Ha anche respinto come contraria alla dottrina della Chiesa una «interpretazione creativa della coscienza morale» (n. 54 e seguenti). L’attenzione alle persone e la conversione pastorale della teologia morale non può significare la rinuncia alla dottrina sull’assolutezza delle norme morali negative, che proscrivono sempre e senza eccezioni le azioni che sono per il loro oggetto “intrinsecamente cattive”. E non può significare il ritorno all’impostazione casuistica della contrapposizione tra legge e coscienza, sulla base di un nominalismo volontaristico, che svuota la legge da ogni contenuto veritativo sul bene e la concepisce come espressione arbitraria e mutevole della volontà del legislatore, Divino o umano.

Papa Francesco, nell’esortazione “Amoris Laetitia” ci invita a fare un passo in avanti e non un passo indietro. Non il ritorno alla casuistica, ma lo sviluppo di una teologia morale che sappia farsi carico dell’istanza pedagogica di un cammino di sequela di Cristo, spiccatamente caratterizzato dal primato della grazia.

Il cambiamento di paradigma rispetto ad una visione legalistica e deduttivistica della morale era già stato auspicato e indicato da “Veritatis splendor” (cfr. n. 78), la quale però aveva nel contempo enunciato il criterio limite affinché non si cadesse in un mutamento di forma (type) della morale cattolica, che ne snaturasse la sostanza, in rottura con la “sana dottrina” (II Tim 4, 3). La coerenza con questa enciclica di San Giovanni Paolo II e quindi il rispetto del nucleo essenziale del suo insegnamento, cioè l’esistenza di un criterio limite nell’assolutezza delle norme morali negative, che proibiscono senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi, non è solo garanzia di continuità della nostra interpretazione di “Amoris Laetitia” con la Tradizione. È anche condizione per non tornare indietro, ad una morale casuistica o soggettivistica, e condizione per realizzare la preoccupazione fondamentale espressa da papa Francesco, di un accompagnamento pastorale dei più lontani, fragili e peccatori, alla verità dell’amore.

4. Centralità della questione educativa per la teologia morale

Avviandomi alla fine del mio intervento, vorrei spiegare l’ultimo accenno fatto, citando un’indicazione estremamente acuta ed attuale del Card. Jean-Marie Lustiger,  sul tema della gradualità, a proposito dell’esortazione apostolica post-sinodale “Familiaris consortio” (15). Il suo argomento principale può essere così sintetizzato: l’esclusione della gradualità della legge è la condizione di possibilità della legge della gradualità. Cioè: solo se si mantiene il valore obbligante e non meramente “ideale” del comandamento di Dio, solo allora è possibile una pedagogia graduale di accompagnamento, basata sulla grazia e sulla conversione.

Attualizzando la sua argomentazione potremmo dire che solo l’interpretazione di “Amoris Laetitia”, che nella fedeltà al magistero precedente, mantiene il valore vincolante della prassi tradizionale è in grado di fondare quell’atteggiamento pastorale di accompagnamento, che papa Francesco sollecita per i pastori della Chiesa e che la teologia morale ha il compito di sostenere. Le letture permissiviste pensano di risolvere i problemi di integrazione delle situazioni “irregolari” mediante un cambiamento della norma e della disciplina. In realtà, quest’azione solo apparentemente misericordiosa non è un’azione pastorale, ma piuttosto un atto legale, che rende superflua la cura pastorale (16).

Una teologia morale rispondente alle sfide poste da “Amoris Laetitia” e dalla conversione pastorale chiesta da papa Francesco dovrà quindi sviluppare coerentemente la dottrina di “Veritatis splendor” nella linea della centralità della questione educativa per la morale. Segnalo telegraficamente quattro linee di sviluppo:

a)    Innanzitutto si raccomanda la prospettiva delle virtù, che è anche quella della ricostruzione del soggetto morale cristiano; si tratta di collocarsi nella prospettiva del soggetto agente, secondo l’indicazione di VS 78, da formare nella verità e negli affetti, e non in quella prospettiva dell’osservatore esterno, che giudica per assolvere o condannare gli atti.

b)    Proprio nella linea appena indicata si inserisce la giusta comprensione della razionalità pratica e della prudenza, che San Tommaso d’Aquino ha valorizzato nella fase matura del suo pensiero etico (17). Questa virtù non procede per applicazione di principi generali alla varietà dei casi, secondo la metodologia della casistica decadente, oppure per deduzione da verità metafisiche di tipo speculativo come insegnava la neo-scolastica, ma piuttosto sa cogliere nel concreto l’azione più adeguata alla realizzazione della “veritas practica”, in forza di una connaturalità del soggetto col bene, garantita dalle altre virtù morali.

E tuttavia “la verità della soggettività”, che la dottrina tomista sulla prudenza esprime, non può essere confusa con un’ermeneutica relativistica, come quella che ad esempio Hans Georg Gadamer propone della “fronesis” aristotelica” nel libro sesto dell’Etica Nicomachea (18). L’Aquinate infatti riconosce che la ragione pratica ha una dimensione universale di verità, per cui l’oggetto di un atto può essere colto già in se stesso come cattivo, a prescindere dalla considerazione delle circostanze e delle intenzioni soggettive.

Nel Commento all’etica aristotelica, più volte ricorre l’osservazione che non tutte le operazioni umane sono suscettibili di giusto mezzo, che competa alla prudenza determinare (19). Si danno infatti azioni che implicano già nel loro stesso nome una malizia: tali azioni sono cattive di per sé e non in quanto comportino una sovrabbondanza o un difetto. Pertanto al loro riguardo non si dà mai il caso che uno agisca rettamente compiendole, anzi facendole si compie sempre un peccato. Ed è significativo che Tommaso menzioni qui esplicitamente proprio il caso dell’adulterio, che tra i commentatori greci di Aristotele era oggetto di discussione come eventuale eccezione giustificata nelle circostanze in cui potesse servire alla salvezza della patria.

c)    La vita morale delle persone ha bisogno di un ambiente favorevole attorno a sé, e quindi l’etica ha bisogno di un “ethos” condiviso in una comunità e in una cultura, anche se minoritaria. Può essere utile ed efficace l’idea delle “pratiche di vita buona”, che mettono in gioco il carattere comunitario della vita morale e la necessità della mediazione della cultura ambiente per la formazione del carattere morale del soggetto (20).

d)    Infine, ma come dimensione originaria e fondante, si tratta di riconoscere il carattere cristocentrico della vita morale cristiana, e quindi anche il primato della grazia, che sostiene sia la necessaria e permanente conversione, sia la crescita progressiva nella carità.

Papa Francesco ha chiesto alla Chiesa di porre attenzione alle famiglie fragili, ferite, segnate da povertà materiali e spirituali. Ma occorre saper guardare ai drammi e alle miserie umane con lo sguardo della fede che le scorge nella prospettiva della Redenzione di Cristo e che per questo non si rassegna e non adatta la legge alla misura delle possibilità umanamente prevedibili. San Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Veritatis splendor” ci ha messo in guardia da questa tentazione in fondo pelagiana: «Solo nel mistero della Redenzione di Cristo stanno le concrete possibilità dell’uomo» (n. 103). Sì, alla fine è proprio questo che è in gioco anche nella teologia morale: la realtà della redenzione di Cristo, «ut non evacuetur Crux Christi» (I Cor 1, 17).

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NOTE

(1) Va peraltro osservato che, al di là delle conclusioni pratiche, tra i sostenitori di una prassi innovativa si possono evidenziare argomentazioni divergenti e perfino contraddittorie.

(2) Pur essendo di carattere generale il principio invocato non specifica che si tratti di una situazione manifesta e pertinace, condizioni cruciali secondo il CIC 915, per non ammettere all’Eucaristia. Neppure si menziona la questione specifica dei divorziati in nuova unione, cioè la contraddizione oggettiva tra due sacramenti, che invece è proprio l’argomento offerto da “Familiaris Consortio” 84 e “Sacramentum Caritatis” 29 al riguardo.

(3) W. Kasper, “Amoris laetitia: Bruch oder Aufbruch. Eine Nachlese“, in Stimmen der Zeit 11 (2016), 723-732. Nello stesso senso si muove anche il più articolato intervento di E. Schockenhoff, “Traditionsbruch oder notwendige Weiterbildung? Zwei Lesearten des Nachsynodalen Schreibens Amoris laetitia” in Stimmen der Zeit 3 (2017), 147-158.

(4) Si veda: cap. IV di AL, in particolare n. 90; cfr. anche AL 294, che parla del “desiderio di amore vero” nel cuore della persona

(5) Cfr. A. Bozzolo – M. Chiodi – G. Dianin – P. Sequeri – M. Tinti, “Famiglia e Chiesa un legame indossolubile. Contributo interdisciplinare per l’approfondimento sinodale”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015. In particolare si vedano gli interventi di E. Schockenhoff che riprende le tesi del suo saggio: “Chanchen zur Versӧhnung. Die Kirche und die wiederverheirateten Geschiedenen”, Herder, Freiburg 2011.

(6) Su questo: J. Granados, Eucaristia e divorzio: cambia la dottrina?, Cantagalli, Siena 2015, 35-61.

(7) S. Th. I-II, q. 30, a. 3.

(8) È ormai una tesi sostenuta da molti che l’esortazione apostolica rappresenti una svolta epocale nella teologia morale. Si veda: S. Goertz – C. Witting (Hrsg.), “Amoris laetitia – Wendepunkt für Moraltheologie?”, Herder, Freiburg 2016; l’edizione italiana contiene alcuni contributi supplementari:  S. Goertz – C. Witting (a cura di), “Amoris laetitia. Un punto di svolta per la teologia morale?”, ed. it. a cura di A,. Autiero, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2017.

(9) Cfr. T. S. Kuhn, “The Structure of Scientific Revolution”, The University of Chicago, Chicago 1970, in particolare il Postscriptum 1969.

(10) Cfr. J. H. Newman, “An Essay on Development of Christian Doctrine”, Notre Dame University Press, Notre Dame 1989.

(11) Lo documenta D. D’Avray, “Medieval Marriage: Symbolism and Society”, Oxford University Press 2005, 206-207.

(12) Si tratta di affermazioni rispettivamente del Preposito Generale della Compagnia di Gesù, P. Arturo Sosa Abascal, intervista di G. Rusconi sul sito www.rossoporpora.org, ripresa in versione rivista dall’Autore ne “Il giornale di Lugano” del 18 febbraio 2017; e del gesuita americano P. Thomas Reese, “What God has joined”, in National Catholic Reporter, 6 aprile 2017.

(13) Si veda: A.R. Jonsen – S. Toulmin, “The Abuse of Casuistry. A History of Moral Reasoning”, University of California Press, Berkeley 1988.

(14) Cfr. P. Cariou, “Pascal et la casuistique”, Presses Universitaires de France, Paris 1993.

(15) J.M. Lustiger, “Gradualità e conversione”, in AA.VV., “La ‘Familiaris consortio’”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982, 31-57.

(16) Si veda per tutto questo: J. Granados – S. Kampowski – J.J. Pérez-Soba, “Amoris laetitia. Accompagnare, discernere, integrare. Vademecum per una nuova pastorale familiare”, Cantagalli, Siena 2016.

(17) Si veda. G. Abbà, “Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d’Aquino”, Las, Roma 1983.

(189 Cfr. H. G. Gadamer, “Das hermeneutische Problem und die aristotelischen Ethik”, in “Das Problem des historischen Bewuβtsein”, üb. T. N. Klass, Mohr Siebeck Verlag, Tübingen 2001.

(19) Sententia Libri Ethicorum II, 7, 143-145. Si veda: L. Melina, “La conoscenza morale. Linee di riflessione sul Commento di san Tommaso all’Etica Nicomachea”, 2° edizione: ISU Università Cattolica, Milano 2005, 121 (1° edizione: Città nuova, Roma 1987). Nello stesso senso anche: M. Rhonheimer, “Praktische Vernunft und Vernunftigkeit der Praxis. Handlungstheorie bei Thomas von Aquin in ihrer Entstehung aus dem Problemkontext der aristotelischen Ethik”, Akademie Verlag, Berlin 1994, 530-592.

(20) Su questo punto si veda la riflessione di A. McIntyre nella seconda parte del suo noto saggio: “After Virtue. A Study in Moral Theory”, 2° edition, Duckworth, London 1985. Per un’applicazione alla famiglia è in pubblicazione: S. Kampowski (a cura di), “Pratiche di vita buona per una cultura della famiglia”, Cantagalli, Siena 2017.