Articoli / Blog | 22 Luglio 2017

Agi – Con una gaffe Di Battista ha messo a nudo un grosso problema della comunicazione

Il lapsus di Alessandro Di Battista che parlando a braccio in Aula alla Camera confonde Austerlitz con Auschwitz porta alla ribalta un problema che riguarda tutti quelli che bene o male devono parlare in pubblico: e bene o male in pubblico ormai ci dobbiamo parlare tutti. Il punto è che, oggi come oggi, parlare davanti a qualcuno leggendo un testo già scritto è praticamente impossibile.

Appena prendi i fogli in mano, chi ascolta smette di ascoltare. Non è solo un problema di occhi, di sguardi che cessano di incontrarsi: è che, quando scrivi, la forma stessa assunta dai tuoi discorsi cessa di essere quella del discorso per diventare subito un maledetto “pensiero”. Concettualizzi, usi congiuntivi e condizionali, termini esatti ma ricercati, principali e subordinate, cioè un caravan serraglio pensieroso cui nessuno di noi è più abituato per cui smette di ascoltare, si distrae e “stacca”.

Addirittura, oggi, l’obiettivo non è parlare come si scrive ma scrivere come si parla. Io ammiro chi scrive come parla, lo studio e cerco di imparare. “Scorre bene” dice chiunque di noi quando legge un articolo o un libro senza che la sua attenzione faccia fatica ad andare avanti e venga meno durante la lettura. E, “scorre bene”, significa che la parola scritta è molto simile alla parola parlata. La quale parola quotidiana, a propria volta, è molto simile a come i neuroni del nostro cervello sono abituati a collegarsi tra loro per dire e per ascoltare: cioè per pensare.

Nelle lezioni di retorica di un tempo si cercava l’effetto contrario. Chi non avesse parlato in modo ampolloso sarebbe stato preso per sciatto e ignorante. Pochi sanno che per secoli, fino ai tempi di Pio XII, dal Papa in giù tutti i preti – davvero tutti – dovevano scrivere i testi delle loro prediche e poi impararli a memoria. Scriverli assicurava che sembrassero eruditi, precisi, esatti, impegnati. Complicati certo, ma grazie a ciò distanti da una vita feriale che era durissima, spesso mortale, ingiusta, e dalla quale l’unica possibilità di emanciparsi era spesso il distanziamento della retorica: che faceva capire ben poco ma almeno consentiva una boccata d’aria, un po’ di riposo, una distrazione in qualche modo elegante.

Nulla c’era di meglio di un bel discorso astratto, di un modo di parlare depurato da tutta la terra, la lordura, l’incertezza quotidiana. La gente semplice che ascoltava apprezzava quella complicazione proprio perché segnava la distanza dal loro modo di esprimersi feriale, monosillabico e rozzo: li faceva sentire persone cui il parroco dava importanza perché dava loro tempo preparando un discorso con un modo di parlare che era distante anche dal modo di parlare quotidiano del parroco stesso. I biografi raccontano del povero Curato d’Ars che, ignorante com’era (ma le sue prediche, che erano semplici, per l’appunto non denunciano tale ignoranza) scriveva l’omelia la domenica precedente la proclamazione e poi passava l’intera settimana ad impararla a memoria.

Oggi, Papa Francesco parla quasi sempre a braccio. Non solo in aereo o a Santa Marta. Anche quando legge i suoi discorsi scritti. Ciò che rimane di più di essi sono gli incisi improvvisati che fa: quegli incisi che irritano i vaticanisti perché li obbligano a un surplus di lavoro, a non limitarsi al discorso “ufficiale” che la Segreteria di Stato passa loro prima che vengano pronunciati, e che invece erano diligentemente letti tali e quali da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Di regola, appunto, Bergoglio non pronuncia mai i suoi discorsi così come sono, cioè li legge il meno possibile. Il Papa, come lo sfortunato Di Battista, cerca l’effetto opposto a quello apprezzato da Pio XII e dalla gente che nei secoli passati, senza televisione, internet, giornali e cinema, trovava nei discorsi delle persone importanti l’unica distanza dalla rude vita quotidiana.

Il politico di oggi, come anche il Papa di oggi, sa che se legge un discorso scritto chi lo ascolta pensa che quanto sta leggendo non è davvero suo: non del Romano Pontefice o del parlamentare ma di qualcuno che gli ha preparato il discorso. E quindi, inevitabilmente, il discorso perde forza, vigore, autorevolezza. Così, agli antipodi di quanto faceva Pio XII, Papa Francesco – e allo stesso modo ha dovuto comportarsi il povero Di Battista – improvvisa una chiosa, una battuta, un chiarimento, una sottolineatura: che lo avvicina alla gente e che di fatto è l’unica cosa che veramente rimane nel ricordo. Com’è accaduto al parlamentare pentastellato di cui oggi si parla non per quello che ha detto ma per la gaffe che ha fatto.

Tratto da Agi